Rachel Carson. Primavera silenziosa. Titolo dell'opera originale Silent Spring Traduzione dall'inglese di Carlo Alberto Gastecchi ----------------------------------- Universale Economica Feltrinelli ----------------------------------- Copyright 1962 by Rachel L. Carson Copyright Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Quinta edizione nell'"Universale Economica" aprile 1990 Feltrinelli "L'uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Egli finirà per distruggere la terra" (A' Schweitzer). "Sono pessimista sul genere umano perché esso è troppo ingegnoso per poter essere felice. Il nostro rapporto con la natura consiste nel cercare di sottometterla. Noi avremmo migliori possibilità di sopravvivere se ci adattassimo al nostro pianeta e lo valutassimo in modo più positivo, invece di considerarlo in modo così scettico e dittatoriale" (E.B. White). Queste citazioni, poste dalla Carson come epigrafe al suo libro, possono sembrare pessimiste, ma la gravità dei problemi affrontati le giustifica ampiamente, a maggior ragione se si pensa che Primavera silenziosa è un testo che risale al 1962 e che è ormai considerato un classico, nei confronti del quale si è più volte, in questi ultimi tempi, manifestato l'interesse dei Verdi e degli ecologisti. L'analisi che l'autrice fece della situazione americana (le tecniche dell'agricoltura, il rapporto colture-alimentazione, gli insetticidi chimici) allora fortemente anticipatrice è oggi, purtroppo, divenuta di grande attualità anche in Europa. Sui temi della lotta biologica, sulle monocolture che favoriscono la proliferazione degli insetti nocivi, c'è oggi un interesse specifico che va nella direzione della protezione ambientale e della necessità di rettificare il rapporto uomo-natura. Ad Albert Schweitzer che disse: "L'uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Andrà a finire che distruggerà la Terra." Il giunco è appassito sul lago, e nessun uccello canta più. Keats Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere. E.B. White Premessa In una lettera del gennaio 1958, Olga Owens Huckins mi parlava della sua amara esperienza "d'un piccolo mondo ormai privo di vita", e riportava d'un tratto la mia attenzione su un problema che già da tempo mi ero posto. E decisi allora che dovevo scrivere questo libro. Negli anni successivi ho ricevuto aiuti ed incoraggiamenti da tante persone che non mi è possibile nominare qui singolarmente. Coloro che hanno condiviso con me i frutti di un lungo periodo di esperienza e di studio appartengono ad una vasta cerchia di enti governativi statunitensi e stranieri, di università e di istituti di ricerca e professionali. A tutti esprimo una profonda riconoscenza per il tempo e le idee che mi hanno generosamente elargito. La mia particolare gratitudine va anche a chi ha letto i vari capitoli del manoscritto, fornendomi commenti e rilievi critici suggeriti dalle proprie conoscenze specifiche. Anche se la responsabilità per l'esattezza e la validità del testo ricade interamente su me, devo dire che non avrei potuto portare a termine il presente volume senza l'aiuto premuroso dei seguenti specialisti: L.G. Bartholomew, M.D., della Mayo Clinic; John J. Biesele della University of Texas; A.W.A' Brown della University of Western Ontario; Morton S. Biskind, M.D., di Westport (Connecticut); C.J. Brejèr del Servizio Protezione Piante olandese; Clarence Cottam della Rob and Bessie Welder Wildlife Foundation; George Crile Jr., M.D., della Cleveland Clinic; Frank Egler di Norfolk (Connecticut); Malcom M. Hargraves, M.D., della Mayo Clinic; W.C' Hueper, M.D., del National Cancer Institute; C.J. Kerswill del Fisheries Research Board of Canada; Olaus Murie della Wilderness Society; A.D. Pickett del Canada Department of Agriculture; Thomas G. Scott della Illinois Natural History Survey; Clarence Tarzwell del Taft Sanitary Engineering Center e George Y. Wallace della Michigan State University. Uno scrittore, quando scrive un libro denso di riferimenti, deve fare assegnamento anche sulla bravura e sull'aiuto dei bibliotecari. Ed anch'io ho un debito nei loro confronti, specialmente verso Ida K. Johnston del Department of the Interior Library e Thelma Robinson della Library of the National Institute of Health. Così pure il mio agente editoriale, Paul Brook, mi è stato di grande sostegno durante anni ed anni di lavoro e ha cortesemente sopportato remore e differimenti. Pertanto, anche per la sua comprovata abilità nel campo dell'editoria, gli sono sinceramente obbligata. Ho inoltre usufruito, per la necessaria e considerevole mole della ricerca bibliografica, dell'assistenza diligente ed appassionata di Dorothy Algire, Jeanne Davis e Bette Haney Duff. Devo aggiungere poi che, a causa di circostanze per me davvero difficoltose, non sarei forse riuscita nell'intento senza il fiducioso aiuto della mia governante Ida Sprow. Ed, infine, devo far presente che sono debitrice verso una folla di persone, molte delle quali a me sconosciute, ma che non di meno rendono legittima la pubblicazione di un libro come questo. Sono le persone che per prime si levarono contro l'avvelenamento irresponsabile ed impudente della Terra su cui viviamo insieme con tutte le altre creature, e stanno oggi combattendo migliaia di piccole battaglie destinate a far trionfare il buon senso e la ragionevolezza nel nostro adattamento al mondo che ci circonda. Rachel Carson Capitolo primo - Una favola che può diventare realtà C'era una volta una città nel cuore dell'America dove tutta la vita sembrava scorrere in armonia con il paesaggio circostante. La città si stendeva al centro d'una scacchiera di operose fattorie, tra campi di grano e colline coltivate a frutteto dove, di primavera, le bianche nuvole dei rami in fiore spiccavano sul verde dei prati. D'autunno le querce, gli aceri e le betulle si vestivano di un fogliame rosseggiante che lampeggiava come fiamma tra le scure cupole dei pini. Era quello il tempo in cui le volpi ululavano sulle colline e i daini scorrazzavano silenziosi nella campagna, seminascosti dalla bruma del mattino. Lungo le strade, siepi di bosso e di alloro, ontani, felci giganti e fiori selvatici rallegravano l'occhio del viandante per buona parte dell'anno. Perfino d'inverno i bordi delle strade avevano una loro particolare bellezza, perché innumerevoli uccelli si abbassavano sulla terra per nutrirsi delle bacche e delle gemme rimaste sui rami sporgenti dalla neve. La regione era famosa, infatti, per l'abbondanza e la varietà degli uccelli che vi stanziavano e, quando gli stormi migranti arrivavano e ripartivano in primavera e in autunno, la gente veniva da grandi distanze per assistere al loro passaggio. Altri visitatori venivano a pescare lungo i corsi d'acqua che scendevano limpidi e freddi dalle montagne; qui, in punti ombrosi e profondi, le trote deponevano le uova. Così era sempre stato fin da quando, molti anni prima, i primi coloni avevano edificato le loro case, scavato i pozzi e costruito i fienili. D'improvviso un influsso maligno colpì l'intera zona, ed ogni cosa cominciò a cambiare. La popolazione cadde sotto il potere di una diabolica magia; il pollame fu decimato da misteriose malattie; i bovini e le pecore si ammalarono e perirono. Dappertutto aleggiava l'ombra della morte. Ogni giorno, nelle campagne, i contadini parlavano di malanni che colpivano le loro famiglie. Nelle città i medici erano costretti a far fronte sempre più spesso a malattie nuove che colpivano i loro pazienti. Si andavano verificando subitanei ed inesplicabili decessi non soltanto tra gli adulti, ma anche tra i fanciulli: fanciulli che venivano ghermiti improvvisamente dal male mentre erano intenti a giocare e non sopravvivevano più di qualche ora. Si trattava d'una singolare epidemia. Gli uccelli, per esempio: dov'erano andati a finire? Molta gente ne parlava con perplessità e sgomento;nei cortili non se ne vedeva più uno in cerca di cibo. I rari uccellini che si potevano vedere erano moribondi; assaliti da forti tremiti, non potevano più volare. La primavera era ormai priva del loro canto. Le albe, che una volta risuonavano del gorgheggio mattutino dei pettirossi, delle ghiandaie, delle tortore, degli scriccioli e della voce di un'infinità di altri uccelli, adesso erano mute; un completo silenzio dominava sui campi, nei boschi e sugli stagni. Nelle fattorie le chiocce continuavano a covare, ma nessun pulcino nasceva. I contadini si lamentavano perché non riuscivano più ad allevare i maiali: infatti ben pochi porcellini venivano al mondo, ed anche quei pochi sopravvivevano per breve tempo. Giunse per i meli la stagione della fioritura, ma le api non danzavano più fra le corolle; non vi fu quindi impollinazione e non si ebbero frutti. I bordi delle strade, prima tanto attraenti, erano adesso fiancheggiati da una vegetazione così brulla ed appassita che sembrava devastata da un incendio. E pure qui regnava il silenzio e si notava l'assenza di un qualsiasi segno di vita. Anche i corsi d'acqua erano rimasti spopolati. Ed i pescatori li disertavano giacché tutti i pesci erano morti. Nelle grondaie e tra le tegole dei tetti apparivano le tracce d'una polvere bianca e granulosa; essa era caduta come neve, qualche settimana prima, sulle case e sulle strade, sui campi e sui fiumi. Nessuna magia, nessuna azione nemica aveva arrestato il risorgere di una nuova vita: gli abitanti stessi ne erano colpevoli. Una città come questa non esiste nella realtà, ma la si può ricostruire prendendo come esempio migliaia di località in America e in ogni altra parte del mondo. Nessuna comunità - per quanto ne sappia - è stata finora bersagliata dal complesso di sciagure che ho qui descritto, tuttavia ciascuna di queste calamità ha davvero fatto la sua apparizione da qualche parte, e molti popoli hanno già subìto le conseguenze d'un buon numero di esse. Anche se inavvertito, un truce fantasma cammina al nostro fianco, e la catastrofe qui prospettata può facilmente diventare una tragica realtà. Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d'America? E' quanto cercherò di spiegare in questo libro. Capitolo secondo - Il dovere di sopportare La storia della vita sulla Terra è la storia dell'interazione tra gli esseri viventi e la natura circostante. L'ambiente esterno ha avuto una grande importanza nel plasmare la morfologia e il comportamento del regno vegetale ed animale. Al contrario, da quando la Terra esiste, gli esseri viventi hanno modificato l'ambiente in misura trascurabile; soltanto durante il breve periodo che decorre dall'inizio di questo secolo ai giorni nostri, una sola "specie" - l'uomo - ha acquisito una notevole capacità di mutare la natura del proprio mondo. Nel corso degli ultimi 25 anni questo potere non solo è diventato tanto grande da costituire un pericolo, ma ha assunto anche un aspetto completamente nuovo. Il più allarmante assalto, fra tutti quelli sferrati dall'uomo contro l'ambiente, è la contaminazione dell'aria, del suolo, dei fiumi e dei mari con sostanze nocive e talvolta mortali. Questo inquinamento è, nella maggior parte dei casi, irreparabile; le sequenze di reazioni da esso scatenate, sia nel mondo che deve alimentare la vita, sia nella vita stessa dei tessuti, sono per lo più irreversibili. In questa contaminazione ormai universale dell'ambiente, gli agenti chimici diventano sinistri, e non sempre noti, coadiutori delle radiazioni nel trasformare la natura reale del mondo - la natura reale della vita. Lo stronzio 90, sprigionato da un'esplosione nucleare nell'atmosfera, scende sulla terra insieme con la pioggia oppure, per spontanea ricaduta (fall-out), si deposita al suolo, è assorbito dalle erbe, dal frumento e dal granoturco, ed infine prende stabile dimora nelle ossa dell'uomo, dove resta finché c'è un alito di vita. Analogamente, certe sostanze chimiche irrorate sui terreni coltivati, nei boschi e nei giardini restano per lungo tempo sul suolo, e penetrano negli organismi viventi, che si contagiano l'un l'altro in una incessante catena di intossicazione e di morte. Oppure esse filtrano misteriosamente nelle correnti sotterranee per riemergere più tardi e, grazie alle trasformazioni operate dall'aria e dalla luce solare, combinarsi in nuove forme che uccidono la vegetazione, ammorbano il bestiame e diventano un'ignota minaccia contro la vita di coloro che si avvicinano ad una fonte per dissetarsi. "L'uomo", come ha detto Albert Schweitzer, "riesce raramente a ravvisare gli aspetti diabolici delle proprie creazioni". Sono state necessarie centinaia di milioni d'anni perché la vita sulla Terra assumesse la forma che oggi conosciamo - un enorme lasso di tempo in cui lo sviluppo, l'evoluzione e la differenziazione delle specie ha raggiunto uno stadio di adeguamento e di equilibrio con il mondo circostante. L'ambiente, che plasmava e regolava la vita, conteneva elementi utili per certi aspetti, ma pur ostili allo svolgersi di essa: certe rocce emettevano radiazioni pericolose; anche nella luce solare erano presenti raggi di piccola lunghezza d'onda, particolarmente insidiosi. Ma, con il passare del tempo - un tempo che non va misurato in anni, ma in millenni - la vita vi si è assuefatta e ha raggiunto l'attuale equilibrio. Giacché il tempo è un fattore fondamentale; ed è proprio il tempo che manca nel mondo moderno. La rapidità dei mutamenti in atto e la velocità con cui si producono situazioni sempre nuove derivano non già dal susseguirsi degli eventi naturali, ma dalla smania violenta ed avventata dell'uomo. Le radiazioni non sono più soltanto costituite dalle radiazioni di fondo sprigionate dalle rocce, o dal bombardamento di raggi cosmici, o dalle radiazioni ultraviolette della luce solare che esistevano anche prima della comparsa di qualsiasi germe di vita sulla Terra; sono ora il frutto innaturale della manomissione dell'atomo da parte dell'uomo. Le sostanze chimiche alle quali la vita ha fatto ricorso per raggiungere il suo assetto attuale non sono più soltanto il calcio, il silicio, il rame ed i minerali provenienti dalle rocce e trasportati dai fiumi verso il mare; oggi esse sono ottenute per sintesi grazie all'inventiva umana, nascono nei laboratori scientifici senza che ne esista un corrispondente in natura. Per assuefarsi a queste sostanze chimiche sarebbe necessario un periodo di tempo misurabile sulla scala degli eventi naturali; occorrerebbero molte generazioni e non già i pochi anni della vita di un uomo. Ma, quand'anche - per un miracoloso concorso di circostanze - si realizzasse questa eventualità, si tratterebbe pur sempre di un beneficio fittizio poiché, frattanto, i nostri laboratori continuerebbero a produrre incessantemente altre nuove e pericolose sostanze; basti pensare che, soltanto negli Stati Uniti, ogni anno cinquecento di esse trovano una loro possibilità di impiego. La cifra è sbalorditiva, anche se non se ne afferra completamente il significato: 500 nuove sostanze chimiche ogni anno, alle quali il corpo degli uomini e degli animali deve in qualche modo assuefarsi; e, per di più, sostanze chimiche completamente estranee a qualsiasi esperienza biologica. Tra esse, molte vengono usate nella lotta condotta dall'uomo contro la natura. Dal 1945 in avanti, più di 200 composti sono stati creati per estirpare erbacce e sterminare insetti, roditori ed altri organismi che, nel linguaggio dei nostri tempi, vengono considerati "pestilenziali": 200 composti messi in vendita con migliaia di differenti marchi di fabbrica. Da allora queste irrorazioni, polverizzazioni e vaporizzazioni vengono praticate universalmente nelle colture agricole, nei giardini, nelle foreste e nelle abitazioni; e si tratta di prodotti non specifici che sterminano tutti gli insetti, "buoni» e "cattivi», che impediscono agli uccelli di cinguettare ed ai pesci di guizzare nei fiumi e nei torrenti, che coprono ogni foglia d'una pellicola mortale e si depositano al suolo. Tutto ciò nell'unico intento di distruggere poche specie di gramigna e di parassiti. C'è mai qualcuno disposto a sostenere che sia possibile disseminare una tale quantità di veleni sulla superficie della Terra senza nuocere a tutto ciò che vive? Bisognerebbe davvero parlare non di "insetticidi», ma di "biocidi». Il processo della disinfestazione segue l'andamento di una spirale senza fine. Da quando venne permesso l'impiego del Ddt per usi civili, abbiamo assistito ad un costante aumento di produzione di composti chimici sempre più tossici. E questo è avvenuto perchè gli insetti, in una trionfale rivendicazione del principio di Darwin della sopravvivenza degli individui più atti, si sono man mano evoluti in razze più resistenti, immuni agli insetticidi usati fino allora. Donde la necessità di trovare un veleno più mortale, destinato ad essere soppiantato, in seguito, da qualcosa di ancora più micidiale. Bisogna anche aggiungere che ciò è avvenuto perché gli insetti da sterminare - per ragioni che spiegheremo più avanti - hanno manifestato spesso, dopo la disinfestazione, insospettati "ritorni di fiamma», di reviviscenza diventando più numerosi di prima Così la guerra chimica ingaggiata contro di essi non ha mai vinto la sua ultima battaglia, e tutte le forme viventi si trovano perennemente sottoposte al suo fuoco incrociato. Parallelamente all'eventualità della totale estinzione del genere umano in una guerra atomica, l'altro fondamentale problema della nostra epoca consiste, dunque, nella contaminazione dell'ambiente in cui viviamo ad opera di sostanze con un incredibile potenziale di devastazione - sostanze che si accumulano nei tessuti delle piante e degli animali e penetrano anche nelle cellule germinali per distruggere o alterare i fattori dai quali dipende l'eredità e, in ultima istanza la sorte stessa dell'umanità. Qualche sedicente profeta del nostro avvenire prevede già i tempi in cui sarà possibile modificare a piacimento il plasma del germe umano. Ebbene, con la nostra avventatezza, abbiamo già conseguito un obiettivo del genere, perché molte sostanze chimiche da noi prodotte, al pari delle radiazioni, provocano effettivamente mutazioni nei geni. E non è priva di un'amara ironia la constatazione che l'uomo può determinare il proprio futuro valendosi d'una bazzecola così banale come può esserlo la scelta di un insetticida. La verità è che oggi corriamo questo rischio. Perché mai? Gli storici che un giorno investigheranno sul nostro tempo avranno ben ragione di sorprendersi della mancanza di senso delle proporzioni di cui stiamo dando prova. Come è possibile, infatti, che esseri ragionevoli cerchino di impedire il diffondersi di poche specie di organismi "indesiderabili" servendosi di un mezzo che contamina la Terra intera ed è portatore di malattia e di morte anche per il genere umano? Eppure è proprio questo che stiamo facendo. E continuiamo a farlo adducendo ragioni che crollano nel momento stesso in cui le prendiamo in esame. Affermiamo che l'enorme e crescente impiego degli insetticidi è necessario per preservare la produzione agricola. Ma non siamo noi stessi costretti a fronteggiare, al contrario, un problema di sovrapproduzione? La nostra agricoltura, nonostante le misure adottate per ridurre la superficie coltivata (compensando i contadini che non producono), ha registrato una tale sorprendente sovrabbondanza di raccolti che i contribuenti americani, per il 1962, stanno pagando più di un miliardo di dollari all'anno di tasse per la spesa complessiva di trasporto richiesta dal piano per l'immagazzinamento di tale eccedenza. Ma può migliorare la situazione quando, in seno al Dipartimento dell'Agricoltura, da una parte si cerca di porre un freno alla produzione, mentre dall'altra si afferma, come avvenne nel 1958, che "la limitazione della superficie coltivata sotto il controllo della Soil Bank stimolerà l'interesse per l'impiego dei disinfestanti onde ottenere la massima produttività nei terreni ancora sottoposti a coltivazione?" Certamente non voglio qui negare l'esistenza d'un problema dei parassiti, né la necessità della lotta contro di essi. Affermo, invece, che tale lotta dev'essere guidata da una visione realistica, e non diventare un mito; e che i metodi da adottare non devono essere tali da comportare la nostra distruzione insieme con quella degli insetti. Il problema, la cui soluzione ha lasciato dietro di sé una scia così grande di conseguenze disastrose, dipende dal nostro moderno sistema di vita. Gli insetti pullulavano sulla Terra molto tempo prima che l'uomo vi facesse la sua comparsa; e, fin d'allora, erano presenti in una straordinaria varietà e dimostravano una eccezionale adattabilità. Dopo l'avvento dell'uomo, durante il corso dei millenni, una piccola parte delle 500.000 specie e più di insetti è diventata un'insidia al benessere dell'umanità per due ragioni: perché entrava in competizione con noi a proposito del rifornimento alimentare e, al tempo stesso, perché costituiva un pericoloso veicolo di malattia. Gli insetti portatori di gravi morbi hanno sempre destato un particolare allarme negli agglomerati urbani, specialmente dove le condizioni sanitarie erano precarie, come nel caso di calamità naturali o di guerra, o di una arretratezza di sviluppo economico e sociale. In questi casi si imponeva una lotta contro di essi. Nondimeno è di chiara evidenza - come possiamo oggi constatare - che il massiccio intervento chimico ha registrato successi soltanto parziali e, anzi, talvolta rischia di peggiorare la situazione cui vogliamo porre rimedio. Ai tempi dell'agricoltura primitiva, gli insetti non preoccupavano i coltivatori. Il problema sorse quando cominciarono a svilupparsi le colture con immensi appezzamenti di terreno riservati a monocoltura. Fu tale sistema a creare le condizioni favorevoli a esplosioni numeriche di particolari specie di parassiti. La produzione agricola imperniata su una sola coltura non trae alcun vantaggio dai principî che ispirano l'opera della natura; essa è un'agricoltura quale può concepirla una mente meccanica. La natura ha impresso al paesaggio una molteplice varietà, ma l'uomo ha cercato, con tutto il suo zelo, di renderlo monotono; è così che egli ha distrutto il complesso di controlli e di equilibri grazie al quale la natura mantiene ogni specie entro i giusti limiti. Uno dei più importanti fattori limitanti naturali consiste nel fatto che una specie dispone solo di un certo numero di habitat adatti ad essa. Se un insetto si nutre di grano, è ovvio che esso si riprodurrà più facilmente e in numero sempre maggiore in un territorio coltivato a grano che non in una zona dove la coltivazione di questo cereale sia alternata ad altre piantagioni inadatte al nutrimento di quel parassita. La medesima considerazione vale per altri casi. Una trentina di anni fa, o poco più, nelle città di vaste regioni degli Stati Uniti le strade erano fiancheggiate da lunghe, imponenti file di olmi. Oggi quella cornice arborea, creata con tanta speranza, è sotto la minaccia d'una completa distruzione perchè una malattia ha colpito tutte le piante: una malattia diffusa da un coleottero che avrebbe avuto ben poche possibilità di moltiplicarsi fino a diventare una smisurata moltitudine e a diffondersi di albero in albero, se gli olmi fossero stati piantati qua e là, in mezzo ad una vegetazione varia ed alternata. Un altro aspetto dell'attuale problema degli insetti merita di essere preso in esame in relazione alla storia dell'uomo e della Terra: la diffusione di migliaia di generi diversi di organismi dalle rispettive località d'origine verso nuove aree. L'ecologo inglese Charles Elton ha studiato ed illustrato nel suo recente libro The Ecology of Invasion tutte queste migrazioni. Nel Cretaceo, centinaia di milioni di anni or sono, la trasgressione marina coprì molti istmi che univano i continenti tra loro in modo che gli esseri viventi si trovarono confinati - secondo la definizione di Elton - in "distinte e gigantesche riserve naturali". In tali "isole" questi organismi, separati dai propri simili, si evolsero in molte nuove specie. Quando alcune terre si riunirono, circa 15 milioni di anni fa queste specie cominciarono a migrare in nuovi territori: è un movimento che non solo continua ancor oggi, ma sta ricevendo un notevole impulso per opera dell'uomo. L'importazione di piante è stato il principale fattore determinante dell'attuale diffusione delle specie, dato che, con esse, sono stati trasportati anche gli organismi che vi vivevano a loro spese. La istituzione delle "quarantene" è una misura di sicurezza relativamente recente e di parziale efficacia. Il solo United States Office of Plant Introduction ha introdotto negli U.S'A' almeno 200.000 specie e varietà di piante da ogni parte del mondo; sempre negli Stati Uniti, circa la metà dei 180 peggiori parassiti dei vegetali proviene dall'estero, e la più parte vi è arrivata "viaggiando abusivamente" sulle piante. Nei nuovi territori, questi vegetali ed animali importati - ormai fuori del raggio d'azione di quella ristretta cerchia di nemici naturali che ne impedivano l'eccessiva moltiplicazione nella terra d'origine - aumentano di numero con grande rapidità. Non è perciò un caso che i nostri più insidiosi insetti appartengono a specie importate. Queste invasioni - quella spontanea e quella favorita dall'uomo - sono destinate, con ogni probabilità, a protrarsi indefinitamente. Le quarantene e le massicce campagne di disinfestazione chimica costituiscono un costoso palliativo che permette solo di guadagnar tempo. Presto o tardi dovremo fronteggiare, secondo il dott. Elton, "un'alternativa di vita o di morte che esige non certo la scoperta di nuovi mezzi tecnici per sopprimere questa pianta o quell'insetto", ma invece un'approfondita conoscenza delle popolazioni animali e dei loro rapporti con il rispettivo ambiente, conoscenza atta a "promuovere un giusto equilibrio e a neutralizzare sia la prorompente forza di riproduzione, sia il verificarsi di nuove invasioni". Già oggi possediamo le necessarie cognizioni, che però non utilizziamo. Facciamo studiare i nostri ecologi nelle università e li inseriamo nelle commissioni governative, ma raramente ascoltiamo i loro consigli. E permettiamo che la pioggia letale di prodotti chimici continui a cadere come se non ci fossero altre alternative: le alternative invece esistono e sarebbero anche più numerose se la nostra capacità inventiva venisse indirizzata in questo senso. Siamo dunque caduti in uno stato di ipnosi tale da farci accettare come inevitabile ciò che è deteriore e nefasto, quasi che avessimo perduto la volontà o la preveggenza di tendere a ciò che è bene? In tale maniera - per citare le parole dell'ecologo Paul Shepard - "si ha l'impressione che ci stiamo trovando con l'acqua alla gola, proprio vicini al limite tollerabile di contaminazione ambientale... Perché dovremmo sopportare una dieta di deboli veleni, una casa con grigi dintorni, una cerchia di conoscenti che per poco non ci sono ostili, un frastuono di motori che quasi ci fa impazzire? Chi vorrebbe vivere in un mondo che è proprio al limite della dannosità?" Eppure è questo il mondo che sta avanzando verso di noi. La crociata organizzata per creare un mondo chimicamente sterile e privo di insetti sembra che abbia generato una specie di zelo fanatico in numerosi esperti e nella maggior parte delle cosiddette commissioni di controllo. E' ormai evidente che gli uomini impegnati nelle disinfestazioni esercitano dappertutto un potere assoluto. "Gli entomologi che sono addetti a tali operazioni... agiscono come parte lesa, giudici e giurati, come funzionari del fisco ed esattori e, infine, come sceriffi per rafforzare la propria autorità", commenta Neel Turner, un entomologo del Connecticut. Gli abusi più flagranti vengono così commessi senza ritegno dalle commissioni dei vari stati e da quelle federali. Non voglio con ciò sostenere che gli insetticidi chimici non debbano essere mai usati. Sostengo però che abbiamo affidato indiscriminatamente veleni e sostanze chimiche di grande efficacia biologica a gente assai o del tutto ignara della loro potenziale pericolosità. Abbiamo imposto il contatto con questi veleni ad una gran parte della popolazione senza chiedere il suo consenso e, spesso, a sua insaputa. Se il Bill of Right contempla una garanzia che protegga il cittadino contro i veleni mortali diffusi da privati o da pubblici ufficiali, ciò è certamente solo perché i nostri antenati, nonostante la loro saggezza e la loro antiveggenza, non potevano concepire una tale eventualità. Sostengo, inoltre, che abbiamo permesso l'impiego di queste sostanze chimiche dopo scarse o inesistenti indagini preventive sugli effetti che producono sul suolo, sull'acqua, sulla vita animale e vegetale e sull'uomo stesso. Molto probabilmente le generazioni future non ci perdoneranno la nostra imprudenza nei confronti dell'integrità del mondo naturale che alimenta tutta la vita. E vi è ancora una consapevolezza molto limitata della realtà di tale minaccia. Siamo in un'era di specialisti, ciascuno dei quali vede solo il suo particolare problema ed è ignaro del più vasto quadro in cui esso va collocato; in un'era dominata dall'industria nella quale il diritto di guadagnare un dollaro a qualsiasi costo viene raramente contestato. Quando, di fronte a qualche clamorosa evidenza di danni provocati dall'azione degli insetticidi, la gente protesta, le viene ammannita qualche mezza verità a mo' di tranquillante. Dobbiamo far tacere al più presto queste false assicurazioni, questo rivestimento edulcorato di fatti disgustosi. E' alla popolazione che viene richiesto di assumersi il rischio determinato da chi controlla le infestazioni. E' dunque la popolazione che deve decidere se bisogna andare avanti per questa strada; e può farlo soltanto se ha una completa conoscenza dei fatti. Per usare le parole di Rostand, "il dovere di sopportare ci dà il diritto di sapere". (1) non (1) La Carta dei diritti della Costituzione americana. ?N'd'T'* Capitolo terzo - Elisir di morte Per la prima volta nella storia del mondo, oggi ogni essere umano è sottoposto al contatto di pericolose sostanze chimiche, dall'istante del concepimento fino alla morte. Gli antiparassitari sintetici, in meno di vent'anni di impiego, si sono così diffusi nell'intero mondo animato e inanimato, che ormai esistono dappertutto. Sono stati ritrovati nella maggior parte delle principali reti fluviali ed anche nei corsi d'acqua sotterranei. Residui di tali prodotti permangono sul terreno anche una dozzina d'anni dopo l'irrorazione. Sono penetrati nel corpo dei pesci, degli uccelli, dei rettili e degli animali domestici e selvatici e vi si trattengono in tale misura che gli scienziati, quando effettuano i loro esperimenti su di essi, constatano la quasi impossibilità di trovare soggetti immuni. Sono stati riscontrati nei pesci di remoti laghi montani, nei lombrichi rintanati sotto il suolo, nelle uova degli uccelli e nell'uomo stesso, giacché si sono accumulati anche nella maggior parte di noi, senza distinzione di età. Si trovano nel latte materno e, probabilmente, nei tessuti dei nascituri. Tutto ciò è una conseguenza del sorgere improvviso e del prodigioso sviluppo di un'industria che produce sostanze chimiche sintetiche, cioè fabbricate dall'uomo, dotate di proprietà insetticide. Tale industria è figlia della seconda guerra mondiale: nella ricerca di aggressivi chimici per uso bellico, qualcuna delle sostanze prodotte nei laboratori si mostrò letale per gli insetti. E tale scoperta non fu casuale: gli insetti venivano largamente usati come test per valutare la tossicità di tali sostanze chimiche per l'uomo. Ne è così derivata una produzione apparentemente illimitata di insetticidi sintetici. Essi, per il fatto stesso di essere prodotti dall'uomo - grazie alla ingegnosa manipolazione delle molecole in laboratorio, alla sostituzione dei singoli atomi ed alla alterazione del loro assetto - differiscono notevolmente dai semplici insetticidi inorganicid el periodo anteguerra. Questi ultimi derivavano da minerali presenti in natura o da prodotti di origine vegetale - composti dell'arsenico,del rame, del piombo, del manganese, dello zinco, ecc., o piretro ricavato da fiori di crisantemo essiccati, solfato nicotinico tratto da qualche pianta affine al tabacco o rotenone contenuto in certe leguminose delle Indie Orientali. Ciò che distingue i nuovi insetticidi sintetici è la loro enorme attività biologica. Essi non soltanto hanno un immenso potere come veleni, ma sono in grado di inserirsi con altrettanta facilità nei più vitali processi, deviandone il corso in maniera funesta e spesso mortale. Così, come vedremo, distruggono gli stessi enzimi ai quali è assegnata la funzione di proteggere il corpo dalle insidie, bloccano i processi di ossidazione da cui il corpo trae le sue energie, stornano il normale funzionamento di vari organi, e possono infine stimolare in certe cellule quel mutamento lento ed irreversibile che conduce alla cancerogenesi. Frattanto la lista di nuovi e ancor più mortali composti chimici si allunga ogni anno e ne vengono proposti ulteriori impieghi, cosicché il contatto con essi è divenuto praticamente generale. La produzione di antiparassitari sintetici è passata negli Stati Uniti dai 56 milioni di chilogrammi circa del 1947 ai 290 milioni del 1960: un aumento, quindi, di oltre cinque volte, per un valore complessivo di oltre 250 milioni di dollari. Ma nei programmi e nelle speranze dell'industria questa gigantesca produzione dovrebbe essere solo un inizio. Conoscere tutti gli antiparassitari è quindi una cosa che ci riguarda tutti indistintamente. Se siamo arrivati al punto di vivere a così stretto contatto con queste sostanze - ingerendole con gli alimenti, trattenendole nel midollo stesso delle nostre ossa - dobbiamo pur sapere qualcosa di più sulla loro natura ed efficacia. Anche se, con la seconda guerra mondiale, si è avuta una svolta nella produzione degli antiparassitari, dalle sostanze chimiche inorganiche al sorprendente mondo dei composti del carbonio, un limitato numero dei vecchi prodotti persiste tuttora. Il più importante tra essi è l'arsenico, che costituisce anche oggi l'ingrediente principale di certi disinfestanti di erbacce e di insetti. L'arsenico è un elemento di elevata tossicità che si trova largamente diffuso nei giacimenti di diversi metalli e, in piccole quantità, nei vulcani, nel mare e nelle acque di sorgente. I suoi rapporti con l'uomo sono molteplici e millenari: poiché numerosi suoi composti sono insapori, è stato spesso usato come veleno da molto prima dell'epoca dei Borgia fino ai giorni nostri. L'arsenico, rintracciato nella fuliggine dei camini e messo in rapporto con l'insorgenza del cancro, circa due secoli fa, da un medico inglese, è stato il primo cancerogeno (o sostanza che provoca il cancro) riconosciuto pubblicamente. Sono note pure epidemie che hanno colpito per lunghi periodi intere popolazioni ed erano dovute ad intossicazione cronica da arsenico. Inquinamenti ambientali da arsenico hanno altresì causato malattia e morte in cavalli, bovini, capre, maiali, cervi, pesci e api. Ma, nonostante questi fatti risaputi, le irrorazioni e le polverizzazioni di arsenico trovano ancora frequente impiego. Nelle piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti, l'apicoltura, prima altamente industrializzata, è pressoché scomparsa a causa delle disinfestazioni arsenicali. I coltivatori che hanno effettuato, per lunghi periodi, polverizzazioni di arsenico sono stati colpiti da intossicazioni arsenicali croniche; il bestiame è rimasto avvelenato dai disinfestanti arsenicali usati per proteggere le messi e distruggere la gramigna. Dalle distese di mirtilli, nubi di polvere di arsenico si sono diffuse sulle fattorie vicine, contaminando i corsi d'acqua, avvelenando le api ed i bovini, e provocando malattie tra gli uomini. "Difficilmente sarebbe stato possibile... maneggiare le sostanze arsenicali con maggior dispregio della salute pubblica di quanto non si sia fatto nel nostro paese durante gli ultimi anni", afferma il dott. Hueper del National Cancer Institute, un'autorità nel ramo dell'oncologia. Così egli prosegue: "Tutti coloro che hanno visto al lavoro gli addetti alle operazioni di irrorazione o di polverizzazione degli insetticidi arsenicali sono rimasti impressionati dalla quasi totale noncuranza con cui essi spargevano sostanze velenose". Gli insetticidi moderni sono ancora più nocivi. La maggior parte di essi appartiene ad uno di due ampi gruppi di sostanze chimiche, il primo dei quali, rappresentato dal Ddt, è noto come il gruppo degli "idrocarburi clorurati"; l'altro comprende gli insetticidi organici a base di fosforo ed è rappresentato dal malathion e dal parathion, abbastanza noti. Come abbiamo già detto, essi hanno una cosa in comune: sono fondamentalmente costituiti da una catena di atomi di carbonio, proprio come la materia vivente, e pertanto vengono considerati "organici". Per comprenderne meglio l'importanza, occorre vedere di che cosa sono fatti, e come, nonostante siano connessi con il chimismo che sta alla base di tutta la vita, essi possano subire trasformazioni tali da divenire strumenti di morte. Gli atomi dell'elemento costitutivo, il carbonio, hanno una capacità quasi illimitata di unirsi l'un l'altro in catene, anelli o altre varie configurazioni, e di legarsi con atomi di altre sostanze. Infatti l'incredibile diversità delle creature viventi, dai batteri all'enorme balenottera azzurra, è dovuta in larga misura a questa caratteristica del carbonio. La complessa molecola proteica è fondamentalmente costituita di atomi di carbonio, come i grassi, i carboidrati, gli enzimi e le vitamine. Altrettanto può dirsi per un numero enorme di composti inanimati, poiché il carbonio non è necessariamente un simbolo di vita. Alcuni composti organici sono semplici combinazioni del carbonio con l'idrogeno. Il più elementare tra essi, il metano o gas delle paludi, si forma in natura per decomposizione batterica della materia organica sott'acqua. Il metano, mescolato con l'aria in una certa proporzione, diventi il temibile "grisù" delle miniere di carbone. La sua struttura, mirabilmente semplice, consiste di un atomo di carbonio legato con quattro atomi di idrogeno. I chimici hanno scoperto che è possibile distaccare uno o anche tutti gli atomi di idrogeno e sostituirli con atomi di altri elementi. Per esempio, rimpiazzando un atomo d'idrogeno con un atomo di cloro, otteniamo il cloruro di metile. Se togliamo tre atomi di idrogeno e li sostituiamo con il cloro avremo il cloroformio, usato come anestetico. Se si sostituiscono a tutti gli atomi di idrogeno altrettanti atomi di cloro si otterrà il tetracloruro di carbonio, il noto smacchiatore. Questi mutamenti prodotti nella molecola semplice del metano mostrano, in modo quanto mai elementare, cosa è un idrocarburo clorurato. Ma tale rappresentazione dice ben poco sulla reale complessità del mondo degli idrocarburi e delle operazioni effettuate dai chimici organici per creare la molteplice varietà dei loro prodotto. Il chimico, infatti, non ha dinanzi a sé la semplice molecola di metano con il singolo atomo di carbonio, ma deve lavorare su molecole di idrocarburi contenenti molti atomi di carbonio disposti ad anello o a catena, semplice o ramificata, molecole unite tra loro mediante legami chimici; non lavora su semplici atomi di idrogeno e di cloro, ma su una molteplice varietà di altri gruppi chimici. Anche mutamenti apparentemente insignificanti cambiano completamente le caratteristiche di una sostanza: per esempio, ha grande importanza, oltre a ciò che si lega con l'atomo di carbonio, anche il punto in cui avviene questo legame. Tali ingegnose manipolazioni hanno permesso di ottenere una serie di veleni di potenza veramente eccezionale. Il Ddt (abbreviazione del dicloro-difenil-tricloroetano) fu prodotto per sintesi, la prima volta, da un chimico tedesco nel 1874, ma le sue proprietà insetticide non furono scoperte che nel 1939. Quasi subito il Ddt fu scelto come arma per combattere le malattie provocate dagli insetti e vincere la battaglia degli agricoltori contro i parassiti che distruggevano nottetempo i raccolti. Allo scopritore, lo svizzero Paul Müller, fu assegnato il Premio Nobel. Il Ddt ha oggi una utilizzazione così generale che lo si considera di solito inoffensivo come qualunque cosa che ci circonda nelle nostre case. Forse il mito della sua innocuità deriva dal fatto che venne adoperato in polvere, per la prima volta o quasi, in tempo di guerra, su migliaia di soldati, di prigionieri e di rifugiati per combattere i pidocchi. Ed è opinione diffusa che, non avendo tanta gente risentito alcun effetto nocivo dell'intimo contatto avuto allora col Ddt, esso sia completamente innocuo. Quest'idea errata è comprensibile poiché il Ddt sotto forma di polvere - a differenza di altri idrocarburi clorurati - non viene assorbito con facilità dalla pelle. Tuttavia, in soluzione oleosa - come oggi è di solito fornito - esso è senz'altro tossico. Quando lo si ingerisce, è assorbito lentamente dal tubo digerente e può esserlo anche attraverso i polmoni. Una volta penetrato nel corpo, si deposita copiosamente negli organi ricchi di sostanze grasse (giacché anche il Ddt è liposolubile), quali le ghiandole surrenali, i testicoli o la tiroide. Una quantità abbastanza rilevante si fissa anche nel fegato, nei reni e nel grasso degli ampi mesenteri protettivi che avvolgono l'intestino. Questo accumulo prende l'avvio dalla più piccola quantità concepibile di sostanza introdotta nell'organismo (ad es. i residui presenti sulla maggior parte degli alimenti) e continua fino a raggiungere livelli piuttosto alti. I depositi di adipe si comportano come un miracoloso accumulatore biologico, tanto che 0,1 p.p.m. (1) di Ddt ingerito con gli alimenti raggiunge, dopo essersi depositato nel corpo, le 10 o 15 p.p.m. con un incremento di cento e più volte. Questi esempi, che (1) Dall'inglese parts per million (parti per milione), e corrisponde nelle soluzioni a 1 mg per litro. per i chimici ed i farmacologi sono luoghi comuni, appaiono sorprendenti all'uomo della strada. Una parte su un milione ci sembra una aliquota molto piccola - e così è infatti. Ma le sostanze di cui stiamo parlando sono così potenti che anche una dose minima può provocare grandi mutamenti nel nostro corpo. In esperimenti effettuati su animali, è stato accertato che 3 p.p.m. inibiscono l'attività di un enzima essenziale presente nel muscolo cardiaco; soltanto 5 p.p.m. provocano necrosi o disintegrazione delle cellule epatiche; bastano 2,5 p.p.m., nel caso di sostanze affini al Ddt quali la dieldrina ed il clordano, per produrre conseguenze analoghe. E questo non ci sorprende. Nel normale chimismo del corpo umano si riscontra proprio una tale disparità tra causa ed effetto: per esempio un quantitativo di iodio pari a 0,2 milligrammi può essere questione di vita o di morte. E, siccome queste piccole aliquote di antiparassitari si depositano cumulativamente e vengono eliminate con grande lentezza, la minaccia di intossicazione cronica o di processi degenerativi nel fegato e in altri organi è una realtà indiscutibile. Gli scienziati non concordano circa la quantità di Ddt che può accumularsi nel corpo umano. Il dott. Lehman, capo farmacologo della Food and Drug Administration, afferma che non esistono soglie al di sotto delle quali il Ddt non sia assorbito, o limiti massimi al di sopra dei quali l'assorbimento e l'accumulo scompaiano. D'altro canto, il dott. Hayes dello United States Health Service sostiene che, per ogni individuo, si raggiunge un punto di equilibrio per cui l'ulteriore Ddt assorbito è espulso. Per gli scopi che ci prefiggiamo, non ha particolare importanza sapere chi dei due abbia ragione. Si sono già fatte accurate indagini per vedere l'accumulo di tali sostanze ed abbiamo la prova che la media degli individui è depositaria di aliquote potenzialmente dannose. Secondo varie ricerche, le persone che non sembrano esposte agli effetti del Ddt (tranne quelli inevitabili dovuti all'alimentazione) registrano un accumulo medio di 5,3 p.p.m., con punte di 7,4; i lavoratori agricoli arrivano a 17,1, e gli operai delle fabbriche che producono insetticidi a ben 648 p.p.m'! Vediamo così come sia vasta la gamma dei quantitativi accumulati nei vari individui e - ciò che più importa - vediamo che la dose minima riscontrata in essi oltrepassa il limite a cui cominciano ad avere danni al fegato, in altri organi e nei tessuti. Uno degli aspetti più sinistri del Ddt e delle sostanze chimiche similari riguarda la trasmissibilità da un organismo all'altro attraverso tutti gli anelli della catena alimentare. Per esempio: i campi di medica vengono cosparsi di Ddt; il pollame viene nutrito con tale erba e le galline depongono uova che contengono Ddt. Oppure può darsi che venga somministrato al bestiame bovino fieno con residui contenenti 7-8 p.p.m'; il Ddt si trasferirà nel latte delle mucche con una concentrazione di 3 p.p.m'; ma nel burro ricavato da questo latte, la dose potrà salire fino a 65 p.p.m'. Attraverso tale sequenza, una piccola aliquota iniziale di Ddt può portare ad una concentrazione finale molto elevata. Al giorno d'oggi gli allevatori trovano notevoli difficoltà nel procurarsi mangimi non contaminati per le vacche lattifere, anche se la Food and Drug Administration non ammette la presenza di tracce di insetticidi nel latte che viene spedito nei vari stati. Il veleno può anche passare dalla madre ai figli. Tracce di insetticidi sono state riscontrate nei campioni di latte umano esaminati dai tecnici della Food and Drug Administration. Ciò significa che nei neonati nutriti al seno aumenta, partendo da dosi piccole ma regolari, il quantitativo totale di sostanze tossiche già accumulate nel loro corpo. Ma non si tratta certamente del primo contagio: abbiamo buone ragioni per ritenere che l'assorbimento cominci mentre essi si trovano ancora nel grembo materno. Esprimenti compiuti su animali hanno dimostrato che gli idrocarburi clorurati attraversano facilmente la placenta - questo decantato scudo di protezione tra l'embrione e le sostanze nocive del corpo materno. Pur essendo esigui, i quantitativi assorbiti in tal modo dagli embrioni umani non sono per questo privi d'importanza, giacché i bambini, rispetto agli adulti, offrono una minore resistenza all'intossicazione. Ciò significa che oggi l'individuo medio, fin da quando viene al mondo, ha quasi certamente dentro di sé il primo quantitativo di quel crescente fardello di sostanze tossiche che il suo corpo sarà costretto a sostenere da allora in poi. Tutte queste realtà - assorbimento (anche di lieve entità), successivo accumulo, casi di lesioni al fegato (anche con dosi contenute in un normale regime dietetico) - indussero gli esperti della Food and Drug Administration a dichiarare fin dal 1950 che "con ogni probabilità i rischi potenziali del Ddt sono stati sottovalutati". Davvero la storia della medicina non ha mai registrato una situazione analoga. E nessuno ancora può sapere quali possono esserne le estreme conseguenze. Il clordano, anch'esso un idrocarburo clorurato, possiede tutti i detestabili attributi del Ddt, ed in più ne ha qualcun altro di sua esclusiva pertinenza. I suoi residui permangono a lungo sul suolo, sugli alimenti e su ogni superficie a cui sia stato applicato; è però anche molto volatile, ed il fatto di essere tossico anche per semplice inalazione costituisce un vero rischio per chi lo maneggia o si espone alla sua azione. Il clordano si vale di ogni possibile via d'accesso per penetrare nel corpo: filtra con facilità attraverso la pelle, se ne respirano i vapori e, naturalmente, è assorbito dall'apparato digerente quando se ne ingeriscono i residui. A somiglianza di tutti gli altri idrocarburi clorurati, si deposita via via nel corpo con un processo di accumulo. Una dieta contenente un piccolo quantitativo di clordano pari a 2,5 p.p.m. può portare nei grassi degli animali di laboratorio anche a depositi di 75 p.p.m'. Un farmacologo dell'esperienza del dott. Lehman ha descritto il clordano come "uno degli insetticidi di maggior tossicità; chiunque, maneggiandolo, può restare avvelenato". A giudicare dalla scriteriata disinvoltura con cui, nelle campagne, si è fatto ricorso al clordano per le polverizzazioni antiparassitarie sui prati, questo monito non ha avuto alcuna efficacia. Il fatto che le popolazioni non ne siano danneggiate immediatamente ha scarsa importanza, perché le tossine possono sonnecchiare a lungo nel corpo umano e manifestarsi dopo mesi e dopo anni con disturbi così misteriosi che è impossibile risalire alla loro origine. D'altronde la morte può anche sopraggiungere rapidamente: una vittima, la cui pelle si era bagnata accidentalmente con una soluzione al 25%, ebbe i primi sintomi di intossicazione 40 minuti più tardi e morì prima che i medici potessero prestarle aiuto. Né meritano fiducia gli avvertimenti dati perché le cure mediche possano essere tempestive. L'eptacloro, uno dei componenti del clordano, è venduto in commercio come composto particolare. Ha una capacità considerevole di depositarsi negli strati adiposi: basta che la dieta ne contenga soltanto 0,1 p.p.m. perché si manifestino tracce di esso in quantità misurabili nel corpo umano. Possiede anche la singolare caratteristica di trasformarsi in una sostanza chimicamente diversa, nota con il nome di eptacloro epossido; e ciò avviene sia sui terreni sia nei tessuti vegetali e animali. Le prove fatte sugli uccelli ci dicono che l'epossido risultante da questo mutamento ha una tossicità quasi quadrupla rispetto al composto originario, il quale è a sua voluta quattro volte più tossico del clordano. Già verso il 1935 si era accertato che uno speciale gruppo di idrocarburi - le cloronaftaline - provoca l'epatite e una rara ma quasi sempre fatale malattia del fegato nelle persone che, per ragioni di lavoro, debbano manipolarle. Queste sostanze hanno causato malanni e decessi tra gli operai dell'industria elettrica; e, più di recente, nel settore agricolo, sono state additate come le responsabili di malattie misteriose e spesso mortali che hanno colpito il bestiame. Dati questi precedenti, non c'è da sorprendersi se tre degli insetticidi appartenenti a questo gruppo vengono oggi ritenuti i più potenti tossici tra tutti gli idrocarburi: si tratta della dieldrina, dell'aldrina e dell'endrina. La dieldrina, che deriva tale nome dal chimico tedesco Diels, ha una tossicità cinque volte maggiore del Ddt quando è ingerita, ma ben 40 volte maggiore se una sua soluzione viene assorbita attraverso la pelle. Essa investe con grande rapidità e con effetti terribili il sistema nervoso, provocando convulsioni nelle vittime. Le persone intossicate guariscono così lentamente da far pensare ad effetti cronici. Analogamente a quanto avviene per altri idrocarburi clorurati, questi effetti a lunga distanza comportano gravi danni al fegato. La lunga durata dei suoi residui e la efficace azione insetticida hanno fatto della dieldrina uno degli insetticidi di più largo impiego, nonostante la spaventosa distruzione di animali selvatici provocate dal suo uso. Infatti gli esperimenti sulle quaglie e sui fagiani hanno comprovato che la sua tossicità è da 40 a 50 volte maggiore di quella del Ddt. Vi sono molte lacune nelle nostre nozioni a proposito dell'accumulo e della distribuzione della dieldrina nel corpo umano, come pure per ciò che riguarda la sua eliminazione, dato che l'ingegnosità dei chimici nell'inventare nuovi insetticidi ha superato da tempo la conoscenza degli effetti biologici di questi veleni sugli organismi viventi. Ad ogni modo possediamo prove di una lunga fase di accumulo nel corpo umano, in cui tale sostanza può rimanere assopita come un vulcano inattivo per poi erompere nei periodi di stress fisiologico, quando il corpo fa appello alle sue riserve di grasso. Molto di ciò che sappiamo l'abbiamo appreso durante le ardue campagne antimalariche ingaggiate dalla World Health Organization. Appena la dieldrina venne sostituita al Ddt nelle disinfestazioni (poiché ormai l'anofele era diventata refrattaria all'azione di quest'ultimo) cominciarono i casi di intossicazione tra gli addetti alla nebulizzazione. Il fenomeno assunse dimensioni preoccupanti: dal 50% alla totalità (a seconda delle modalità d'impiego) degli individui colpiti cadeva in crisi convulsive e parecchi morivano. Qualcuno ebbe convulsioni perfino a quattro mesi di distanza dall'ultima esposizione. L'aldrina è veramente una sostanza misteriosa perché, sebbene esista come entità a sé stante, si comporta come un alter ego della dieldrina. Si è constatato che carote provenienti da un campo trattato con aldrina contenevano residui di dieldrina. Questo cambiamento avviene nei tessuti viventi ed anche nel terreno e una tale trasmutazione "alchimistica» favorisce molti errori d'indagine, giacché quando un chimico, sapendo che l'insetticida impiegato è l'aldrina, ne esamina gli effetti, può trarre l'ingannevole convinzione d'una totale scomparsa dei suoi residui. Essi invece esistono, senonché sono residui di dieldrina, e pertanto esigono delle prove diverse. Come la dieldrina, l'aldrina è estremamente tossica. Essa produce cambiamenti degenerativi nel fegato e nei reni. Una quantità pari ad una compressa di aspirina è sufficiente per uccidere più di 400 quaglie; si sono registrati anche molti casi di intossicazione umana, la maggior parte dei quali connessa con la lavorazione industriale. L'aldrina, come quasi tutti gli insetticidi del suo gruppo, proietta un'ombra minacciosa sul futuro, l'ombra della sterilità. Alcuni fagiani, trattati con una dose di aldrina insufficiente ad ucciderli, deposero cionondimeno uno scarso numero di uova ed i piccoli, nati dalla covata, morirono presto. Ma gli effetti non si limitano agli uccelli: anche i ratti esposti all'aldrina ebbero un limitato numero di gravidanze e i piccoli nacquero malaticci e non vissero a lungo. Cuccioli nati da madri intossicate morirono entro tre giorni dalla nascita. In un modo o nell'altro, quindi, le nuove generazioni soffrono delle conseguenze dovute all'avvelenamento dei loro progenitori. Nessuno può dire finora se negli esseri umani gli effetti saranno analoghi, tuttavia continuano le nebulizzazioni di aldrina per mezzo di aeroplani, sulle zone suburbane e sulle campagne. L'endrina è il più tossico idrocarburo clorurato. Per quanto chimicamente assai simile alia dieldrina, basta la lievissima differenza di struttura molecolare per farne un veleno cinque volte più potente: al suo confronto il capostipite di questa famiglia di insetticidi - il Ddt - appare quasi innocuo. L'endrina, infatti, possiede una tossicità 15 volte superiore ad esso per i mammiferi, 30 volte per i pesci e circa 300 volte in qualche specie di uccelli. Da quando viene impiegata, cioè da circa un decennio, l'endrina ha provocato la morte d'una enorme quantità di pesci, gravi forme di intossicazione tra il bestiame che aveva pascolato nei frutteti irrorati e l'avvelenamento dei pozzi; di conseguenza, in più di uno stato, la commissione per la salute pubblica ha additato il grave pericolo che il suo impiego scriteriato rappresenta per la vita umana. Tuttavia, in uno dei più gravi casi di intossicazione da endrina si era avuta cura di esercitare, almeno così sembrava, la massima precauzione, anzi sembrava che si fossero adottate tutte le misure necessarie. Un bimbo americano di un anno si era trasferito con i genitori nel Venezuela. Dopo pochi giorni, siccome la casa dove erano andati ad abitare era infestata da scarafaggi, venne cosparso un insetticida a base di endrina. Una mattina, verso le nove, prima di cominciare l'operazione di disinfestazione, il bimbo, insieme con il cagnolino, fu allontanato dall'abitazione; dopo la disinfestazione si procedette al lavaggio dei pavimenti e, nel tardo pomeriggio, il bambino e il cagnolino vennero ricondotti a casa. Circa un'ora più tardi il cane cominciò a vomitare, venne colto da convulsioni e morì. Alle 22, cioè la sera del giorno stesso, anche il bimbo cominciò a vomitare, ebbe una crisi convulsiva e perdette la conoscenza. In seguito ad un fatale contatto con l'endrina, quel bimbo normale e pieno di salute diventò poco più che un vegetale, incapace di vedere e di sentire, soggetto a frequenti spasmi muscolari e, in apparenza, completamente avulso da ogni specie di rapporto con l'ambiente circostante. Mesi e mesi di cure in un ospedale di New York non portarono alcun giovamento alle sue condizioni e mostrarono che ogni speranza di miglioramento doveva essere abbandonata. "Siamo ormai completamente scettici", ebbero a dire i medici curanti, "che si possa verificare una qualsiasi forma di miglioramento". L'altro grande gruppo di insetticidi - quello degli alchilfosfati o fosfati organici - è composto di sostanze chimiche velenose come poche altre al mondo. Il pericolo principale e più comune che il loro impiego comporta è la grande facilità con cui essi intossicano gli addetti alle disinfestazioni, e chiunque altro entri in contatto con il getto del materiale cosparso, o con la vegetazione irrorata o con i contenitori dell'antiparassitario. In Florida, due ragazzi che avevano trovato un sacchetto vuoto, e se ne erano serviti per riparare un'altalena, furono colti poco dopo dalla morte; tre dei loro compagni di gioco caddero ammalati. Il sacchetto aveva contenuto una volta l'insetticida chiamato parathion, uno dei fosfati organici di cui abbiamo già parlato; l'autopsia stabilì che il decesso era dovuto all'effetto tossico di tale sostanza. In un'altra occasione, due fanciulli del Wisconsin, cugini tra loro, morirono nella stessa notte: nel cortile dove uno di essi aveva giocato, erano caduti spruzzi provenienti da un contiguo campo di patate che il padre stava irrorando con parathion; l'altro fanciullo, nel rincorrere spensieratamente il babbo su e giù per il granaio, aveva toccato con la mano il beccuccio dello spruzzatore. L'origine di questi insetticidi non è priva di un'amara ironia. Sebbene alcuni di essi - esteri organici dell'acido fosforico - fossero noti già da molti anni, le loro proprietà insetticide non vennero scoperte che alla fine degli anni trenta dal chimico tedesco Gerhard Schrader. Quasi subito il governo tedesco si accorse del valore di quei composti come arma nuova e sterminatrice nella guerra che l'uomo ingaggiava contro la propria specie, e pertanto la loro lavorazione fu tenuta segreta. Qualcuno servì per la produzione dei micidiali gas bellici; altri, di struttura molto affine, diventarono insetticidi. Gli insetticidi organici a base di fosforo agiscono sugli organismi viventi in modo singolare: hanno la proprietà di distruggere gli enzimi, quelle sostanze che adempiono funzioni tanto fondamentali per il corpo umano. Il loro bersaglio preferito è il sistema nervoso, sia quello degli insetti sia quello degli animali a sangue caldo. In condizioni normali gli impulsi passano da nervo a nervo grazie all'aiuto di una "trasmittente" chimica, chiamata acetilcolina - una sostanza che, appena compiuta la propria importante mansione, scompare. La sua esistenza è così effimera che, nelle ricerche mediche, si riesce ad individuarla soltanto con procedimenti delicatissimi, prima che il corpo la distrugga. Questo carattere transeunte della "trasmittente" chimica è essenziale per il funzionamento del'organismo; infatti, se l'acetilcolina non viene annientata immediatamente dopo la trasmissione di un impulso nervoso, gli impulsi continuano a fluire attraverso questo ponte, fra un nervo e l'altro, poiché essa accentua via via il proprio effetto con gradualità sempre più intensa. Allora i movimenti del corpo perdono ogni coordinamento: tremiti, spasmi muscolari, convulsioni e morte ne sono i rapidi risultati. Questa eventualità viene scongiurata dall'organismo stesso. Un benefico enzima chiamato colinesterasi è a pronta disposizione per annientare la trasmittente chimica non appena cessa la sua utilità. Con tale sistema si crea un perfetto equilibrio, ed il corpo non accumula mai acetilcolina in quantità pericolosa. Ma l'enzima protettivo, quando entra a contatto con l'insetticida organico a base di fosforo, viene distrutto e, man mano che la sua quantità si riduce, l'acetilcolina può aumentare liberamente. Quest'effetto dei composti organici del fosforo è simile a quello prodotto dall'alcaloide muscarina che si trova in un fungo velenoso, l'Amanita muscaria. Successive esposizioni possono abbassare il livello della colinesterasi finché l'individuo giunge all'orlo di un avvelenamento acuto - e una piccolissima esposizione ulteriore può fargli superare tale limite. Perciò si ritiene indispensabile, per tutti gli addetti alle nebulizzazioni e per coloro che vi si espongono, l'analisi periodica del sangue. Il parathion è uno dei fosfati organici usati con maggior frequenza; ed è anche, tra essi, uno dei più potenti e pericolosi. Al suo contatto le api diventano "selvaggiamente agitate ed aggressive", cominciano a svolazzare freneticamente e, nel giro di mezz'ora, sono moribonde. Un chimico, volendo stabilire attraverso la esperienza più diretta possibile la dose che provoca una tossicità acuta per gli esseri umani, ne ingerì un piccolo quantitativo, corrispondente a circa un decigrammo. La paralisi lo colpì così istantaneamente che egli non riuscì a servirsi dell'antidoto preparato preventivamente, e la morte sopraggiunse di lì a poco. Si dice che, in Finlandia, il parathion sia oggi il veleno preferito dai suicidi. Negli ultimi tempi lo stato della California ha registrato una media annuale di 200 casi di intossicazione accidentale da parathion. In molte parti del mondo la mortalità dovuta a questo tossico è sorprendente: 100 casi letali in India e 67 in Siria durante il 1958, ed una media di 336 decessi all'anno in Giappone. Tuttavia circa 4 milioni di chilogrammi di parathion vengono spruzzati ogni anno nei campi e nei frutteti degli Stati Uniti, a mano, con nebulizzatori e polverizzatori motorizzati, o per mezzo di aeroplani. Il quantitativo impiegato nelle fattorie della sola California, secondo il parere di un'autorità sanitaria, "corrisponde ad una dose mortale per una popolazione dalle 5 alle 10 volte maggiore di quella mondiale". Una delle poche circostanze che impediscono a questi tostici il nostro sterminio è che il parathion e le altre sostanze chimiche del suo gruppo si decompongono abbastanza rapidamente. I loro residui sulle coltivazioni irrorate hanno infatti una durata relativamente breve, se la si paragona a quella degli idrocarburi clorurati: ad ogni modo essa è sempre abbastanza lunga per costituire un rischio e produrre conseguenze gravi e, talora, fatali. A Riverside, in California, undici uomini su trenta, addetti alla raccolta delle arance, si ammalarono e tutti, tranne uno, dovettero essere ricoverati in ospedale: presentavano i sintomi caratteristici dell'avvelenamento da parathion. L'aranceto era stato irrorato con questo insetticida circa due settimane e mezzo prima; i residui che li avevano resi semincoscienti, quasi ciechi e sconvolti da un vomito continuo, erano dunque ancora efficaci dopo una ventina di giorni. E questo non è per nulla un caso limite della loro durata: infatti, si ha notizia di inconvenienti analoghi avvenuti in aranceti irrorati un mese prima, e sono stati trovati residui di parathion sulla scorza delle arance perfino sei mesi dopo disinfestazioni con dosi standard. Il pericolo per il personale addetto all'aspersione di insetticidi organici a base di fosforo nei campi, nei frutteti e nelle vigne è tanto grave che in alcuni stati dove vien fatto uso di queste sostanze chimiche esistono laboratori specializzati per facilitare ai medici la diagnosi e la cura. Gli stessi medici possono incorrere in qualche pericolo se non usano guanti di gomma quando visitano i loro pazienti intossicati; altrettanto può capitare alle lavandaie che lavano gli abiti delle persone contaminate, i quali probabilmente hanno assorbito una quantità di parathion sufficiente a costituire un'insidia. Il malathion, un altro fosfato organico, è noto a tutti quasi quanto il Ddt, giacché è largamente impiegato dai giardinieri, o come insetticida domestico nella lotta contro le zanzare, o in massicce disinfestazioni a tappeto, come quella effettuata dalle comunità della Florida su quasi 400.000 ettari per abbattere gli sciami di moscerini della frutta provenienti dal Mediterraneo. Viene considerato il meno velenoso tra i disinfestanti di questo gruppo, e molta gente sostiene che può essere usato tranquillamente senza pericolo. La pubblicità commerciale, dal canto suo, incoraggia tale valutazione ottimistica. La presunta "innocuità" del malathion poggia però su fondamenta piuttosto precarie, anche se ciò - come spesso succede - non è stato scoperto se non dopo molti anni di impiego. Il malathion è "innocuo" solo perché il fegato dei Mammiferi - organo dotato di un eccezionale potere protettivo - lo rende relativamente inoffensivo. La detossificazione viene compiuta da uno degli enzimi del fegato; se però interviene qualcosa che distrugge quest'enzima o ne intralcia l'azione, l'individuo esposto al malathion resta completamente in balìa del tossico. Disgraziatamente per noi tutti, le occasioni per tali eventualità sono innumerevoli: pochi anni or sono un gruppo di esperti della Food and Drug Administration scoprì che, quando il malathion e certi altri fosfati organici vengono somministrati contemporaneamente, ne deriva un avvelenamento massivo - oltre 50 volte più grave di quello che si penserebbe di ottenere per semplice addizione delle singole tossicità. In altri termini, #,ajj della dose letale di ciascun composto diventa fatale quando esso si combina con l'altro. Questa constatazione indusse a fare esperimenti su altre combinazioni. E' oggi risaputo che l'accoppiamento di numerosi fosfati organici è molto dannoso: la loro tossicità è infatti aumentata o "potenziata" per sinergismo. Tale potenziamento, a quanto pare, si manifesta allorché uno dei due composti distrugge l'enzima del fegato che avrebbe dovuto detossificare l'altro. Né occorre che i due insetticidi vengano usati simultaneamente; il rischio poi esiste non soltanto per chi, ad esempio, usa per una settimana un insetticida e la settimana successiva ne usa un altro: esso vale anche per chi consuma i prodotti irrorati. In una comune insalatiera, ad esempio, è facile trovare contemporaneamente diversi fosfati organici, e c'è la probabilità che i residui, pur essendo entro i limiti legalmente ammessi, interagiscano tra loro. I reali effetti dell'insidiosa interazione di queste sostanze chimiche non si conoscono ancora completamente, ma dai laboratori scientifici giungono di continuo preoccupanti constatazioni. Tra esse va annoverata la scoperta che la tossicità di un fosfato organico può aumentare anche per l'azione d'un secondo agente non necessariamente insetticida: per esempio, si dà il caso di certe sostanze plastificanti che interagiscono più energicamente di quanto non farebbe un secondo insetticida, ed accrescono così la pericolosità del malathion. E ciò sempre perché esse inibiscono l'enzima del fegato che, altrimenti, avrebbe "disarmato» il velenoso insetticida. E cosa avviene per le altre sostanze chimiche alle quali normalmente facciamo ricorso? Che cosa, in particolare, avviene per i medicinali? Ben poco sappiamo ancora a questo proposito, ma è già noto, però, che alcuni fosfati organici (parathion e malathion) aumentano la tossicità di qualche rilassante muscolare, e numerosi altri (e anche fra questi il malathion) allungano la durata del sonno provocato dai barbiturici. Nella mitologia greca la maga Medea, furente perché una rivale le aveva sottratto l'affetto del marito Giasone, offrì alla nuova sposa un indumento dotato di un magico potere. Questa, indossatolo, morì, e un tale raggiro per provocare la "morte" trova oggi il suo corrispondente nell'effetto provocato dai cosiddetti "insetticidi sistemici». Si tratta di prodotti chimici di straordinaria potenza, usati per fare di certi vegetali o animali una specie di "veste di Medea", rendendoli permanentemente velenosi; lo si fa con lo scopo di uccidere gli insetti che entrano in contatto con essi e, in particolare, ne suggono i succhi o il sangue. Il mondo degli insetticidi sistemici è più fiabesco di quello immaginato dai fratelli Grimm - e forse ha una maggiore somiglianza con il mondo dei cartoni animati di Charles Addams: un mondo in cui le foreste incantate delle favole sono diventate foreste avvelenate, dove ogni insetto che mastica una foglia o succhia la linfa di una pianta rimane ucciso; dove una pulce punge un cane e muore perché il sangue del cane è avvelenato; dove un insetto può ricevere la morte dalle esalazioni di un albero che non ha mai toccato, ed un'ape può tornare al proprio alveare con un nettare intossicato per produrvi miele velenoso. Il sogno degli entomologi di sintetizzare un insetticida che potesse essere insito nell'animale o nella pianta da proteggere nacque allorché coloro che lavoravano nel settore dell'entomologia applicata si accorsero che la natura stessa ne offriva lo spunto: essi scoprirono, infatti, che il grano cresciuto su un terreno contenente selenito di sodio era immunizzato contro l'attacco degli afidi o degli acari. Il selenio - un elemento naturale che si trova nelle rocce e nel suolo di molte parti del mondo - diventò così il primo insetticida sistemico. Ciò che rende sistemico un insetticida è la sua proprietà di permeare tutti i tessuti di una pianta o di un animale e renderli tossici. E' questa una caratteristica comune ad alcuni composti del gruppo degli idrocarburi clorurati e di quello dei fosfati organici - tutti prodotti per sintesi - come pure a certe sostanze che si trovano in natura. In pratica però la maggior parte degli insetticidi sistemici proviene dal gruppo dei fosfati organici perché per essi il problema dei residui è meno preoccupante. Gli insetticidi sistemici agiscono anche per altre vie indirette: applicati alle sementi (mediante immersione di queste o per copertura superficiale fatta con una miscela di insetticida e carbonio) estendono i loro effetti anche alla successiva germogliazione, cosicché le pianticelle che nascono sono velenose per gli afidi e per gli altri insetti che le succhiano. Con questo mezzo vengono talvolta protetti i fagioli, i piselli e le barbabietole da zucchero. In California si era diffusa l'abitudine di ricoprire i semi di cotone con insetticidi sistemici fino a quando, nel 1959, 25 contadini che lavoravano nelle piantagioni della San Joaquim Valley, furono colpiti da improvviso malore perché avevano maneggiato i sacchi della semente avvelenata. In Inghilterra qualcuno si chiese cosa capitasse quando le api utilizzavano il nettare proveniente da piante trattate con insetticidi sistemici. L'indagine venne compiuta in zone trattate con una sostanza chimica chiamata schradan. Sebbene le piante fossero state spruzzate prima della fioritura, il nettare prodotto più tardi conteneva il veleno; come si sarebbe potuto ben prevedere, anche il miele delle api risultava contaminato dallo schradan. L'uso degli insetticidi sistemici sugli animali viene adottato soprattutto per sterminare le larve di coleotteri che infestano le mandrie. Bisogna usare una cautela estrema nel dosare l'effetto insetticida da conferire al sangue e ai tessuti della bestia, per evitare che essa ne resti mortalmente intossicata: quest'equilibrio è assai delicato, ed i veterinari dei servizi governativi hanno trovato che dosi piccole e ripetute possono gradualmente impoverire, nell'animale, la riserva di colinesterasi, cosicché, aggiungendo una minima dose senza far attenzione, si può provocare un immediato avvelenamento. Esistono concrete probabilità che tale trattamento stia per farsi strada anche nell'ambito della nostra vita quotidiana. Oggi può capitarci di somministrare al nostro cane pillole che, come ci dicono, lo libereranno dalle pulci, rendendo il sangue velenoso per esse; presumibilmente, questa applicazione sul cane presenta lo stesso rischio riscontrato nel trattamento del bestiame. Pare che finora nessuno abbia proposto un insetticida sistemico per la specie umana onde poterci liberare, ad esempio, dalle zanzare. Forse arriveremo anche a questo. In questo capitolo abbiamo parlato finora delle sostanze chimiche mortali impiegate nella lotta contro gli insetti. Come combattiamo, invece, le erbe infestanti? Il desiderio di avere a disposizione un metodo facile e rapido per eliminare la vegetazione nociva ha stimolato una larga e crescente produzione di sostanze chimiche note con il termine di erbicidi. Il lettore troverà nel capitolo Vi la storia dell'uso e dell'abuso di questi composti; la questione che qui ci poniamo è di stabilire se gli erbicidi siano tossici e se il loro impiego contribuisca alla contaminazione dell'ambiente. La favola che gli erbicidi siano tossici solo per le piante e non costituiscano una minaccia per la vita animale ha una larga diffusione, ma sfortunatamente non corrisponde a verità: essi comprendono varie sostanze chimiche che aggrediscono i tessuti animali non meno di quelli vegetali, ed hanno un'azione notevolmente diversa sugli organismi. Alcuni sono veleni generici; altri stimolano il metabolismo con tale violenza da provocare un pericoloso aumento della temperatura corporea; alcuni favoriscono, sia da soli sia in concomitanza con altri prodotti chimici, l'insorgere di tumori maligni; altri, infine, colpiscono il patrimonio genetico della specie provocando mutazioni geniche. Pertanto gli erbicidi, come gli insetticidi, comprendono vari composti molto pericolosi ed il loro impiego indiscriminato, con la convinzione che siano "innocui", può avere conseguenze disastrose. I composti arsenicali, nonostante la concorrenza dovuta al flusso continuo di nuovi prodotti sintetici creati nei laboratori, vengono ancora usati con frequenza sia in veste di insetticidi (come abbiamo già visto), sia per distruggere le erbe infestanti, generalmente sotto forma di arsenito di sodio. La storia del loro impiego è tutt'altro che rassicurante: nell'irrorazione dei margini delle strade, essi hanno causato a molti contadini la perdita di mucche ed hanno sterminato un incalcolabile numero di animali selvatici; come erbicidi della vegetazione lacustre e di quella delle cisterne, hanno reso certe acque pubbliche non potabili e non adatte ai bagni; spruzzati sui campi di patate per distruggere i germogli, ne hanno fatto pagare il fio agli uomini e alle bestie. In Inghilterra la diffusione dell'arsenico come erbicida ebbe inizio attorno al 1951 perché scarseggiava l'acido solforico, usato fino ad allora per impedire che le patate germogliassero. Il Ministero dell'Agricoltura ritenne necessario mettere in guardia contro il rischio che si sarebbe corso nell'attraversare i campi spruzzati, ma l'avvertimento non fu ovviamente compreso dal bestiame (né, tanto meno, dagli animali selvatici e dagli uccelli) ed infatti cominciarono ad arrivare con monotona regolarità notizie di mandrie avvelenate dalle irrorazioni arsenicali. Soltanto quando l'acqua contaminata d'arsenico provocò la morte della moglie d'un agricoltore, una delle maggiori industrie chimiche inglesi (nel 1959) sospese la produzione dei disinfestanti arsenicali e ritirò quelli già in possesso dei commercianti; poco più tardi, il Ministero dell'Agricoltura annunciò che severe restrizioni sarebbero state imposte all'impiego degli arseniti a causa della loro elevata pericolosità per gli uomini e le bestie. Nel 1961 il Governo australiano fece altrettanto, mentre nessuna di tali limitazioni impedisce l'uso di questo veleno negli Stati Uniti. Anche alcuni dinitrocomposti vengono adoperati come erbicidi e sono considerati come le sostanze più pericolose di questo tipo. Il dinitrofenolo è un forte stimolatore del metabolismo, e perciò lo si adoperava un tempo come dimagrante; il margine tra la dose dimagrante e quella tossica o addirittura mortale era però esiguo - tanto esiguo da provocare la morte di diversi pazienti e lesioni permanenti in molti altri prima che l'uso del farmaco fosse finalmente proibito. Un composto chimico affine, il pentaclorofenolo, noto comunemente come "penta", trova impiego sia come erbicida sia come insetticida e viene spesso spruzzato lungo i binari ferroviari e in aree non coltivate. Il pentaclorofenolo è assai tossico per una vasta gamma di organismi, dai batteri all'uomo. Al pari dei dinitrocomposti danneggia - e molte volte fatalmente - le fonti energetiche del corpo, cosicché si può dire che gli organismi colpiti "bruciano". Il suo temibile potere ci viene illustrato da un letale episodio riferito poco tempo fa dal Department of Health della California. Il conducente di un'autocisterna stava preparando un defogliante per il cotone con una miscela di nafta e pentaclorofenolo. Mentre travasava la sostanza chimica da un bidone, si staccò lo spinello: l'uomo allungò la mano per ripescarlo e, pur essendosi lavato subito, rimase gravemente contaminato e morì il giorno dopo. Mentre i pericoli che derivano da erbicidi quali l'arsenico di sodio o i fenoli sono noti a tutti, gli effetti di altri sterminatori di gramigne costituiscono un'insidia più grave. Per esempio, l'amminotriazolo o "amitrol", oggi molto usato per distruggere il vaccinio delle torbiere, (2) viene considerato poco tossico. Ma, a lungo andare, può darsi che la sua tendenza a favorire l'insorgere di tumori maligni della tiroide negli animali selvatici, e forse anche nell'uomo, ci costringa a cambiare idea. Tra gli erbicidi ve ne sono alcuni che vengono classificati come "mutageni", cioè capaci di modificare i geni, dai quali dipende l'ereditarietà. Siamo giustamente atterriti dagli effetti genetici della radioattività; come possiamo allora, restare indifferenti di fronte agli stessi effetti provocati dalle sostanze chimiche che disseminiamo pazzamente attorno a noi? (2) Con blueberry gli anglosassoni indicano la bacca di tutte le Ericacee appartenenti al genere Vaccinium, quindi il mirtillo o altre specie affini. ?N'd'T'* Capitolo quarto - L'inquinamento delle acque superficiali e sotterranee Tra tutte le nostre risorse naturali, l'acqua è la più preziosa. I mari ricoprono la maggior parte della superficie terrestre, tuttavia, pure in mezzo a tanta abbondanza, abbiamo sete di acqua. Per un singolare paradosso, la maggior parte delle abbondanti acque della Terra non serve né per l'agricoltura, né per l'industria, né per il consumo umano, a causa del loro elevato contenuto di sale, cosicché numerose popolazioni sono colpite o minacciate da grave penuria. In un'epoca in cui l'uomo ha dimenticato le proprie origini e non riesce più a vedere le necessità fondamentali per la sua sopravvivenza, l'acqua, al pari di altre risorse, è diventata vittima di una generale indifferenza. Il problema dell'inquinamento delle acque ad opera degli antiparassitari può essere compreso soltanto esaminandolo in un più ampio contesto, come parte dell'insieme cui appartiene: la contaminazione di tutto ciò che circonda il genere umano. L'inquinamento dei nostri corsi d'acqua proviene da molte fonti: residui radioattivi di reattori, laboratori e centri ospedalieri: fall-out di esplosioni nucleari; scarichi domestici di metropoli e città; scarichi chimici di fabbriche. Ad essi viene ad aggiungersi una nuova specie di fall-out, e cioè le irrorazioni di sostanze chimiche effettuate sui campi coltivati, nei giardini, nelle foreste e sui prati. Molti degli elementi che fanno parte di questi insidiosi miscugli provocano conseguenze analoghe (e che si sommano) a quelle delle radiazioni; ed inoltre, all'interno dei vari gruppi di composti chimici si sviluppano pure nefasti e sconosciuti sinergismi, trasformazioni e anergismi. Da quando i chimici hanno cominciato a fabbricare sostanze che la natura non aveva mai creato, il problema della depurazione delle acque è diventato sempre più complesso, ed il pericolo per i consumatori è aumentato. Come abbiamo già visto, la produzione su vasta scala di queste sostanze sintetiche ha avuto inizio verso il 1940, e ha raggiunto oggi tali dimensioni che l'inquinamento chimico s'abbatte giornalmente come uno spaventoso diluvio sui corsi d'acqua del nostro paese. Quando queste sostanze tossiche si mescolano intimamente con i residui domestici e di altra provenienza scaricati nelle stesse acque, sfuggono talvolta ai rilevamenti consentiti dai normali metodi di cui si valgono gli impianti di depurazione. Si tratta di sostanze dotate di una tale stabilità che, con i procedimenti oggi in uso, non si riesce a demolirle e, spesso, neppure ad identificarle. Nei fiumi, una varietà davvero incredibile di polluenti dà origine ad un sedimento che gli ingegneri sanitari hanno potuto soltanto battezzare sconsolatamente con il nome di"melma". Il professor Eliassen del Massachusetts Insti tute of Technology ha sostenuto in sede congressuale l'impossibilità di prevedere gli effetti additivi di queste sostanze o di identificare le sostanze organiche che si formano dal loro miscuglio. "Ci manca a questo proposito anche il più fioco barlume", afferma il prof. Eliassen; "quali pericoli minacciano la popolazione? Non ne sappiamo nulla". I composti sintetici impiegati per distruggere gli insetti, i roditori e le erbe selvatiche fanno parte, in misura sempre crescente, di questi polluenti organici. Qualcuno di essi viene immesso deliberatamente nelle acque per sterminare le piante, le larve degli insetti o pesci indesiderati. Altri sono cosparsi nelle zone forestali sopra aree che in qualche Stato superano il milione di ettari, per l'eliminazione spesso di una singola specie di insetto parassita - e queste disinfestazioni contaminano direttamente i corsi d'acqua, oppure, attraverso lo stillicidio del fogliame irrorato, le sostanze nocive giungono il suolo, filtrano in esso e, mescolate all'umidità della terra, cominciano il lungo viaggio verso il mare. Con ogni probabilità il grosso di questi polluenti è costituito dai residui lasciati da milioni di chilogrammi di prodotti chimici agricoli cosparsi nelle campagne per eliminare gli insetti ed i roditori, e dilavati dalle acque o dalle piogge che li trascinano seco nel loro eterno flusso verso il mare. Abbiamo qua e là drammatiche prove della presenza di tali sostanze nei nostri corsi d'acqua e persino negli acquedotti pubblici. Per esempio, un campione di acqua potabile prelevato in una zona frutticola della Pennsylvania, e sperimentato su pesci di laboratorio, ha rilevato la presenza d'una quantità di insetticida sufficiente per uccidere tutti i pesci usati come campione nel giro di sole quattro ore. L'acqua di un fiume, che drenava una piantagione di cotone sottoposta a disinfestazione, conservava la tossicità letale per i pesci anche dopo essere passata in un impianto di depurazione; e, nell'Alabama, in quindici affluenti del Tennessee River, gli scoli provenienti da campi irrorati con toxafene (un idrocarburo clorurato) distrussero tutti i pesci che popolavano quei fiumi. Due di questi alimentavano vari acquedotti comunali, e risultarono contaminati anche una settimana dopo l'irrorazione dell'insetticida, come venne attestato dalla morte dei pesci rossi che ogni mattina venivano immersi nelle loro acque, chiusi in gabbiette. Per lo più l'inquinamento passa inosservato, o è addirittura invisibile, dato che si manifesta soltanto quando i pesci cominciano a morire a centinaia ed a migliaia; più spesso, però, non viene mai scoperto. I chimici che controllano la purezza delle acque non posseggono metodi di routine per rilevare tali polluenti organici e non hanno i mezzi per rimuoverli. Ma, scoperti o no, i disinfestanti ci sono e, come c'è da aspettarsi per qualsiasi materiale applicato in così vasta scala sulla superficie terrestre, si sono ormai riversati su molti e forse sulla totalità dei principali sistemi fluviali del nostro paese. Se qualcuno, però, non è ancora convinto che le nostre acque siano ormai quasi completamente inquinate dagli insetticidi, si studi un breve rapporto pubblicato dallo United States Fish and Wildlife Service nel 1960. Questo ente ha compiuto un'indagine per appurare se i pesci - come gli animali a sangue caldo - accumulano gli insetticidi nei loro tessuti. I primi campioni vennero prelevati dalle aree forestali del West, dove erano state irrorate grandi quantità di Ddt per debellare un parassita degli abeti, la Choristoneura fumiferana. (1) Come ben si poteva prevedere, tutti i pesci apparvero contaminati dal Ddt. Non paghi di questa importante constatazione, i ricercatori pensarono di fare un confronto con i campioni prelevati in un'ansa del fiume (1) Insetto Lepidottero i cui bruchi mangiano le foglie degli abeti. ?N'd'T'* distante quasi 50 chilometri dal più vicino terreno trattato con Ddt, e situato a monte rispetto ad esso. Dopo l'ansa, il fiume precipitava in una profonda cascata, e nei dintorni non era stata compiuta alcuna disinfestazione: nondimeno anche i pesci di quel tratto contenevano Ddt. Forse il tossico aveva raggiunto l'ansa attraverso filoni d'acqua sotterranei? Oppure, portato dal vento, era poi ricaduto sulla superficie del fiume? In un altro esame comparativo, il Ddt fu pure rintracciato nei tessuti dei pesci di un vivaio in cui l'acqua fluiva da una profonda sorgente; ed anche in quella località non si aveva nessuna notizia di alcuna irrorazione insetticida. L'unico possibile veicolo della contaminazione andava dunque ricercato nelle acque del sottosuolo. Nel complesso problema dell'inquinamento delle acque l'aspetto più preoccupante è forse proprio questo: il pericolo della diffusione dell'inquinamento ad opera delle acque sotterranee. Non si possono immettere sostanze tossiche nelle acque di una qualsiasi località senza minacciare al tempo stesso la purezza di quelle di altre zone. La natura molto di rado opera a compartimenti stagni, e mai assolutamente lo ha fatto nella distribuzione terrestre delle risorse idriche. La pioggia, precipitando al suolo, filtra attraverso i pori e le fenditure del terreno e delle rocce, penetra giù, sempre più giù, finché raggiunge un livello in cui tutti i pori della roccia sono saturi d'acqua: si tratta di un cupo mare sotterraneo che si solleva in corrispondenza dei monti e si inabissa al di sotto delle vallate. Quest'acqua sotterranea è sempre in movimento, talvolta con tale lentezza da percorrere non più di 15 o 20 metri in un anno, talora con grande rapidità, al confronto, tanto da poter perfino spostarsi di 150 o 200 metri al giorno: scorre lungo vene invisibili e risale qua e là in superficie come acqua sorgiva, oppure per alimentare i pozzi da noi perforati. Ma soprattutto essa contribuisce ad arricchire i corsi d'acqua e quindi i fiumi. Ad eccezione di quella che proviene dalle precipitazioni atmosferiche o dalle acque di drenaggio, e che viene immessa direttamente nei corsi d'acqua, tutta l'altra acqua di superficie è di origine sotterranea. Cosicché l'affermazione che l'inquinamento delle acque del sottosuolo comporta la contaminazione di tutte le acque esistenti ha un significato reale ed agghiacciante. Appunto attraverso questa oscura falda freatica sotterranea deve essere avvenuta la "migrazione" di certe sostanze chimiche, prodotte da un impianto industriale del Colorado, in un distretto agricolo distante parecchi chilometri, dove inquinarono le sorgenti, provocarono malattie tra la popolazione e nel bestiame e danneggiarono i raccolti: esempio allarmante che va riguardato come uno dei tanti dello stesso genere. Ecco in breve di che si trattò: nel 1943 il Rocky Mountain Arsenal dell'Army Chemical Corps, situato nelle vicinanze di Denver cominciò a produrre materiale d'impiego bellico. Otto anni più tardi, le attrezzature dell'arsenale vennero cedute in affitto ad una società petrolifera privata per la produzione di insetticidi. Però, anche prima del trapasso della gestione, avevano cominciato a circolare misteriose voci. Diversi agricoltori che risiedevano a molte miglia di distanza dallo stabilimento parlavano della diffusione di inesplicabili malattie nelle loro mandrie e si lamentavano anche del cattivo stato delle coltivazioni. Il fogliame ingialliva, le piante non giungevano a maturazione ed interi raccolti andavano perduti. Altre voci, invece, accennavano a gente colta da disturbi, che qualcuno metteva in relazione con quanto abbiamo detto. Le acque irrigue di queste fattorie provenivano da vari pozzi superficiali. Quando esse furono analizzate (nel 1959, durante un'inchiesta a cui parteciparono commissioni di vari stati, assieme a quella federale, si scoprì che contenevano un vero assortimento di sostanze chimiche. Cloruri, clorati, sali dell'acido fosforico, floruri e composti arsenicali erano stati scaricati dal Rocky Mountain Arsenal, durante il periodo della sua attività, in vasche di raccolta. Evidentemente le acque sotterranee tra l'arsenale e le fattorie erano state inquinate ed erano occorsi sette od otto anni perché i rifiuti, spostandosi nel sottosuolo, percorressero la distanza di 5 chilometri dalle vasche di raccolta ai poderi più vicini. Questo flusso venefico aveva poi continuato ad espandersi, contaminando un'area di cui non si conosceva l'estensione. Le autorità inquirenti non riuscirono in alcun modo a contenere l'inquinamento né ad arrestare la sua avanzata. Tutto ciò era già abbastanza allarmante, ma il fatto più singolare e, a lungo andare, più significativo che l'intero episodio riservò, si ebbe quando vennero scoperte tracce di erbicida 2,4-D sia nelle vasche di raccolta dell'arsenale che in alcuni pozzi. Tale presenza era certamente sufficiente a spiegare i danni riportati dalle colture irrigate con quell'acqua, ma restava tuttavia incomprensibile, perché l'arsenale non aveva mai prodotto 2,4-D durante il periodo della sua attività. Dopo lunghe ed accurate ricerche, i chimici della fabbrica conclusero che il 2,4-D si era formato spontaneamente nelle vasche aperte da altre sostanze in esse scaricate. A contatto con l'aria, l'acqua e la luce del sole, e senza alcun intervento della scienza umana, quelle vasche di raccolta erano diventate un laboratorio chimico per la produzione di una nuova sostanza - una sostanza micidiale per gran parte della vegetazione esposta alla sua azione. Pertanto, l'episodio delle fattorie del Colorado e dei raccolti colà danneggiati assume un significato che trascende la sua portata locale. Quanti altri casi del genere possono verificarsi, non soltanto nel Colorado, ma dovunque l'inquinamento chimico riesca a farsi strada nelle acque pubbliche? Quali pericolosi veleni possono venir prodotti da sostanze chimiche definite "innocue", sotto l'azione catalizzatrice dell'aria e della luce del sole, nelle acque dei laghi e dei fiumi d'ogni regione? Infatti uno dei più preoccupanti aspetti dell'inquinamento chimico dell'acqua è dato dal fatto che i fiumi, i laghi, i bacini e perfino il bicchier d'acqua posto dinanzi a noi a tavola contengano miscugli tossici quali nessun chimico responsabile penserebbe mai di preparare nel suo laboratorio. Le possibili interazioni tra queste sostanze liberamente mescolate l'una all'altra sono motivo di grave ansietà per gli ufficiali sanitari dello United States Public Health Service, i quali hanno espresso il timore che la formazione di tossici pericolosi da sostanze relativamente innocue possa verificarsi su vasta scala. La reazione può avvenire tra due o più prodotti sintetici o tra essi e i residui radioattivi che oggi vengono eliminati nei nostri fiumi in quantità sempre crescente. Sotto l'azione delle radiazioni ionizzanti, gli atomi cambiano facilmente la loro struttura, trasformando la natura delle sostanze chimiche in maniera imprevista e incontrollabile. Naturalmente la contaminazione non colpisce soltanto le acque sotterranee, ma anche quelle di superficie: corsi d'acqua, fiumi, acque irrigue. A proposito di queste ultime, pare che un caso preoccupante si stia verificando nei parchi nazionali del Tule Lake e a Lower Klamath, entrambi in California. Queste riserve di animali selvatici fanno parte di una catena che comprende anche il parco dell'Upper Klamath Lake, situato al confine con l'Oregon. Esse, quasi per un segno del destino, si valgono di un unico rifornimento idrico e hanno in comune anche un'altra caratteristica: quella di essere piccole isole in mezzo ad un grande mare di piantagioni - piantagioni create grazie al prosciugamento e alla canalizzazione di una vasta zona, tutta stagni e paludi, che un tempo era il paradiso degli uccelli acquatici. Le coltivazioni che circondano questi parchi vengono irrigate con le acque dell'Upper Klamath Lake le quali, raccolte dopo aver attraversato le campagne, vengono pompate nel Tule Lake e, di qui, nel Lower Klamath. Tutte le acque, che servono quindi all'abbeveraggio degli animali selvatici e si raccolgono in questi due bacini, rappresentano acque di drenaggio delle zone agricole attraversate. E' importante tenerlo presente per comprendere i fatti accaduti recentemente. Nell'estate del 1960 il personale dei parchi del Tule Lake e del Lower Klamath s'accorse che centinaia di uccelli erano morti o in fin di vita. Si trattava per lo più di volatili che si nutrono di pesci: aironi, pellicani, svassi e gabbiani. In seguito alle analisi vi si scoprirono residui di sostanze tossiche quali il toxafene, il Ddd ed il Dde. Anche i pesci prelevati nei due laghi risultarono contaminati dai medesimi insetticidi; e la stessa cosa venne riscontrata nei campioni di plancton. Il direttore dei parchi è convinto che i residui dei disinfestanti si stiano accumulando nei due bacini, poiché le acque di irrigazione delle campagne, irrorate con tali sostanze, ritornano ad essi. Questo avvelenamento di acque riservate al mantenimento della selvaggina può avere gravi conseguenze per i cacciatori di anitre del West, e per tutti coloro che, ansiosamente, aguzzano la vista e l'udito per individuare il fulmineo passaggio di stormi di selvaggina acquatica nella luce del crepuscolo. Le riserve del Tule Lake e del Lower Klamath hanno una importanza rilevante nella conservazione dell'avifauna acquatica occidentale: essi sono situati in un punto corrispondente, per così dire, al collo di un imbuto nel quale convergono tutte le correnti migratorie degli uccelli note col nome di Pacific Flyway, la linea migratoria del Pacifico. Durante la migrazione annuale vi arrivano molti milioni di anitre e di oche selvatiche provenienti dalle vastissime aree di nidificazione che si stendono dalle spiagge del Mar di Bering verso est fino alla Baia di Hudson. Esse rappresentano oltre i tre quarti di tutta la selvaggina acquatica che si sposta in autunno verso sud, per svernare negli Stati Uniti occidentali. In questi territori, d'estate, avviene la cova di uccelli palustri, in particolare quella di due specie in via di estinzione: l'anitra americana e la casarca. Se i laghi e gli stagni di tali riserve saranno ulteriormente contaminati i danni per l'avifauna acquatica del Far West potrebbero essere irreparabili. L'acqua va anche considerata dal punto di vista di tutta quella catena di esseri viventi che da essa trae nutrimento - dal pulviscolo di verdi cellule noto con il nome di fitoplancton alle minuscole dafnie ed ai pesci che filtrano il plancton per il loro nutrimento e sono a loro volta divorati da pesci più grossi, o da uccelli e procioni - e si snoda in un ciclo continuo di dare ed avere da un individuo ad un altro. Sappiamo che i minerali presenti nell'acqua passano attraverso tutta la catena alimentare. Come non pensare che le sostanze nocive immesse nell'acqua entrino in gioco anche in questi cicli naturali? Una risposta ci viene fornita da un caso sorprendente avvenuto anch'esso in California, sulle sponde del Clear Lake: si tratta di un lago di montagna, situato 150 chilometri a nord di San Francisco e molto noto un tempo agli appassionati di pesca con la lenza. Ma il suo nome non è più appropriato perché adesso una melma viscida e nerastra ricopre il basso fondale e intorbida l'acqua; sfortunatamente per i pescatori e per i villeggianti il Clear Lake costituiva un habitat ideale per un piccolo simulide, il Chaoborus astictopus che, pur essendo affine alle zanzare, non "succhia sangue" e forse non si nutre affatto allo stato adulto. Ad ogni modo, gli uomini che condividevano quell'habitat con gli innocui animaletti erano infastiditi dal loro grande numero. Vennero fatti tentativi per annientarli, ma senza alcun successo, finché, verso la fine del 1940, gli idrocarburi clorurati fornirono una nuova arma insetticida. La sostanza scelta per questo attacco fu il Ddd, parente stretto del Ddt, ma apparentemente meno nocivo per la vita dei pesci. Le nuove misure di controllo intraprese nel 1949, furono accuratamente programmate e pochi avrebbero sospettato l'esistenza di un qualsiasi pericolo. Il lago venne ispezionato, ne venne determinato il volume, l'insetticida vi fu immesso in una quantità così modesta che per ogni parte di prodotto vi erano 70 milioni di parti d'acqua. Sembrò dapprima che il trattamento avesse dato buon esito ma, nel 1954, si dovette ripetere l'operazione, e stavolta con una proporzione di 1 parte di Ddd per 50 milioni di parti d'acqua. Dopo di che si considerò ormai completa la distruzione di tali insetti. Nell'inverno successivo si ebbero i primi indizi che anche altri esseri viventi erano stati colpiti: gli svassi che vivevano sull'acqua cominciarono a morire e ben presto ne furono trovati più di un centinaio senza vita. Lo svasso occidentale che vive sul Clear Lake è un uccello sia stanziale sia visitatore invernale, attratto dall'abbondanza di pesce che si trova in quelle acque; si tratta d'un volatile dall'aspetto spettacolare e dalle strane abitudini, che costruisce nidi galleggianti sui laghi poco profondi delle regioni occidentali statunitensi e canadesi. Esso viene pure chiamato, e con ragione, svasso-cigno perché scivola con leggerezza sulla superficie dell'acqua increspandola appena, con il corpo appiattito contro di essa, mentre tiene fieramente eretti il bianco collo ed il nero e lustro capo. I piccoli, quando nascono, appaiono ricoperti da una lanugine grigia e soffice: dopo poche ore entrano già in acqua stando sul dorso del padre e della madre che li proteggono tenendoseli sotto le ali. Altri svassi morirono nel 1957, dopo una terza disinfestazione operata contro quegli insopprimibili ditteri. Come già nel 1954, l'esame degli uccelli morti non rivelò l'esistenza di alcuna malattia infettiva. Però, quando a qualcuno venne l'idea di sottoporre ad analisi i loro tessuti adiposi, si riscontrò che essi contenevano Ddd nell'eccezionale dose di 1600 p.p.m'. La massima concentrazione immessa nell'acqua era stata di 0,02 p.p.m'. Come aveva potuto la sostanza chimica concentrarsi a tal segno in quegli uccelli? Gli svassi, naturalmente, si nutrono di pesce. Quando anche i pesci del Clear Lake vennero analizzati, l'intero quadro cominciò a delinearsi: il veleno aveva contaminato gli organismi più piccoli e quindi, con successivi aumenti di concentrazione, era passato via via nel corpo dei predatori sempre più grossi. Risultò infatti che gli organismi planctonici contenevano circa 5 p.p.m. di insetticida (cioè 25 volte la massima concentrazione che l'acqua avesse mai raggiunto); i pesci erbivori, che si erano nutriti di quel plancton, l'avevano concentrato sino a 40-300 p.p.m'; le specie carnivore ne avevano accumulato una dose ancora maggiore. Tra esse, un magnarone palesò la stupefacente concentrazione di 2500 p.p.m'. Si trattava, insomma, d'una specie di "scatola cinese": i carnivori grossi si erano mangiati quelli piccoli, i quali avevano divorato gli erbivori, che a loro voluta si erano nutriti con il plancton impregnato del veleno immesso nell'acqua. Più tardi vennero fatte scoperte anche più straordinarie. Già poco tempo dopo l'ultima immissione di disinfestante non si era riusciti a rintracciare nell'acqua alcun residuo di Ddd, eppure il veleno era ancora lì! Semplicemente era stato inglobato da quella portentosa "fabbrica vivente" rappresentata da tutti gli organismi viventi in essa. Ventitré mesi dopo la cessazione del trattamento chimico, il plancton ne conteneva ancora 5,3 p.p.m'. Nell'intervallo di quasi due anni, si erano avute varie fioriture di plancton, che poi erano scomparse e successivamente ricomparse; il veleno, anche se non presente nell'acqua, era in qualche modo passato di generazione in generazione, e continuava pure a permanere nella vita animale del lago. Tutti i pesci, gli uccelli e le rane, esaminati ad un anno di distanza dall'ultima disinfestazione, contenevano ancora Ddd, ed il quantitativo ritrovato nelle loro carni era sempre molto maggiore di quello immesso inizialmente nell'acqua. Tra questi veicoli viventi di tossicità c'erano anche i pesci nati nove mesi dopo l'ultimo trattamento di Ddd, svassi e gabbiani della California, che avevano raggiunto concentrazioni superiori alle 2000 p.p.m'. Nel frattempo le colonie nidificanti di svassi andavano scomparendo: di più di 1000 coppie che avevano popolato la zona prima che l'insetticida fosse stato cosparso, ne sopravviveva, nel 1960, appena una trentina; ed anche queste sembrano aver nidificato invano perché nessuno ha mai più visto svassi giovani sul lago, dal giorno dell'ultima disinfestazione. L'intera catena di questo processo di intossicazione si basa dunque sugli invisibili organismi vegetali che devono essere stati i primi a concentrare il veleno. Ma cosa dire dell'altra estremità di tale catena alimentare, dove si trova l'uomo che probabilmente all'oscuro di tutta questa sequenza di avvenimenti, ha montato la sua attrezzatura da pesca, ha pescato nelle acque del Clear Lake, si è portato a casa i pesci e li ha fritti per la cena? Cosa può provocargli una dose elevata, o forse anche più dosi successive, di Ddd? Nel 1959 il California Department of Public Health, pur avendo dichiarato che non esisteva alcun pericolo, ordinò di sospendere le immissioni di insetticida nel lago. Data l'evidenza, scientificamente provata, dell'enorme potenza biologica di tale sostanza, l'adozione di una misura di sicurezza del genere era il meno che si potesse fare. Infatti l'effetto fisiologico del Ddd è forse unico fra quelli di tutti gli insetticidi: esso distrugge parzialmente le ghiandole surrenali, e precisamente le cellule del rivestimento esterno, noto con il nome di corticale, che secernono l'ormone cortina. In principio si ritenne che queste conseguenze nocive - accertate fin dal 1948 - si limitassero ai cani, perché non erano apparse in altri animali da esperimento (scimmie, ratti o conigli). Parve sintomatico, tuttavia, il fatto che il Ddd provocasse nei cani uno stato molto simile a quello che si constata nell'uomo affetto da morbo di Addison. Le recenti ricerche mediche hanno appurato che il Ddd reprime fortemente la funzione della cortico-surrenale dell'uomo. La sua capacità di distruggere le cellule viene oggi utilizzata clinicamente per la cura d'un tipo non molto frequente di cancro che si sviluppa nelle ghiandole surrenali. L'episodio del Clear Lake propone un quesito che la collettività deve risolvere: è saggio o desiderabile che per combattere gli insetti, si impieghino sostanze destinate a produrre effetti di tale portata sui processi fisiologici, specialmente quando le disinfestazioni comportano l'immissione di questi tossici in uno specchio d'acqua? Il fatto che l'insetticida sia stato introdotto in una concentrazione molto bassa non ha importanza, come sta a comprovare la sua esplosiva ascesa nella catena alimentare nel lago. E il Clear Lake non è che un caso tipico di un numero considerevole e sempre crescente di situazioni, in cui la soluzione d'un problema di limitata importanza, e spesso banale, ne crea uno molto più serio, anche se meno tangibile. Nel Clear Lake il problema venne risolto a favore di coloro che erano infastiditi da insetti del tutto innocui, a spese d'un rischio incalcolabile (e forse non ancora pienamente compreso) per tutti coloro che traevano dal lago acqua e nutrimento. E' poi un fatto incredibile che anche nei bacini, la deliberata immissione di veleni stia diventando una pratica del tutto comune. Ciò viene fatto con l'intento di favorire particolari tipi di ricreazione anche se viene addotto il pretesto che la spesa va affrontata per rendere potabile l'acqua. Tutte le volte che gli "sportivi" di una certa zona vogliono "migliorare" la pescosità di un bacino, riescono a sovrapporsi alle autorità locali e ad ottenere che si cospargano quantitativi di veleno per sterminare i pesci indesiderati, i quali vengono sostituiti poi da altre specie che soddisfano meglio il gusto dei pescatori. Questo modo di procedere è davvero sorprendente: il bacino era stato creato per la fornitura idrica della popolazione intera, ed ecco che la comunità, forse senza venire neppure consultata in merito ai propositi degli "sportivi", o deve bere acqua contenente residui velenosi o pagare contributi per i trattamenti necessari alla rimozione delle sostanze tossiche - trattamenti che sono ben lungi dall'essere semplici. Nell'inquinamento delle acque sotterranee e di superficie, causato da disinfestanti o altri composti chimici, c'è il pericolo che non soltanto veleni, ma anche sostanze cancerogene, siano introdotti nelle acque destinate ad uso pubblico. Il dott. Hueper del National Cancer Institute ha ammonito che "il pericolo di un'incidenza del cancro in seguito all'uso di acque potabili contaminate aumenterà in misura considerevole durante i prossimi anni". Infatti, ricerche effettuate in Olanda, all'inizio del 1950, hanno confermato l'opinione che i corsi d'acqua contaminati costituiscono una minaccia di cancro. Le città che ricevono dai fiumi la loro acqua potabile presentano una media superiore di decessi per cancro rispetto a quelle che attingono l'acqua da fonti presumibilmente meno suscettibili di inquinamento come, per esempio, i pozzi artesiani. L'arsenico, che è la sostanza meglio individuata nell'ambiente che ci circonda come apportatrice di cancro nell'uomo, fu coinvolto in due casi, ormai storici, in cui l'inquinamento di acquedotti produsse una diffusa insorgenza di cancro. Nel primo caso, l'arsenico proveniva da cumuli di scorie della lavorazione mineraria; nell'altro, invece, da rocce contenenti un'alta percentuale naturale di arsenico. Tale situazione può facilmente peggiorare per effetto dell'impiego massivo di insetticidi arsenicali: nelle zone così disinfestate il suolo si intossica e la pioggia, dilavandolo, convoglia una parte dell'arsenico nei corsi d'acqua, nei fiumi, nei bacini, come pure in tutta la vasta falda freatica. A questo punto dobbiamo ricordare di nuovo che in natura nulla esiste a sé stante. Per comprendere con maggiore chiarezza come avvenga l'inquinamento nel nostro mondo, considereremo ora un'altra delle fondamentali risorse terrestri: il suolo. Capitolo quinto - I regni del suolo Il sottile strato di suolo, che si stende sopra i continenti come una logora coltre, condiziona la nostra esistenza e quella di ogni altro animale sulla Terra. Senza il suolo la vegetazione terrestre quale la conosciamo non crescerebbe e, senza piante, nessun animale potrebbe sopravvivere. Inoltre, se è vero che la nostra esistenza basata sull'agricoltura dipende dal suolo, non è meno vero che il suolo dipende a sua volta dalle forme viventi, dato che la sua origine e la conservazione della sua reale natura hanno un'intima connessione con la vita delle piante e degli animali. Il suolo, infatti, è stato parzialmente creato dalla vita, e la sua nascita può considerarsi il frutto di una sorprendente interazione, in epoche remotissime, tra viventi e cose inanimate. I materiali che lo costituiscono si riunirono insieme quando i vulcani li eruttarono come fiumi di lava ardente; lo scorrere delle acque sulla nuda pietra dei continenti corrose poi anche il più duro granito, e il morso del gelo e dei ghiacci spaccò e sconvolse le rocce. Poi gli esseri viventi cominciarono il loro magico lavoro creativo e, a poco a poco, quella materia inerte divenne "suolo". I licheni, che per primi ricoprirono la superficie rocciosa, favorirono il processo di disintegrazione con le loro secrezioni acide e crearono una piattaforma per nuove forme di vita: il muschio attecchì su piccole chiazze, sparse qua e là, di terriccio composto dalle rocce sbriciolate dai licheni, dalle spoglie di minuscoli insetti e dai resti di quella fauna che aveva cominciato a trasferirsi dal mare alla terra. Così, non soltanto la vita formò il suolo, ma altre forme viventi di incredibile abbondanza e varietà ora lo popolano; se ciò non fosse, il suolo sarebbe una cosa morta e sterile. Con la loro presenza e la loro attività le miriadi di organismi stanziate sul suolo consentono ad esso di alimentare il verde manto della vegetazione terrestre. Il suolo è in uno stato di perpetuo mutamento e partecipa a cicli senza principio né fine. Esso si arricchisce costantemente di nuovi materiali come, per esempio, i detriti provenienti dalla disintegrazione delle rocce, i residui della decomposizione di sostanze organiche, l'azoto ed altri gas che la pioggia trascina giù con sé dal cielo. Al tempo stesso, viene depauperato di altre sostanze che le creature viventi in esso traggono per le loro necessità contingenti. Trasformazioni chimiche, delicate ed assai importanti, si sviluppano di continuo per convertire gli elementi provenienti dall'aria e dall'acqua in composti utili ai bisogni delle piante. Ed in tutte queste modificazioni gli organismi viventi svolgono un'azione molto attiva. Pochi studi sono più affascinanti, ed anche meno coltivati, di quelli che hanno per oggetto le innumerevoli popolazioni brulicanti negli oscuri recessi del suolo. Conosciamo troppo poco la trama che lega questi organismi l'uno all'altro, al loro mondo e al mondo soprastante. Forse gli organismi fondamentali del suolo sono quelli più piccoli - l'invisibile folla di batteri e di funghi filamentosi. I dati statistici sulla loro quantità salgono a cifre astronomiche. Un cucchiaio da tè pieno di terriccio può contenere miliardi di batteri. Nonostante le loro microscopiche dimensioni, il peso totale di questa moltitudine in un ettaro di terreno fertile, profondo una spanna, può essere di circa 1000 chilogrammi. Gli actinomiceti, che formano lunghi cordoni filamentosi, hanno una diffusione un po' inferiore a quella dei batteri; però, siccome sono un po' più grandi, il loro peso rispettivo in una stessa porzione di suolo è circa lo stesso. Essi, insieme con le piccole cellule verdi che si chiamano alghe, costituiscono la microscopica vita vegetale del suolo. I batteri, i funghi e le alghe sono i principali agenti di decomposizione e, grazie ad essi, i residui animali e vegetali vengono ridotti ai loro componenti minerali. L'ampio movimento ciclico di elementi chimici quali il carbonio e l'azoto attraverso il suolo, l'aria ed i tessuti viventi non potrebbe avvenire senza questa flora microscopica. Per esempio, le piante, pur circondate dal mare di azoto contenuto nell'aria, deperirebbero per la sua mancanza se non intervenissero i batteri che fissano tale azoto. Altri organismi producono anidride carbonica che, come acido carbonico, contribuisce alla dissoluzione delle rocce. Ancora altri microbi del suolo ossidano e riducono certi minerali come il ferro, il manganese e lo zolfo, in modo da renderli utilizzabili dalle piante. Sono pure presenti in quantità prodigiosa acari microscopici e insetti primitivi ed atteri, i collemboli. Malgrado le loro minuscole dimensioni, essi hanno un'importanza fondamentale nella decomposizione dei residui vegetali, facilitando il lento processo di trasformazione che subisce lo strame nel sottobosco. La specializzazione che qualcuna di queste minuscole creature palesa nello svolgimento del proprio compito è quasi incredibile: varie specie di acari, per esempio, possono cominciare a vivere soltanto in mezzo agli aghi caduti dagli abeti. Così protette, esse si nutrono della parte interna cosicché, quando hanno portato a termine il loro sviluppo, di quelle foglie rimane solo lo strato esterno. Il compito colossale di elaborare l'enorme quantità di materia vegetale ammassata alla caduta annuale del fogliame spetta ad alcuni piccoli insetti del suolo e del sottobosco. Essi macerano e digeriscono le foglie, favorendo il rimescolamento delle sostanze decomposte con il terriccio. Oltre a quest'orda di minuscole creature sempre all'opera, esistono naturalmente molte forme di maggiori dimensioni, giacché la vita animata del suolo presenta una gamma che va dai Batteri ai Mammiferi. Qualche specie ha la sua dimora permanente nei profondi strati del sottosuolo; altre vi ibernano o trascorrono determinati periodi del loro ciclo vitale in cunicoli sotterranei; altre, infine, vanno e vengono liberamente dalle loro tane al mondo esterno e viceversa. In genere l'effetto prodotto da questo notevole popolamento del suolo è quello di aerearlo e migliorare sia il suo drenaggio che l'infiltrazione di acque attraverso gli strati ricoperti di vegetazione. Tra tutti gli abitanti visibili del suolo, forse nessuno è più importante del lombrico. Più di 75 anni fa, Darwin pubblicò un libro intitolato The Formation of Vegetable Mould, through the Action of Worms, with Observations on Their Habits ?La formazione dell'humus attraverso l'azione dei vermi, con osservazioni sulle loro abitudini*. Con tale opera lo scienziato inglese volle fornire al pubblico una spiegazione dell'importanza fondamentale dei lombrichi quali agenti geologici nel "rimescolamento" del suolo. Egli ci fa vedere, infatti, come le rocce vengano gradatamente ricoperte di terriccio portato dai lombrichi dagli strati più profondi alla superficie in una quantità tale che in certe zone particolari, può raggiungere un peso di molte tonnellate per ettaro in un anno. Al tempo stesso, una buona parte delle sostanze organiche contenute nel fogliame e nell'erba (più di 10 chilogrammi per ogni metro quadrato ogni semestre) sprofonda nelle piccole gallerie scavate dai lombrichi ed è incorporato nel suolo. I calcoli di Darwin mostrano che in un periodo di 10 anni i vermi, con la loro opera, possono innalzare di 3 o 4 centimetri il livello del suolo. Né tutto finisce qui: le gallerie che essi scavano favoriscono l'aereazione ed il drenaggio del terreno e permettono alle radici delle piante di penetrare in profondità. La presenza dei lombrichi accentua il potere nitrificante dei batteri terricoli e rallenta i processi di putrefazione del terreno; le sostanze organiche vengono decomposte mentre attraverso l'apparato digerente di questi vermi il suolo si arricchisce dei loro prodotti di escrezione. Nel suolo esiste, dunque, questa comunità, questa trama interdipendente in cui si intrecciano le varie forme di vita, ciascuna legata in qualche modo all'altra: le creature viventi dipendono dal suolo ma il suolo, a sua volta, è l'elemento vitale della Terra solo se vi prospera tale comunità, insita in esso. Il problema che dobbiamo proporci a questo punto ha richiamato finora su di sé ben poca attenzione. Cosa succede a questi innumerevoli e "necessari" abitatori del terreno quando i veleni chimici si diffondono nel loro mondo, o per immissione diretta (come "sterilizzanti"), o trascinativi dalla pioggia che ne è contaminata mentre filtra attraverso il fogliame delle foreste, dei frutteti e delle piantagioni agricole? Si può pensare, ad esempio, di cospargere un micidiale disinfettante per sterminare le larve di un insetto nocivo alle colture, senza uccidere contemporaneamente anche gli insetti buoni, ai quali può essere affidata la fondamentale funzione di demolizione delle sostanze organiche? O possiamo impiegare un fungicida non specifico senza distruggere anche i funghi che vivono nelle radici di molti alberi e ricambiano l'ospitalità aiutandoli a trarre il nutrimento dal suolo? La dolorosa verità è che questo importantissimo capitolo dell'ecologia del terreno ha suscitato ben poco interessi anche negli scienziati ed è quasi completamente ignorato da chi dirige le disinfestazioni. Il controllo chimico degli insetti - a quanto pare - ha per suo postulato che il suolo possa sopportare l'aggressione di qualsiasi veleno senza riportare danno. La reale natura del mondo che vi gravita viene in gran parte ignorata. Tuttavia, dai pochi studi compiuti finora, si sta facendo lentamente strada la convinzione che gli insetticidi influiscono notevolmente sullo stato del suolo. Non fa meraviglia che i risultati delle indagini siano talvolta discordanti, perché il suolo varia enormemente da un luogo all'altro, cosicché le stesse cause possono produrre effetti dannosi in una zona mentre risultano innocue altrove. Un terreno asciutto e sabbioso è meno resistente di uno ricco di humus. Inoltre, sembra che la combinazione di più sostanze chimiche provochi danni maggiori che non l'impiego di un singolo tossico alla volta. Nonostante i risultati discordi, abbiamo già acquisito prove abbastanza concrete da mettere in apprensione gli scienziati. In determinate condizioni, le conversioni e le trasformazioni chimiche che sono al centro di tutto il mondo vivente vengono insidiate. La nitrificazione, il processo attraverso cui l'azoto atmosferico viene reso utilizzabile dalle piante, ne è un esempio: ebbene, l'erbicida 2,4-D la blocca temporaneamente. In Florida, durante recenti prove, il lindano, l'eptacloro ed i l Bhc (esacloruro di benzene) hanno ridotto le nitrificazioni dopo solo due settimane di permanenza nel suolo; il Bhc ed il Ddt manifestarono effetti nefasti anche un anno dopo il loro impiego. In altri esperimenti il Bhc, l'aldrina, il lindano, l'eptacloro ed il Ddd impedirono ai batteri fissatori d'azoto di formare nelle leguminose i necessari tubercoli radicali. Per la stessa ragione è anche sconvolta la singolare e benefica reciprocità di rapporti che intercorrono tra i funghi e le radici delle piante superiori. Talvolta può venir travolto il delicato equilibrio esistente tra le varie forme viventi, e stabilito dalla natura per il compimento dei suoi lungimiranti disegni. Si è già dato il caso di crescite sproporzionate di certe specie di organismi del suolo allorché altre avevano subìto una notevole riduzione ad opera di insetticidi; e ciò è valso a disturbare il rapporto naturale tra predatori e preda. Tali mutamenti potrebbero alterare facilmente l'attività metabolica del terreno e minacciarne la produttività; potrebbero anche comportare l'eventualità che organismi potenzialmente pericolosi, e fino a quel momento tenuti in scacco, sfuggano al loro controllo naturale e si moltiplichino con conseguenze dannosissime. Una delle cose più importanti da ricordare, a proposito degli insetticidi, è la loro lunga persistenza nel suolo, che non si misura in mesi ma in anni. L'aldrina vi è stata ritrovata dopo quattro anni, sia in tracce come tale, sia (e con maggiore abbondanza) convertita in dieldrina. Una certa quantità di toxafene permane nel terreno sabbioso anche dopo dieci anni dal giorno in cui lo si è sparso per uccidere le termiti. L'esacloruro di benzene perdura almeno undici anni; l'eptacloro, od un suo derivato ancor più tossico, almeno nove. Il clordano è stato rintracciato ben dodici anni dopo il suo impiego, in una concentrazione pari al 15% di quella originaria. Irrorazioni apparentemente modeste di insetticida, ripetute per anni ed anni, possono accumularne nel suolo una spaventosa quantità. Siccome gli idrocarburi clorurati sono persistenti e difficili da distruggere, ogni applicazione viene praticamente ad aggiungersi alla precedente. La vecchia storia che "un chilogrammo di Ddt su un ettaro di terreno è innocuo" non ha alcun significato se le irrorazioni vengono ripetute. In certe piantagioni di patate sono stati rintracciati oltre 15 chilogrammi di Ddt per ettaro; in altre, coltivate a cereali, perfino 19. In un terreno paludoso ricoperto di vaccinio l'esame del suolo ha accertato la presenza di 35 chilogrammi di Ddt per ettaro. Nei frutteti di mele, a quanto pare, il terreno raggiunge le punte massime di contaminazione perché il Ddt vi si accumula quasi nella stessa quantità in cui viene applicato ogni anno. In una sola stagione, nei pometi irrorati con Ddt, il terreno arriva ad un culmine di concentrazione che oscilla fra i 30 ed i 50 chilogrammi per ettaro. Se il trattamento viene ripetuto per anni, l'accumulo di tossico tra gli alberi varia entro limiti dai 26 ai 60 chilogrammi, mentre nel terreno sottostante la concentrazione sale fino a 113 chilogrammi. L'arsenico ci fornisce un caso di avvelenamento del suolo praticamente permanente. Sebbene gli insetticidi sintetici organici abbiano sostituito quasi dappertutto i prodotti arsenicali nelle irrorazioni delle colture di tabacco fin dal 1940, l'arsenico contenuto nelle sigarette fabbricate con tabacco coltivato in America è aumentato più del 300% dal 1932 al 1952. Analisi successive hanno accertato aumenti che raggiungono il 600%. Il dott. Satterlee - un'autorità riconosciuta in fatto di tossicologia dell'arsenico - afferma che, nonostante la diffusa preferenza data oggi agli insetticidi organici, le piante del tabacco seguitano ad assorbire il vecchio veleno perché il terreno delle piantagioni è completamente impregnato, oggi, dei residui di arsenico di piombo, un tossico potente e relativamente insolubile da cui si libera continuamente arsenico in forma solubile. Il terreno di una vasta parte delle piantagioni di tabacco, secondo il dott. Satterlee, ha subìto "un avvelenamento cumulativo pressoché permanente". Il tabacco coltivato nei paesi del Mediterraneo orientale, dove gli insetticidi arsenicali non vengono usati, non presenta al contrario un tale incremento nel contenuto di arsenico. Ci troviamo, quindi, alle prese con un secondo problema. Non dobbiamo preoccuparci soltanto di ciò che accade al suolo, ma chiederci anche in quale misura gli insetticidi vengono assorbiti dal terreno e introdotti nei tessuti vegetali. Molto dipende dal tipo di suolo, dalla coltura e dalla natura e concentrazione dell'insetticida. In un terreno, quanto maggiore è il tasso di sostanze organiche che esso contiene, tanto minore è la dose di veleno che esso libera. Le carote assorbono più insetticida di qualsiasi altro vegetale preso in esame; qualora si usi come disinfestante il lindano, esse accumulano una concentrazione tossica superiore a quella che contamina il terreno. Forse nel futuro, prima di procedere alla semina di certe colture, occorrerà analizzare il suolo che abbia subìto disinfestazioni; altrimenti le coltivazioni, anche se non irrorate con alcun insetticida, possono assorbire dal terreno i vecchi residui e produrre raccolti inutilizzabili per la vendita. Questa specie particolare di contaminazione ha creato problemi senza fine ad uno almeno dei più importanti produttori di alimenti per l'infanzia il quale non era disposto ad acquistare frutta e verdure sottoposte, durante la crescita, a trattamento con insetticidi tossici; la sostanza chimica che più lo spaventava era l'esacloruro di benzene (Bhc), che è assorbito dalle radici e dai tuberi delle piante, manifestando la sua presenza con l'odore e il sapore di muffa. Patate dolci, cresciute in California in un terreno trattato con il Bhc due anni prima, presentavano residui in tale quantità che si dovette distruggerle. In un certo anno, la ditta aveva fatto un contratto per l'acquisto dell'intero fabbisogno di patate dolci nella Carolina del Sud; ebbene, il terreno era risultato così contaminato che quella compagnia fu costretta a comprare al mercato libero la sua merce, subendo così una forte perdita di denaro: di anno in anno, nei vari stati, si dovettero scartare quantità sempre crescenti di frutta e verdura. Il problema di più difficile soluzione era quello delle arachidi: negli stati meridionali esse, di solito, vengono coltivate in rotazione con il cotone, le cui piantagioni subiscono frequenti disinfestazioni con Bhc e, sostituendosi alla coltura precedente, assorbono dal terreno un considerevole quantitativo di insetticida. Ora, si tenga presente che una traccia soltanto di quest'ultimo basta a determinare i caratteristici odore e sapore di muffa, e il tossico penetra nei baccelli senza poter più venir rimosso; anzi, spesso i tentativi fatti per eliminare questo gusto sgradevole non fanno che accentuarlo. L'unica cosa da fare, per l'industriale che non voglia aver residui di Bhc nella sua merce, è scartare tutti i prodotti trattati con tale insetticida o cresciuti in un terreno contaminato. Spesso la minaccia si rivolge contro la coltura stessa - una minaccia duratura quanto la comunicazione del suolo. Certi insetticidi colpiscono piante sensibili come i fagioli, il grano, l'orzo e la segala, ritardando lo sviluppo delle radici e frenando la crescita delle pianticelle. L'esperienza dei coltivatori di luppolo, negli stati di Washington e dell'Idaho, ne è un esempio: durante la primavera del 1955, molti di essi intrapresero un'operazione di disinfestazione su vasta scala contro i Curculionidi che attaccavano le radici delle fragole e le cui larve si trovavano in grande copia anche sulle radici del luppolo. Su consiglio dei tecnici agrari e dei produttori d'insetticidi, venne prescelto come disinfestante l'eptadoro. Nello spazio di un anno, negli appezzamenti irrorati, i tralci appassirono e morirono, mentre nei campi che non avevano subìto il trattamento non si registrò alcun danno: questo si arrestava al limite tra il suolo cosparso di eptacloro ed il terreno immune. Con gravi spese si procedette ad una nuova piantagione su quelle colline, ma nello spazio di un altr'anno anche le nuove radici morirono. Dopo quattro anni il suolo conteneva ancora eptacloro, e gli specialisti non furono in grado di prevedere per quanto tempo ancora esso sarebbe rimasto contaminato, o di suggerire qualche rimedio per disintossicarlo. Il Dipartimento federale dell'Agricoltura che, fino al marzo 1959, si era trovato nell'errata situazione di dichiarare accettabile l'impiego dell'eptacloro sul luppolo come disinfestante del suolo, ritornò, sia pur con ritardo, sui propri passi. Nel frattempo, ai coltivatori non rimase che tentare di ottenere un risarcimento in tribunale. Poiché l'uso degli antiparassitari continua, e con esso proseguirà anche l'accumulo di residui virtualmente indistruttibili, è quasi certo che andremo incontro a funeste conseguenze. Tale appare il verdetto emesso da un gruppo di esperti riunitosi nel 1960 presso l'Università di Syracuse per discutere sull'ecologia del suolo. Essi così additarono il rischio che comporta l'impiego di "strumenti tanto potenti e poco noti", quali sono i prodotti chimici e le radiazioni: "Basta qualche passo falso da parte nostra perché ne risulti la distruzione completa della produttività del suolo, e gli artroprodi prenderanno allora il sopravvento sulla faccia della Terra". Capitolo sesto - Il verde manto della Terra L'acqua, il suolo ed il verde manto della vegetazione costituiscono il mondo che alimenta la vita degli animali sulla Terra. Per quanto l'uomo moderno se ne ricordi di rado, egli non potrebbe esistere senza le piante, che captano l'energia solare ed elaborano le sostanze nutritive dalle quali dipende la sua vita. Il nostro atteggiamento nei confronti della vegetazione mostra una particolare miopia: quando constatiamo che una pianta ci è di utilità immediata, abbiamo per essa ogni cura; ma se la sua presenza ci sembra indesiderabile od anche soltanto superflua, allora, spesso, decidiamo senz'altro di distruggerla. Oltre alle varie piante che sono velenose per l'uomo o il bestiame, o che costituiscono un'insidia per le piante coltivate, molte altre vengono condannate allo sterminio semplicemente perché - secondo il nostro angusto modo di vedere - crescono "nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Alcune, infine, sono condannate alla distruzione per il semplice motivo che si trovano frammiste alla vegetazione nociva. La vegetazione terrestre fa parte di una trama vitale in cui si intrecciano rapporti stretti e fondamentali tra le piante ed il suolo, tra pianta e pianta, tra le piante e gli animali. Talvolta non abbiamo altra scelta che alterare l'equilibrio di questi rapporti, ma ciò dovrebbe essere fatto con grande circospezione, consapevoli che la nostra opera può avere conseguenze remote nel tempo e nello spazio. Di una tale preoccupazione non si trova traccia nella rigogliosa produzione di erbicidi, oggi stimolata dall'enorme smercio e dal crescente impiego di prodotti chimici per sterminare certe piante. Uno dei più drammatici esempi della nostra dissennata manomissione del paesaggio ci viene offerto da certi territori del West ricoperti da cespugli di salvia, dove è in corso una vasta campagna per sostituire a questa pianta l'erba da foraggio. Esso ci mostra meglio di qualsiasi altro caso come l'uomo, nelle sue imprese, debba sempre trarre insegnamento dalla storia e ricordare il significato del paesaggio perché, proprio in quelle zone, il paesaggio rivela in maniera eloquente l'azione interdipendente delle forze che l'hanno creato. Esso sta dinanzi a noi come le pagine di un libro aperto in cui possiamo leggere e capire perché quella terra sia quale essa è, e perché dobbiamo preservare la sua integrità. Ma quelle pagine restano intonse. Quella terra è situata sugli altopiani occidentali e nella parte più bassa delle pendici montuose che li circondano: una terra nata molti milioni di anni fa dall'impetuosa orogenesi del sistema delle Montagne Rocciose. Si tratta d'una regione caratterizzata da enormi squilibri delle condizioni climatiche: lunghi inverni, durante i quali turbini di tormenta scendono dai monti e la neve si accumula sulle zone pianeggianti, ed estati torride e scarsamente piovose, durante le quali si aprono profonde crepe nel terreno e l'arido vento secca gli umori delle foglie e dei tronchi. Durante l'evoluzione del paesaggio vi dev'essere stato un lungo periodo di "tentativi ed errori", durante il quale le piante cercarono di "colonizzare" queste terre elevate e spazzate dai venti: una dopo l'altra, esse dovettero fallire. Alla fine si sviluppò una specie di pianta che possedeva tutte le qualità atte alla sopravvivenza. La salvia - una pianta bassa e cespugliosa - poté resistere sugli altopiani e sui fianchi delle colline e conservare tra le sue piccole foglie grige abbastanza umidità per sfidare l'arsura di quel vento. Non si deve dunque al caso, ma agli effetti di un lungo periodo di esperimenti compiuti dalla natura, se le grandi pianure del West sono diventate la "terra della salvia". Insieme con la vegetazione, anche la vita animale si evolse adattandosi alle difficili condizioni ambientali. Con il tempo due specie animali riuscirono, al pari della salvia, a crearsi il loro habitat: un mammifero, la veloce e graziosa antilocapra, e un uccello, il gallo della salvia, o "gallo degli altopiani", come lo chiamano Lewis e Clark. La salvia ed il gallo sembrano fatti l'una per l'altro. L'area di distribuzione del volatile coincideva con l'estensione di quella vegetazione, cosicché quando cominciò la distruzione della salvia, anche la popolazione avicola si ridusse. Per quegli uccelli, la salvia è tutto: i bassi arbusti che crescono ai piedi delle colline offrono un comodo asilo per la cova e per i piccoli nati; le zone pianeggianti, dove la vegetazione è più folta, forniscono agli adulti un ambiente ideale per nutrirsi ed appollaiarsi; in qualsiasi stagione le piante procurano loro il sostentamento necessario. Ma vi è anche uno scambio reciproco: infatti le straordinarie esibizioni dei maschi nel corteggiamento provocano un continuo rimescolamento del terreno che si trova sotto ed intorno alle piante, facilitando l'invasione di erbe che crescono al loro riparo. Anche le antilocapre hanno adattato la propria esistenza alla salvia. Esse sono soprattutto animali di pianura e, quando arrivano le prime nevicate, quelle che hanno trascorso l'estate in montagna scendono a quote meno elevate. Qui la salvia procura loro il cibo sufficiente per passare l'inverno. Mentre tutte le altre piante perdono il fogliame, la salvia rimane sempre verde; e le foglioline grigio-verdastre aderenti ai rami dei suoi folti arbusti sono amarostiche, ricche di proteine, grassi e minerali indispensabili alla loro alimentazione. Anche se la neve si ammucchia, non riesce a ricoprirne la cima o, in ogni caso, questa può venire facilmente raggiunta dagli aguzzi e scalpitanti zoccoli di quegli animali. Allora anche il gallo ne approfitta per procurarsi il nutrimento, o nelle zone scoperte e più battute dal vento, o seguendo le antilocapre e approfittando delle piante che esse hanno dissepolto. Ed anche altre vite dipendono dalla salvia: spesso i "cervi dalle grandi orecchie" se ne nutrono; essa, dunque, rappresenta il mezzo di sopravvivenza per gli animali transumanti in cerca di cibo. Le pecore trascorrono a volte molti inverni in zone dove i grossi arbusti di salvia sono quasi l'unica vegetazione che vi cresce. Per metà dell'anno questo è il loro principale foraggio: un foraggio il cui valore energetico supera perfino quello dell'alfa alfa. Gli impervi altopiani occidentali, le purpuree distese della salvia, la selvatica e veloce antilocapra ed il gallo di montagna formano dunque un sistema naturale in perfetto equilibrio. Formano? Il tempo di questo verbo dev'essere ormai cambiato - almeno là dove l'uomo sta tentando di "migliorare", in aree sempre più vaste, l'opera della natura. In nome del progresso, gli enti per la bonifica agraria si adoperano per soddisfare la insaziabile richiesta di nuove terre da pascolo avanzata dagli allevatori di bestiame. E ciò significa, per essi, "praterie" - prati senza salvia. Cosicché, in una regione che la natura aveva deciso di rivestire di erbe frammiste e protette dalla salvia, viene proposto di eliminare la salvia e creare una sconfinata prateria. Pare che quasi nessuno si sia chiesto se questo sia un obiettivo utile e raggiungibile. Certo la risposta della natura è stata diversa: le precipitazioni atmosferiche che cadono durante l'anno in questo territorio sono tanto scarse da essere insufficienti per assicurare alle zolle l'umidità necessaria alle erbe; favoriscono piuttosto i cespugli erbosi che crescono al riparo della salvia. Tuttavia i programmi per sradicare la salvia vengono portati innanzi già da anni. Numerose commissioni governative se ne interessano. L'industria, dal canto suo, vi si è associata con entusiasmo per promuovere ed incoraggiare un'impresa che determina un aumento delle vendite non soltanto di sementi da foraggio, ma anche di una grande varietà di falciatrici, di aratri meccanici e di seminatrici. A questi sistemi di distruzione si è aggiunto oggi l'impiego degli erbicidi chimici: ormai milioni di ettari ricoperti di salvia vengono irrorati ogni anno. Quali risultati ne derivano? La possibilità di eliminare la salvia e piantare in sua vece erbe da foraggio appare assai dubbia. Uomini provvisti di una lunga esperienza in fatto di pedologia affermano che su quel territorio l'erba cresce meglio sotto ed in mezzo alla vegetazione cespugliosa della salvia di quanto non le sarebbe concesso in una distesa spoglia di quelle piante che trattengono l'umidità. Ma quand'anche il progetto conseguisse il suo obiettivo immediato, è certo che tutto quell'intreccio vitale ne è stato sconvolto. Insieme con la salvia, scompariranno l'antilocapra ed il gallo, ed anche il "cervo dalle grandi orecchie" ne soffrirà. E l'intera regione, priva degli esseri che naturalmente le appartengono, resterà immiserita. Anche al bestiame d'allevamento, che dovrebbe beneficiarne, ne deriverà un danno: nessun lussureggiante pascolo estivo può infatti essere d'aiuto nell'inverno, alle pecore affamate per la mancanza della salvia o di altri cespugli aromatici, come pure di tutta la vegetazione naturale di quegli altopiani. Questi i primi effetti ed anche i più ovvi. I secondi, invece, appartengono ad un genere che sempre si accompagna a qualsiasi nostro tentativo di recare violenza alla natura: le irrorazioni chimiche infatti eliminano anche un grande numero di piante che non era nostro intendimento distruggere. Il giudice William O' Douglas, nel suo recente libro My Wilderness: East of Katahdin ?Il mio deserto, ad oriente di Katahdin*, riporta uno spaventevole esempio di distruzione ecologica compiuta dal Servizio Forestale degli Stati Uniti nella Bridger National Forest di Wyoming. Oltre 4500 ettari di terreno ricoperti di salvia vennero cosparsi di erbicida, in seguito alle pressioni degli allevatori di bestiame che ne volevano la conversione a pascolo. La salvia fu estirpata, come si voleva, ma vennero distrutti anche i benefici filari di verdi salici che attraversavano le pianure lungo i serpeggianti corsi d'acqua. Molti alci avevano vissuto nel folto di quei boschetti, poiché per essi il salice è come la salvia per le antilocapre. Ed anche i castori vi avevano prosperato, traendo da essi nutrimento, oppure abbattendo le piante per costruire le loro dighe attraverso i corsi d'acqua. Grazie al lavoro di quei castori si era formato un lago, in cui le trote dei torrenti di montagna - che raggiungevano di rado la lunghezza di 15 cm - si svilupparono tanto prodigiosamente che alcune superarono in peso i due chilogrammi. Anche l'avifauna acquatica vi fu attratta. Insomma, i salici ed i castori che da essi dipendevano avevano fatto di quella regione un luogo pieno di attrattive e meta di pescatori e cacciatori. Senonché, in conformità al "piano di bonifica" disposto dal Servizio Forestale, anche ai salici toccò la sorte della salvia; essi pure vennero sterminati dall'"imparziale" erbicida. Quando il giudice Douglas visitò la contrada nel 1959, l'anno della irrorazione chimica, fu sorpreso nel trovare "il vasto ed incredibile scempio" dei salici appassiti e morenti. E quale destino si profilava per gli alci? E per i castori e per il piccolo mondo che essi avevano costruito? Un anno più tardi egli tornò nella terra devastata per leggervi la risposta. Gli alci erano scomparsi, e così pure i castori. La diga principale, rimasta priva delle cure dei suoi solerti costruttori, non aveva resistito alle infiltrazioni dell'acqua, ed il lago si era prosciugato. Ormai nessuna delle grosse trote di un tempo vi nuotava più: nessuna avrebbe potuto vivere nel misero rigagnolo che ora scorreva stentatamente attraverso un terreno squallido e riarso, privo del ristoro di qualsiasi ombra. Tutto il mondo vivente appariva sconvolto. Oltre ai 20.000 chilometri quadrati di prati irrorati ogni anno con gli erbicidi, altre enormi superficie di terreno destinato alle più diverse colture costituiscono recipienti attuali o potenziali di sostanze chimiche usate per il controllo delle erbe. Per esempio, un'area più grande del New England (ossia 23 milioni di ettari) si trova sotto la gestione di enti consorziati e viene disinfestata abitualmente "per estirpare i cespugli". Nel Sud Ovest degli Stati Uniti, una regione di 35 milioni di ettari, in cui abbonda il "tornillo", (1) deve necessariamente essere bonificata, e le irrorazioni di sostanze chimiche costituiscono il sistema adottato più di frequente a questo scopo. Una imprecisata, ma certamente considerevole, estensione di terreno forestale da cui si trae legname da costruzione viene oggi irrorata a mezzo di aeroplani per "eliminare" le altre piante senza recar danno alle più resistenti conifere. Il trattamento dei terreni coltivati con erbicidi è raddoppiato nel giro di dieci anni, a partire dal 1949 e, nel 1959, aveva già trovato (1) Col nome di "tornillo" i messicani e gli abitanti delle Indie occidentali chiamano una mimosacea, Prosopis pubescens, che cresce dal Messico al Texas e alla California e produce baccelli usati anche nell'alimentazione umana, per la ricchezza in zuccheri e il vantaggio di essere maturi tutto l'anno. ?N'd'T'* applicazione in una superficie complessiva di 24 milioni di ettari. Se a tutte queste aree aggiungiamo, infine, quelle riservate ai terreni privati, ai parchi pubblici e ai campi da golf e sottoposte allo stesso trattamento, raggiungiamo una cifra davvero astronomica. Gli erbicidi sono per noi come un nuovo meraviglioso giocattolo. Essi fanno "miracoli" e, là dove li cospargiamo, ci danno l'inebriante sensazione di poter soggiogare la natura; quanto agli effetti a lunga scadenza e a quelli meno appariscenti essi vengono allegramente ignorati e considerati fantasie dei pessimisti, prive di qualsiasi fondamento. Gli agrari parlano con disinvoltura di "aratura chimica" in un mondo pressato a trasformare il vomere in spruzzatore. I capi di migliaia di comunità prestano volentieri ascolto ai venditori di erbicidi ed agli impazienti appaltatori che vogliono sbarazzare i bordi delle strade dai cespugli (e, s'intende, combinare un affare). "Costa meno che falciarli", è il loro slogan. E forse sembra così se ci si limita a guardare le lunghe file di numeri che compaiono nei registri ufficiali. Se però si tenesse conto del costo reale, cioè non solo della spesa in dollari, ma anche di quell'aliquota rappresentata dalle molte ed altrettanto valide passività che prenderemo ora in considerazione, l'impiego su vasta scala dei prodotti chimici apparirebbe ben più dispendioso ed anche, a lunga scadenza, infinitamente dannoso alla salute del paesaggio e a tutti gli interessi collegati con esso. Si prenda, come esempio, la valorizzazione del paesaggio a scopo turistico tanto auspicata da ogni camera di commercio. Ad essa fa riscontro un coro di vibrate proteste, di giorno in giorno più energico, contro la deturpazione dei bordi stradali, un tempo assai belli, ad opera degli erbicidi, i quali, ad una pittoresca flora di felci, fiori selvatici ed arbusti adorni di boccioli e di bacche, sostituiscono una vegetazione giallastra e stentata. "Stiamo facendo dei margini delle nostre strade un ricettacolo di sozzura e di squallore", ha scritto una signora del New England ad un quotidiano, "e questo non è ciò che il turista si aspetta, con tutto il denaro che viene speso in pubblicità per decantare le bellezze del panorama". Nell'estate del 1960 i delegati delle associazioni per la "tutela del paesaggio" di vari stati si diedero convegno in una tranquilla isola del Maine che il proprietario, Millicent Todd Bingham, voleva far conoscere alla National Audubon Society. Sebbene l'argomento della riunione vertesse sulla difesa delle bellezze naturali della complessa trama che rende interdipendente ogni forma di vita, dai microbi all'uomo, nello sfondo di tutti i discorsi, tra i vari delegati venuti in visita, campeggiava una comune indignazione per la "spoliazione" delle strade che essi avevano osservato durante il viaggio. In passato quelle strade, che correvano in mezzo a foreste sempre verdi e fiancheggiate da alloro, felci dolci, ontani e Gaylussacia, (2) erano una gioia per gli occhi. Ed ora tutto appariva grigio e desolato. Ecco come uno dei delegati descrisse il pellegrinaggio di quel giorno: "Me ne sono tornato... pieno di amarezza per le profanazioni commesse lungo le strade del Maine. Dove, negli anni trascorsi, le vie maestre si snodavano tra file di ubertosi cespugli e di fiori selvatici, si vedono oggi soltanto i relitti di una vegetazione distrutta, per miglia e miglia... Da un punto di (2) Pianta arbustacea del Nord America, appartenente alla stessa famiglia del mirtillo, erica, rododendro. ?N'd'T'* vista economico può il Maine permettersi la perdita dell'afflusso di turisti che questo cambiamento di paesaggio certamente provocherà?" Ma le strade del Maine non sono che un esempio (anche se si tratta di un esempio particolarmente amaro per chi, come noi, nutre profondo amore per le bellezze naturali di quello stato) dell'insensata distruzione compiuta in tutto il paese al solo scopo di eliminare i cespugli che crescevano ai bordi delle strade. I botanici del Connecticut Arboretum dichiarano che la scomparsa dei pittoreschi arbusti e dei fiori selvatici che crescevano spontaneamente ai bordi ha raggiunto le proporzioni di una vera e propria "crisi delle strade". Azalee, mirtilli, viburni, cornioli, cespugli di alloro, felci dolci, pruni e sorbi selvatici, oltre a piante di Kalmia latifolia, (3) Gaylussacia, Amelanchier canadensis, (4) Ilex verticillata, (5) stanno crollando uno ad uno di fronte all'imponente schieramento dei prodotti chimici; e lo stesso avviene per le margherite dei campi, le cosiddette "Susanne dagli occhi neri", i "merletti della Regina Anna", le "verghe d'oro", gli astri d'autunno che tanta grazia e bellezza conferivano al nostro paesaggio. Le irrorazioni pianificate non solo si spingono oltre ogni limite, ma degenerano in abusi di questo genere: in una città meridionale del New Eng (3) Grossa pianta cespugliosa nordamericana, simile al rododendro. ?N'd'T'* (4) Rosacea cespugliosa nordamericana. ?N'd'T'* (5) Pianta arbustacea americana affine all'agrifoglio. ?N'd'T'* land un appaltatore, terminata la sua opera, aveva ancora una certa quantità di liquido erbicida nel serbatoio e la impiegò per spruzzare i margini delle strade che attraversavano quella zona boscosa, e dei quali non era stata autorizzata la disinfestazione; in quel luogo l'autunno perdette i vivaci colori gialli e azzurri delle verghe d'oro e degli astri che crescevano ai bordi delle strade ed erano tanto belli da rappresentare un richiamo per i turisti. Sempre nel New England, un altro appaltatore non tenne conto delle disposizioni impartite per la disinfestazione del suolo pubblico e, all'insaputa dei funzionari preposti alla manutenzione delle strade, irrorò fino all'altezza di oltre due metri (senza attenersi al limite massimo di un metro, espressamente fissato) la vegetazione che fiancheggiava le strade, trasformandola così in una larga fascia di sterpaglia sterile e desolante. In un centro del Massachusetts, le autorità cittadine acquistarono una sostanza erbicida da un insistente venditore di prodotti chimici, non sapendo che essa conteneva arsenico; ne conseguì che dopo l'irrorazione compiuta lungo le vie di comunicazione della zona, una dozzina di mucche morì avvelenata. Nel 1957 molti alberi della Connecticut Arboretum National Area riportarono gravi danni in conseguenza delle disinfestazioni stradali, compiute con erbicidi chimici nei dintorni del centro urbano di Waterford: anche grosse piante non direttamente irrorate ne rimasero colpite. Nonostante fosse primavera, le foglie delle querce cominciarono ad accartocciarsi e ad ingiallire; poi i nuovi germogli spuntarono e crebbero con una rapidità anormale, conferendo agli alberi un aspetto che li faceva assomigliare ai salici piangenti. Due stagioni dopo, i grossi rami di questi alberi erano morti, altri erano senza foglie; tutti avevano un aspetto "piangente". Conosco bene una certa strada, dove il paesaggio naturale è allietato da filari di ontani, viburni, felci dolci e ginepro che, ad ogni stagione, si vestono di nuovi fiori sgargianti, in autunno, mettono in mostra ricchi grappoli di bacche. Non vi era, in essa, alcun traffico intenso e, ad ogni modo, ben poche erano le curve strette o gli incroci in cui i cespugli potessero impedire la visuale agli automobilisti. Ma con l'arrivo degli erbicidi quella strada è divenuta un nastro d'asfalto da percorrere in fretta, un panorama da sopportare cercando di non pensare al mondo sterile e brutto che permettiamo che i nostri tecnici ci preparino. Tuttavia, qua e là, le autorità avevano "mancato al loro dovere", cosicché, nonostante i piani per la completa eliminazione della vegetazione superflua, alcune inesplicabili dimenticanze permisero la sopravvivenza di qualche oasi piena di attrattive - ciò che rende ancora più intollerabile la profanazione perpetrata lungo quasi tutta la nostra rete stradale. In queste isole di verde il mio spirito può ancora rasserenarsi alla vista delle estensioni di bianco trifoglio o delle nubi purpuree di veccia in mezzo alle quali spuntano i rosseggianti calici del Trillium. (6) Queste piante sono "erbacce" soltanto per coloro che fanno affari vendendo i prodotti chimici, oppure accaparrandosi l'appalto per le disinfestazioni. Negli "Atti" d'uno dei molti congressi sul controllo delle erbe infestanti, che vengono ormai regolarmente organizzati, ho letto una volta uno stupefacente principio filosofico sugli erbicidi. Il suo assertore sosteneva la necessità di distruggere anche le piante utili «semplicemente perché esse sono in cattiva compagnia", ed aggiungeva, parlando di coloro che si (6) Pianta erbacea perenne affine ai mughetti. ?N'd'T'* rammaricavano per la scomparsa dei fiori selvatici lungo i bordi delle strade: «Mi ricordano quelli che osteggiavano la vivisezione: per essi, a giudicare dal loro comportamento, la vita d'un cane randagio è più sacra della vita di un bambino". Quell'oratore considererebbe certamente molti di noi persone sospette, ed attribuirebbe a qualche profonda perversione della nostra indole il fatto che preferiamo la vista della veccia, del trifoglio e del Trillium, nello splendore della loro delicata e fugace bellezza, agli inceneriti bordi delle strade, dove sopravvivono soltanto arbusti dai rami brulli e fragili, e la felce, che prima mostrava orgogliosamente i suoi graziosi ricami, s'affloscia al suolo isterilita. Secondo costui soltanto la nostra deplorevole debolezza può permetterci di tollerare lo spettacolo di queste «erbacce", di non rallegrarci della loro distruzione, né di provare entusiasmo al vedere che l'uomo ha, ancora una volta, prevalso sulle "aberrazioni" della natura. Il giudice Douglas racconta di aver assistito ad una riunione di autorità federali, indetta per esaminare le proteste dei cittadini contro il programma di distruzione della salvia (di cui si è già parlato in questo capitolo). Questi funzionari scoppiarono in una risata quando lessero che una vecchia signora si opponeva al progetto perchè esso avrebbe comportato la scomparsa dei fiori selvatici. "Eppure", si chiede questo giudice umano e sensibile "il suo diritto di andare a cogliere qualche giglio o altro fiore variopinto non era inalienabile quanto quello dell'allevatore che vuole erba da pascolo e del legnaiolo che intende abbattere un albero? I valori estetici del paesaggio naturale non fanno parte del nostro patrimonio quanto i filoni di rame o d'oro delle miniere ed il legname delle montagne? Esistono naturalmente altri motivi, che si aggiungono alle valutazioni estetiche, nel nostro desiderio di preservare la vegetazione che cresce ai bordi delle strade. Nell'economia della natura, alla flora naturale viene riservata un'importanza essenziale. Le siepi lungo le strade di campagna ed attorno ai campi procurano agli uccelli cibo e un ambiente adatto alla nidificazione, e danno riparo a molti piccoli animali. Della settantina di specie di arbusti e cespugli che costituiscono le tipiche siepi lungo le strade nei soli stati orientali, circa 65 sono importanti per il nutrimento della fauna selvatica. Queste piante rappresentano anche l'habitat di api selvatiche ed altri insetti, che provvedono alla impollinazione dei fiori e sono quindi importanti per l'uomo molto più di quanto egli non creda. Gli stessi agricoltori comprendono di rado il valore dell'ape selvatica e spesso partecipano alle misure repressive che ci privano dei suoi servizi. Varie coltivazioni e molte piante spontanee dipendono in tutto o in parte dall'opera degli insetti impollinanti che vivono nella zona. Molte centinaia di specie d'ape selvatica impollinano numerose colture: soltanto nei medicai, sono circa cento i tipi di questo imenottero che fanno sosta sui fiori. Senza l'impollinazione da parte degli insetti la maggior parte delle piante che crescono sul suolo delle zone incolte e, a loro volta, lo arricchiscono, morirebbe in breve tempo, e si creerebbero nell'intera regione le premesse ecologiche per un danno futuro incalcolabile. Un gran numero di erbe, arbusti delle foreste e delle radure dipendono dagli insetti del luogo per la loro riproduzione: e, senza queste piante, molti animali selvatici e dei pascoli aperti avrebbero a loro disposizione un ben scarso nutrimento. Ma ormai le irrorazioni erbicide delle colture e la distruzione delle siepi e degli arbusti selvatici stanno eliminando l'ultimo ricettacolo degli insetti impollinanti e recidendo i fili che legano una vita all'altra. Questi insetti necessari alla nostra agricoltura, ed ancor più al paesaggio quale noi lo conosciamo, meritano da noi qualcosa di meglio della insensata distruzione del loro habitat. Le api mellifiche e quelle selvatiche dipendono in tutto e per tutto da "erbacce" come le verghe d'oro, la senape e i denti di leone: dove si procurerebbero, altrimenti, il polline che serve di nutrimento ai loro piccoli? In primavera, prima che l'erba medica sia in fiore, la veccia fornisce un cibo di fondamentale importanza per gli sciami, e permette ad essi di sopravvivere finché, nel tardo aprile, saranno pronti per impollinare i medicai. D'autunno, in un periodo in cui null'altro è disponibile per far la scorta per l'inverno, restano a loro disposizione soltanto le verghe d'oro. E, quasi per sottolineare la precisa e delicata tempestività che è propria della natura, una certa specie di api selvatiche compare il giorno stesso in cui si schiudono i germogli dei salici. Non mancano uomini che comprendono queste cose, ma essi non sono quelli che ordinano di sommergere l'intero paesaggio nei prodotti chimici. E dove sono coloro che capiscono l'importanza di un habitat appropriato per la conservazione della natura? Troppi di essi arrivano perfino a sostenere la "innocuità" degli erbicidi, solo perché ritengono che siano meno tossici degli insetticidi. Perciò - dicono - non esiste alcun danno. Ed invece, quando l'erbicida viene riversato sulle foreste e sui campi, sulle paludi e sui pascoli, porta con sé alterazioni evidenti e perfino la distruzione permanente della vita naturale. E, a lungo andare, distruggere le tane e le fonti di nutrimento degli animali selvatici è forse peggio che infligger loro la morte sul colpo. L'ironia di questa massiccia aggressione chimica contro la vegetazione che fiancheggia la rete stradale e i terreni adibiti a servizi pubblici è duplice: anzitutto essa non risolve il problema cui cerca di porre rimedio poiché, come l'esperienza ha chiaramente dimostrato, l'irrorazione a tappeto degli erbicidi non estirpa definitivamente i cespugli ai bordi delle strade, e le disinfestazioni devono essere ripetute un anno dopo l'altro; in secondo luogo, non appare meno amara l'ironia del fatto che si persista su questa strada, sebbene esista un metodo notissimo di irrorazione selettiva, il quale permette un controllo a lungo termine della vegetazione, ed elimina quindi, nella maggior parte dei casi, la necessità di ulteriori trattamenti. Lo scopo dell'eliminazione dei cespugli lungo le arterie stradali ed i terreni su cui passano ferrovie o sorgono linee elettriche non è quello di sbarazzare il terreno da qualsiasi vegetazione che non sia erba da pascolo, ma piuttosto di togliere di mezzo le piante d'una certa taglia che potrebbero ostruire la visuale degli automobilisti o impigliarsi nei fili delle linee elettriche: si tratta, generalmente, di piante abbastanza alte; ma molti cespugli, invece, sono sufficientemente bassi per non costituire alcun pericolo e tra essi, certamente si devono comprendere le felci ed i fiori selvatici. Il metodo della disinfestazione selettiva è stato perfezionato presso l'American Museum of Natural History, nel corso di vari anni, dal dott. Egler, direttore del Committee for Brush Control Recommendations for Rights of Way. Egli si ispirò alla stabilità della natura, basandosi sul fatto che la maggior parte dei cespugli si oppone con forte resistenza all'intrusione delle piante di taglia maggiore mentre, in confronto, le pianticelle giovani si impiantano con grande facilità sui terreni erbosi. L'obiettivo della disinfestazione selettiva non è distruggere l'erba sui bordi delle strade e sui terreni attraverso i quali passano ferrovie o sorgono linee elettriche, ma eliminare le piante d'alto fusto, sottoponendole ad un trattamento specifico, senza colpire l'altra vegetazione. Può bastare allo scopo una sola irrorazione, o due al massimo, quando si tratta di specie molto resistenti; dopo di che i cespugli prendono il sopravvento e gli alberi non crescono più. Ciò dimostra che il controllo della vegetazione meno costoso e di maggior efficienza non si ottiene con le sostanze chimiche, ma con altre piante. Il metodo è stato collaudato in aree sperimentali sparse nelle regioni orientali degli Stati Uniti; i risultati hanno comprovato che, con un trattamento adeguato, si consegue un assetto stabile e non occorrono altre disinfestazioni per almeno 20 anni. L'irrorazione può venire effettuata da uomini a piedi provvisti di uno spruzzatore a zaino, con un controllo completo, quindi, dell'operazione. Talvolta il serbatoio dell'erbicida e lo spruzzatore possono essere sistemati su uno speciale veicolo, ma non viene compiuta alcuna irrorazione a tappeto. Il liquido viene asperso soltanto sugli alberi e, eventualmente, sugli arbusti eccezionalmente alti che devono scomparire. In tal modo l'integrità dell'ambiente circostante non ne soffre, l'enorme patrimonio rappresentano dall'habiut degli animali e delle piante selvatiche rimane intatto ed il paesaggio conserva l'attrattiva dei suoi cespugli delle felci e dei fiori selvatici. In qualche località il sistema di disciplinare la vegetazione per mezzo di irrorazioni selettive ha già trovato pratico impiego, ma le vecchie abitudini sono dure a morire, e quasi dappertutto si continua a praticare il metodo della distruzione "a tappeto", nonostante il pesante onere che esso impone ai contribuenti ed i danni che arreca all'orditura ecologica della vita stessa. Quasi certamente ciò accade perché si ignorano i fatti: quando il comune contribuente comprenderà che la bolletta della tassa per la disinfestazione del suolo pubblico potrebbe venirgli recapitata ogni vent'anni e non già tutti gli anni, si ribellerà ed esigerà l'abbandono dell'attuale sistema. Tra i molti vantaggi che l'irrorazione selettiva presenta, si deve poi annoverare il minimo consumo di sostanza chimica, perché non occorre disseminare tutt'intorno il disinfestante, ma basta applicarlo soltanto alla base di ciascun albero. Il pericolo potenziale per gli altri organismi diventa, quindi, irrisorio. Gli erbicidi di più largo impiego sono il 2,4-D, il 2,4,5-T ed i composti affini. La loro tossicità appare alquanto controversa: certe persone che, nel cospargere il 2,4-D sui prati ne hanno ricevuto qualche schizzo, sono state colpite da nevriti e perfino da paralisi. Sebbene si tratti di casi rari, le autorità sanitarie consigliano di maneggiare queste sostanze chimiche con grande cautela. L'uso del 2,4-D comporta anche altri rischi, di origine più oscura: è stato dimostrato sperimentalmente che tale tossico altera il fondamentale processo fisiologico della respirazione cellulare e, al pari dei raggi X, danneggia i cromosomi. Qualche recentissima ricerca ha accertato che la riproduzione degli uccelli può essere insidiata da questi e da altri erbicidi a livelli di concentrazione molto al disotto di quello necessario per provocare la morte. Oltre agli effetti direttamente tossici, l'uso di alcuni erbicidi comporta singolari conseguenze indirette. E' stato appurato che gli animali (tanto gli erbivori selvatici che il bestiame d'allevamento) sono spesso stranamente attratti da una pianta irrorata anche se non fa parte del loro nutrimento abituale. Nel caso che il disinfestante spruzzato abbia un'elevata tossicità, come per esempio l'arsenico, questo intenso desiderio di brucare la vegetazione ormai appassita conduce inevitabilmente a risultati disastrosi. Effetti letali possono aversi anche con erbicidi meno tossici se la pianta che ha subìto l'aspersione d'una sostanza poco dannosa è velenosa di per se stessa o provvista di spine o di pappi. Certe radure coperte di erba velenosa, per esempio, subito dopo la disinfestazione sono divenute un richiamo per le mandrie, e molte bestie sono morte per colpa di questo loro innaturale appetito. La letteratura veterinaria abbonda di episodi analoghi: maiali che hanno contratto gravi malattie per aver mangiato l'Agrostemma; (7) agnelli intossicati da cardi irrorati di recente; api avvelenate per essersi posato su piante di senape asperse già in fiore. Il ciliegio selvatico, le cui foglie sono velenosissime, ha esercitato una fatale attrazione sul bestiame dopo che le sue frasche erano (7) Pianta erbacea che infesta le messi. ?N'd'T'* state spruzzate con il 2,4-D. Sembra che l'appassimento causato dall'erbicida (od anche dall'abbattimento) renda le piante più appetitose. La Senecio jacobaea (8) offre altri esempi: le mandrie, di solito, disdegnano questa fanerogama, a meno che non siano costrette a nutrirsene nel tardo inverno e all'inizio della primavera, quando scarseggiano gli altri foraggi; però, appena il fogliame viene cosparso di 2,4-D, esse ne diventano ghiotte. Una spiegazione di tale strano comportamento si può fare talvolta risalire al mutamento che l'erbicida imprime al metabolismo della pianta stessa; infatti, viene a determinarsi un aumento temporaneo di zucchero che (8) Pianta erbacea della famiglia delle Composite che cresce nei pascoli ed ha proprietà medicinali. ?N'd'T'* fa della pianta un cibo appetito da molti animali. Un altro curioso effetto del 2,4-D è assai importante per il bestiame d'allevamento, per le piante e gli animali selvatici, e pare anche per l'uomo. Certi esperimenti effettuati una decina di anni fa hanno mostrato che, dopo un trattamento con questo erbicida, si verificava un notevole incremento dei nitrati contenuti nel granoturco e nella barbabietola da zucchero; ed altrettanto avveniva con ogni probabilità nel sorgo, nel girasole, nella Tradescantia, (9) nell'amaranto, nel Chenopodium album, (10) nel panàce e nel pepe (9) Pianta ornamentale cespugliosa a piccoli fiori azzurri, bianchi e rossi, originaria della Virginia ed importata in Europa da Giovanni Tradescant, giardiniere del re Carlo I d'Inghilterra. ?N'd'T'* (10) Pianta erbacea spontanea in America. Le foglie vengono utilizzate delle popolazioni indiane del Nuovo Messico per preparare minestre; i semi vengono macinati e utilizzati nella preparazione di focacce. ?N'd'T'* d'acqua. Tali piante, per lo più, vengono trascurate dalle mandrie, ma diventano un nutrimento prelibato appena sono state irrorate con 2,4-D. Secondo il parere di qualche specialista agricolo, la perdita di numerosi capi di bestiame avrebbe questa origine. Il pericolo consiste nell'aumento dei nitrati, poiché la peculiare fisiologia dei ruminanti pone a sua volta un grave problema. La maggior parte di essi, infatti, possiede un apparato digerente quanto mai complesso e comprendente uno stomaco suddiviso in quattro scompartimenti. La digestione della cellulosa si compie, grazie all'azione di microrganismi (i batteri del rumine), in uno di questi reparti. Se gli animali si sono nutriti di erba contenente una dose eccezionalmente alta di nitrati, i microrganismi del rumine trasformano questi nitrati in nitriti di elevata tossicità. Si snoda così una catena di reazioni funeste: i nitriti agiscono sul pigmento del sangue e formano una sostanza bruno-scura che trattiene l'ossigeno così saldamente da non permettergli di prendere parte ai fenomeni della respirazione e, quindi, di venir trasmesso dai polmoni ai tessuti. Nel giro di poche ore, pertanto, sopraggiunge la morte per anossia, cioè per mancanza di ossigeno. Le varie notizie, che parlano della perdita di capi di bestiame condotti a pascolare dove era stato cosparso il 2,4-D, trovano quindi una loro logica spiegazione. E lo stesso pericolo esiste per gli animali selvatici che appartengono al gruppo dei ruminanti: cervi, antilopi, pecore e capre. Sebbene anche altri fattori (come, per esempio, una stagione di eccezionale siccità) possano determinare un aumento del contenuto di nitrati, l'enorme smercio ed impiego del 2,4-D non deve passare sotto silenzio. L'attuale situazione è stata considerata tanto preoccupante da indurre la Agricultural Experiment Station dell'Università del Wisconsin a lanciare, nel 1957, il monito che "le piante uccise con il 2,4-D possono contenere un abbondante quantitativo di nitrato". Il rischio non riguarda soltanto gli animali, ma anche gli uomini; e forse il numero misteriosamente crescente delle "morti da silos" trova qui la sua spiegazione. Quando il grano, o l'avena, o il sorgo - ricchi di nitrati - vengono immagazzinati nei silos, essi liberano vari ossidi d'azoto allo stato gassoso, creando così una micidiale atmosfera per chi li respira. Bastano poche inspirazioni di uno di questi gas per provocare una diffusa polmonite: tutti i casi del genere esaminati dalla Medical School dell'Università del Minnesota, tranne uno, hanno avuto un esito fatale. "Ancora una volta noi ci comportiamo con la natura come un elefante in un museo di porcellane cinesi": con queste parole Briejèr, un eminente scienziato olandese, commenta l'attuale impiego degli erbicidi. "Secondo il mio parere", egli afferma, "troppe cose sono date per scontate. In realtà non sappiamo ancora se tutte le erbe che si diffondono in mezzo ai raccolti siano dannose o se qualcuna di esse sia utile". Raramente ci poniamo il seguente quesito: quale relazione intercorre tra le cosiddette "erbacce" ed il suolo? Forse, anche dal ristretto punto di vista del nostro diretto interesse, questo rapporto risponde ad una certa utilità. Come abbiamo già notato, tra il terreno e gli esseri viventi dentro e sopra di esso esistono un'interdipendenza ed un mutuo vantaggio. Probabilmente le erbe sottraggono qualcosa al suolo e, con altrettanta probabilità, qualcosa gli restituiscono. Un esempio pratico è stato fornito recentemente dai parchi di una città olandese, dove le rose stavano crescendo stentatamente. Vennero prelevati campioni di terra che indicarono una elevata infestazione di piccoli nematodi. Gli esperti del Servizio per la Protezione delle Piante non consigliarono però le irrorazioni chimiche o qualsiasi altro genere di trattamento del terreno, ma suggerirono di piantare, tra le rose, le calendule, che un botanico ortodosso avrebbe senza dubbio considerate ospiti indesiderabili in un roseto: in realtà, esse emettono attraverso le loro radici una secrezione mortale per i nematodi del terreno. Il consiglio venne seguito: in molti roseti le calendule vennero piantate, mentre i rimanenti giardini furono lasciati nelle condizioni di prima perché servissero di paragone. Si ebbero risultati sorprendenti: con l'aiuto delle calendule le rose fiorivano rigogliose, negli altri terreni esse continuavano a deperire e ad afflosciarsi. Oggi, le calendule vengono impiegate in numerose zone per combattere i nematodi. Alla stessa stregua, ed attraverso processi forse a noi del tutto ignoti, altre piante che continuiamo a sradicare spietatamente adempiono probabilmente ad una funzione necessaria per la salute del suolo. Del resto la vegetazione che noi per solito chiamiamo con disprezzo "erbaccia» assolve già ad un utile compito perché ci fornisce preziosi indizi sulle condizioni del terreno: indizi che, naturalmente, ci vengono a mancare là dove sono stati irrorati erbicidi chimici. Coloro che trovano nella disinfestazione chimica una risposta a tutti i loro problemi sottovalutano anche una questione di grande importanza scientifica: la necessità di conservare certe comunità naturali di piante. Abbiamo bisogno di esse come termine di raffronto per misurare i mutamenti determinati dall'opera dell'uomo; ci occorrono, inoltre, come habitat naturale in cui poter mantenere le popolazioni originarie di insetti e di altri organismi, giacché - come spiegheremo nel capitolo sedicesimo - lo sviluppo della resistenza agli insetticidi sta trasformando i fattori genetici di questi animali (e forse non soltanto di essi). Uno scienziato ha perfino suggerito di cercare, per così dire, specie di "giardini zoologici" per conservare insetti, acari ed altri animaletti, prima che il loro corredo genetico subisca ulteriori alterazioni. Alcuni specialisti considerano la infinitesima ma inarrestabile metamorfosi che il mondo vegetale sta subendo, come un risultato del crescente impiego di erbicidi. Il tossico 2,4-D, uccidendo la vegetazione a foglie espanse, permette alle erbe da foraggio di prosperare di fronte a questa diminuita concorrenza e di prosperare a tal segno da diventare a loro volta infestanti, creando così un nuovo problema di controllo e dando alla situazione un nuovo aspetto. Questo strano fenomeno è stato sottolineato di recente da un giornale che si occupava dei problemi delle coltivazioni: "Con l'abuso del 2,4-D per reprimere la piantaggine, le erbe da foraggio sono cresciute fino al punto da minacciare le colture di granoturco e di soia". L'Ambrosia artemisiaefolia, (11) che provoca la febbre da fieno, offre un esempio interessante di come i nostri sforzi per controllare la natura spesso si ritorcano contro di noi. Centinaia di ettolitri di erbicida sono stati, infatti, cosparsi lungo i bordi delle strade con il proposito di distruggere tale erba infestante. Ma la triste verità è che quella irrorazione a tappeto ha prodotto un effetto del tutto opposto: la pianta che si voleva distruggere si è, invece, rinvigorita. Essa ha, (11) Pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Composite e facente parte della flora spontanea del Nord America. E' specie assai invadente e ad essa si annette, tra l'altro, una grande importanza nel provocare la febbre da fieno. ?N'd'T'* infatti, un ciclo annuale e richiede un terreno sgombro per attecchire. Il miglior modo di proteggerci contro la sua diffusione è quindi di conservare una vegetazione fitta di arbusti, felci e di altre piante perenni. Gli erbicidi, invece, solitamente la distruggono e creano vaste zone sgombre che ben presto si coprono di Ambrosia. Inoltre è probabile che il polline contenuto nell'atmosfera non sia tanto quello dell'Ambrosia che cresce ai margini delle strade, ma quello dei maggesi e delle aree verdi cittadine. L'improvviso aumento della vendita di sostanze chimiche per distruggere il Panicum (12) è un altro esempio di come sistemi sbagliati possano incontrare il favore delle masse. Per estirparlo esiste un mezzo molto più efficiente e a buon mercato di quello di ucciderla anno per anno con sostanze chimiche: si tratta di metterla in competizione con un'altra erba di fronte alla quale non riesce a sopravvivere. Il Panicum cresce solo in un prato malsano; questo è però solo un sintomo, non la malattia in sé. Se in un terreno fertile offriamo una buona base di partenza alle colture che vogliamo ottenere, possiamo creare un ambiente in cui il Panicum non attecchirà poiché esso, per poter far germogliare ogni anno i (12) Pianta erbacea infestante, appartenente alla famiglia delle Graminacee. Ha piccole inflorescenze a spighe. ?N'd'T'* propri semi, ha bisogno che l'erba attorno non sia folta. Invece di promuovere questa condizione fondamentale, i coltivatori - incoraggiati dai fornitori di sementi i quali, a loro volta, vengono consigliati dai venditori di erbicidi - continuano a cospargere annualmente nei loro campi uno spaventoso quantitativo di disinfestanti. Venduti con nomi commerciali che non lasciano trapelare alcun indizio della loro vera natura, molti di questi preparati contengono in realtà veleni quali l'arsenico, il mercurio ed il clordano. Anche applicandoli nelle dosi consigliate dalle istruzioni, essi permangono nel suolo in quantità spaventosamente elevate. Così chi usa, per esempio, il clordano ne somministra 60 chilogrammi per ettaro; chi usa un altro dei prodotti che si trovano in commercio applica addiritura 175 chilogrammi di arsenico metallico per ettaro. Gli uccelli pagano tutto ciò con la vita, in una percentuale spaventosa, come vedremo nel capitolo ottavo; e non sappiamo quanto questi prati irrorati siano dannosi per gli esseri umani. Il successo ottenuto dalle disinfestazioni selettive della vegetazione che si trova lungo le strade e i terreni in cui passano ferrovie, linee elettriche ecc., là dove esse sono state effettuate induce a sperare che metodi altrettanto saggi dal punto di vista ecologico possano venir sviluppati per i piani di controllo della vegetazione nei poderi, nelle foreste e nelle praterie: metodi basati sul presupposto, non di distruggere una specie particolare, ma di trattare il complesso delle piante come una comunità vivente. Altri concreti risultati ci insegnano come tale obiettivo può essere raggiunto. Il controllo biologico ha già conseguito alcuni dei suoi più appariscenti successi proprio nel settore della disinfestazione di piante indesiderabili. La natura stessa si è imbattuta spesso in problemi analoghi a quelli che ci assillano oggi, e li ha risolti generalmente nel migliore dei modi; ed anche noi, tutte le volte che siamo stati abbastanza sagaci da osservarla ed imitarne l'esempio, abbiamo ottenuto risultati favorevoli. Un esempio probante a tale proposito ci viene offerto dal trattamento applicato in California per risolvere il problema della vegetazione infestante nella zona del Klamath. L'Iperico, originario dell'Europa (dove è chiamato erba di S. Giovanni) apparve per la prima volta sul suolo statunitense nel 1703 presso Lancaster, in Pennsylvania, seguendo le orme dei pionieri nella loro migrazione verso il West. Nel 1900 aveva raggiunto la California, prosperando particolarmente nelle vicinanze del fiume Klamath, da cui il nome locale di "erba di Klamath» dato ad esso. Nel 1929 si era già impadronito di 45 mila ettari di radura e, nel 1932, rivestiva circa un milione di ettari. L'Iperico, a differenza di altre piante locali come la salvia, non trova posto nell'ecologia di quella zona, e la sua presenza non è necessaria per gli animali e le altre piante locali; al contrario, in qualsiasi luogo esso apparve, il bestiame che se ne nutrì s'intossicò "riempiendosi di croste, di piaghe nella bocca" o "crebbe stentatamente». Quelle terre subirono, pertanto, un deprezzamento, giacché si ravvisava, nella vegetazione che vi cresceva, un'insidia mortale per le mandrie. In Europa, l'"erba di San Giovanni" non ha mai rappresentato un serio pericolo perché, parallelamente ad essa, si sono sviluppate varie specie di insetti che se ne nutrono così copiosamente da impedirne l'eccessiva diffusione. In particolare due specie di coleotteri della Francia meridionale, grandi quanto un pisello e di colore metallico, hanno talmente subordinato la loro vita alla presenza di quest'erba che dimorano e si riproducono soltanto su di essa. Dobbiamo considerare evento d'importanza storica il giorno in cui il primo contingente di tali insetti venne sbarcato negli Stati Uniti, nel 1944, perché fu il primo tentativo, compiuto nel Nord America, di controllare lo sviluppo di una certa pianta con la presenza di un insetto che la divorasse. Nel 1948, le due specie si erano già ambientate tanto bene che non occorsero più ulteriori importazioni. La loro diffusione avvenne mediante prelievo dalle colonie originali e trasferimento nei luoghi infestati in quantità di diversi milioni all'anno. Collocati in piccoli appezzamenti di terreno, questi coleotteri provvedono da soli ad allargare il loro raggio d'azione, abbandonando luoghi dove hanno fatto completa razzia di Iperico per invadere meticolosamente nuove aree. E, di pari passo con la scomparsa della vegetazione parassita, tornano a crescere dappertutto le piante che una volta essa era riuscita a scacciare. Un'indagine decennale, terminata nel 1959, mostrò che la disinfestazione dall'Iperico era stata "di un'efficacia superiore alle più ottimistiche previsioni", poiché l'erba si era ridotta solo all'1% rispetto all'inizio. Oggi questo residuo non costituisce alcun pericolo, ed è anzi necessario per mantenere in vita una popolazione di coleotteri quale misura protettiva contro un eventuale futuro aumento dell'erbaccia. Un altro esempio di controllo efficace ed economico della vegetazione ci proviene dall'Australia. Verso il 1787, il capitano Arthur Phillip, mosso dal caratteristico impulso dei colonizzatori di trasferire piante od animali nei nuovi paesi, sbarcò in Australia portando con sé alcune specie di cactus che intendeva impiegare per l'allevamento di cocciniglie da cui trarre la sostanza colorante. Dalle sue piantagioni alcuni cactus, o fichi d'India, si diffusero altrove e, nel 1925, una ventina di specie selvatiche crescevano già qua e là. Non trovando nel nuovo territorio alcuna competizione naturale, esse si moltiplicarono prodigiosamente, e finirono con l'invadere una superficie di circa 25 milioni di ettari. Perlomeno la metà di quel paese ne rimase così fittamente ricoperta da divenire inutilizzabile. Nel 1920 alcuni entomologi australiani furono inviati nel Nord e nel Sud America per studiare, nel loro habitat naturale, gli insetti nemici del fico d'India. Dopo molti e laboriosi esperimenti su varie specie, nel 1930 vennero prelevati e trasportati in Australia tre miliardi di uova di un lepidottero argentino. Sette anni più tardi non restava più ombra dei folti ammassi di cactus selvatici, ed un vastissimo territorio, che essi avevano prima reso inospitale, era ridiventato utilizzabile per l'agricoltura ed i pascoli. L'intera operazione era costata meno di quindici lire per ettaro mentre l'insoddisfacente risultato ottenuto negli anni precedenti con il controllo chimico era costato circa dalle 40 alle 50 mila lire per ettaro. Questi due significativi episodi ci suggeriscono che, per controllare in maniera veramente efficace ed economica molti tipi di vegetazione infestante, bisognerebbe dedicare una maggiore attenzione al ruolo affidato dalla natura agli insetti divoratori di piante. La scienza che si interessa dello sfruttamento agricolo di zone incolte ha largamente ignorato tale opportunità, sebbene questi insetti siano, tra tutti gli erbivori, gli animali più selettivi, e la loro dieta altamente circoscritta possa divenire un prezioso strumento nelle mani dell'uomo. Capitolo settimo - Un'inutile strage L'uomo, a mano mano che procede verso i suoi conclamati obiettivi di conquista della natura, lascia dietro di sé una spaventosa scia di distruzioni dirette non soltanto verso la terra, ma anche verso gli esseri viventi che vi abitano assieme a lui. La storia di questi ultimi secoli ha le sue pagine nere: il massacro dei bisonti nelle pianure occidentali degli Stati Uniti; lo sterminio degli uccelli costieri, a tutto vantaggio dei fabbricanti di armi da caccia; la quasi completa eliminazione delle garzette da parte di chi voleva utilizzare le loro pregiate piume (aigrettes). Ed ora, a tale ecatombe e ad altre ancora, dobbiamo aggiungere un ulteriore capitolo, una nuova specie di strage - la distruzione diretta di uccelli, mammiferi, pesci e di ogni altra forma di vita selvatica, per mezzo degli insetticidi chimici cosparsi indiscriminatamente sul suolo. Secondo la mentalità che oggi prevale e guida il nostro destino, nulla deve frapporsi alla disinfestazione compiuta dall'uomo. Le vittime innocenti delle sue crociate contro gli insetti non contano niente: se i pettirossi, i fagiani, i procioni, i gatti ed anche il bestiame d'allevamento hanno la sventura di capitare nello stesso territorio che ospita gli insetti da colpire e cadono sotto i colpi mortali del tossico disinfestante, nessuno deve protestare. Il cittadino che desidera esprimere un parere imparziale sulla distruzione degli animali selvatici è posto di fronte ad un dilemma: da un lato, coloro che vogliono proteggere la natura e molti biologi che studiano gli animali e le piante selvatiche affermano che i danni prodotti dalle disinfestazioni sono già gravi e, in qualche caso, catastrofici; dall'altro, le commissioni di controllo hanno la tendenza a negare, ed in maniera perentoria, che si siano mai verificate perdite di questo genere oppure, dinanzi a prove irrefutabili, a sostenere che si tratta di fatti trascurabili. Quale dei due punti di vista dobbiamo accettare? La credibilità di un testimone è un fattore di primaria importanza. La presenza sulla scena di biologi particolarmente esperti della vita degli animali selvatici fa di essi i giudici meglio qualificati per scoprire e valutare le perdite subìte. L'entomologo, il cui settore specifico di studio è quello degli insetti, per la sua specializzazione non è altrettanto idoneo né psicologicamente disposto a prendere in considerazione gli effetti secondari prodotti dai suoi piani di disinfestazione; né possono esprimere giudizi obiettivi gli uomini addetti al controllo, sia nei singoli stati che nell'intera confederazione nonché, naturalmente, i fabbricanti di sostanze chimiche - i quali confutano con grande vigore i fatti riferiti dai biologi e dichiarano di vedere ben poche tracce di pericolo per la vita degli animali e delle piante selvatiche. Come il sacerdote ed il levita del Vangelo, essi preferiscono passar oltre senza nulla vedere. Anche se, animati da una buona dose di carità, possiamo spiegare i loro dinieghi con la ristrettezza mentale dello specialista e della persona interessata, ciò non significa che dobbiamo accettare per buone le loro testimonianze. Il miglior modo per poter formulare la nostra opinione personale è quello di considerare qualcuno dei più importanti piani di controllo e sentire da chi conosce le abitudini di vita degli animali selvatici (e sia obiettivo sull'uso delle sostanze chimiche) cosa accade veramente quando la pioggia di tossico si abbatte sulla natura. Per l'ornitologo, per chi si rallegra nell'ascoltare il cinguettìo degli uccelli nel proprio giardino, per il cacciatore, il pescatore o per chi si avventura nelle zone inesplorate, tutto ciò che distrugge la vita naturale di una determinata area, anche soltanto per un anno, rappresenta l'alienazione d'un suo legittimo diritto. E già questo è un punto di vista da tener presente. Anche se, come spesso accade, qualche uccello, o pesce o mammifero riesce a sopravvivere, ogni singola disinfestazione comporta un danno veramente grave. Purtroppo, inoltre, è difficile che tale situazione si avveri. Le irrorazioni vengono solitamente ripetute, e capita molto di rado che gli animali selvatici siano sottoposti ad una sola dose di veleno e possano quindi rimettersi in sesto. Generalmente si arriva ad un totale avvelenamento dell'ambiente, che costituisce una trappola mortale in cui non soccombe soltanto la popolazione stanziale, ma anche la fauna migratoria. Quanto maggiore è la superficie irrorata, tanto più grave è il pericolo, perché non resta alcuna "oasi di sicurezza". Orbene, in un decennio di intense campagne per il controllo degli insetti, durante le quali molte migliaia e forse milioni di ettari di terreno hanno subìto irrorazioni a tappeto - decennio in cui le disinfestazioni effettuate da enti pubblici e da privati si sono moltiplicate con ritmo crescente - gli animali selvatici d'America hanno visto calare su di sé, sempre più terribile, l'ala della distruzione e della morte. Consideriamo qualcuna di queste campagne antiparassitarie e vediamo che cosa è avvenuto. Durante l'autunno del 1959, nel Michigan sud-orientale, 11.000 ettari di terreno, comprendenti anche buona parte della periferia di Detroit, sono stati disinfestati spargendo con aerei aldrina allo stato glomerulare. Il programma era diretto dal Dipartimento dell'Agricoltura del Michigan in collaborazione con il Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti, con l'obiettivo di distruggere la Popillia japonica, (1) un Coleottero Scarabeide. Non si capiva il perché d'una azione così drastica e tanto pericolosa. Al contrario, Walter P. Nickell, uno dei più noti ed esperti naturalisti di quello stato, il quale, ogni estate, passava buona parte del suo tempo nelle campagne del Michigan meridionale, si esprimeva in questi termini: "Per più di trent'anni, secondo quanto ho potuto constatare direttamente, nella città di Detroit (1) Insetto originario dell'Estremo Oriente ed appartenente all'ordine dei Coleotteri. Allo stato adulto si nutre a spese di foglie, allo stato di larva a spese di radici di un grandissimo numero di piante arboree ed erbacce. ?N'd'T'* si è notata la presenza di uno scarso numero di Popillia, numero che non è apprezzabilmente aumentato in tale periodo. Devo ancora vedere un solo esemplare di tale scarabeide ?nel 1959*, oltre ai pochi catturati nelle trappole tese dal governo a Detroit... Ogni cosa viene tenuta oggi tanto segreta, che non riesco ad ottenere una qualsiasi informazione in merito al loro presunto incremento". In un comunicato ufficiale si dichiarava frattanto in maniera vaga che l'insetto "aveva fatto la sua comparsa" nell'area designata per effettuare la disinfestazione aerea. Nonostante l'assenza di qualunque giustificazione, il programma venne realizzato: lo stato mise a disposizione il personale e si incaricò di dirigere le operazioni, le autorità federali fornirono il materiale tecnico necessario e mano d'opera suppletiva, ed i contribuenti della zona pagarono le spese per l'insetticida impiegato. La Popillia japonica, un insetto importato accidentalmente negli Stati Uniti, venne scoperto nel New Jersey, presso Riverton, dove nel 1916 - in mezzo ad un vivaio - furono trovate poche blatte rilucenti, di un colore verde metallico. Si appurò che gli insetti, dapprima sconosciuti, originari delle isole principali dell'Arcipelago giapponese, erano probabilmente penetrati negli Stati Uniti insieme con una fornitura di piante da vivaio, importate prima delle restrizioni entrate in vigore con il 1912. Dal suo iniziale punto d'approdo, la Popillia japonica ha invaso, abbastanza diffusamente, molti stati ad est del Mississippi, dove le condizioni di temperatura e di piovosità le sono favorevoli e, di anno in anno, ha allargato un poco i confini dei territori in cui ha preso dimora. Nelle regioni orientali, dove l'insetto si trova da più tempo, si è cercato di realizzare qualche programma di controllo naturale e, dove ciò è stato compiuto, secondo quanto si rileva da numerose relazioni, il numero di insetti è rimasto ad un livello relativamente basso. E invece, nonostante questo risultato positivo, gli stati del Middle West che si trovano oggi al limite della zona infestata, si sono lanciati in attacchi massicci come se dovessero sgominare non un insetto scarsamente dannoso, ma il più mortale dei nemici, impiegando i tossici più micidiali in misura tale da esporre agli effetti del veleno destinato a quei coleotteri una quantità enorme di persone e gli animali domestici e selvatici. Come risultato, questa campagna disinfestante contro la Popillia japonica ha provocato una spaventosa distruzione di animali e ha esposto gli esseri umani ad un rischio innegabile. Molte zone del Michigan, del Kentucky, dello Iowa, dell'Indiana, dell'Illinois e del Missouri stanno subendo, in nome della lotta contro gli scarabeidi infestanti, una pioggia di prodotti chimici. L'irrorazione compiuta nel Michigan va considerata come il primo attacco su larga scala sferrato dal cielo contro la Popillia japonica. La scelta dell'aldrina, uno dei prodotti chimici dotati di maggiore tossicità, non fu determinata da alcuna specificità per tale insetto, ma semplicemente da avidità di guadagno: si trattava, infatti, del meno costoso di tutti i composti che si trovavano sul mercato. Le autorità statali, pur ammettendo nei loro comunicati ufficiali trasmessi alla stampa che l'aldrina era "un veleno", lasciarono intendere che gli abitanti delle popolosissime aree dove il tossico era stato irrorato non dovevano temere alcun pericolo. (La risposta ufficiale a chi chiedeva: "Quali precauzioni ci consigliate?", fu questa: "Nessuna, per la popolazione".) Un ufficiale della Federal Aviation Agency dichiarò, in seguito, durante una intervista ai giornali del luogo, che "l'operazione non comportava alcun rischio", ed un rappresentante del Detroit Department of Parks and Recreation aggiunse dal canto suo che "la polvere era innocua per le persone e non minacciava né le piante, né gli animali domestici". Si dovrebbe concludere da ciò che nessuna di queste autorevoli persone aveva consultato i ben noti rapporti pubblicati dallo United States Public Health Service e dal Fish and Wild -life Service, né si era mai accorta, da altre prove evidenti, della natura eccezionalmente tossica dell'aldrina. Valendosi delle norme legislative sul controllo antiparassitario vigenti nel Michigan, che consentono allo stato di disinfestare a suo piacimento senza chiedere alcun parere ai proprietari del terreno, gli aeroplani cominciarono il loro carosello a volo radente sulle zone periferiche del centro urbano di Detroit. Le autorità locali e la Federal Aviation Agency vennero subito assalite da numerose chiamate telefoniche da parte di cittadini preoccupati. La polizia, dopo aver ricevuto circa 800 telefonate nel giro di un'ora, si rivolse alla radio, alla televisione e alla stampa perché, come ebbe a scrivere il News di Detroit, "dicessero alla popolazione quello che stava avvenendo e la tranquilizzassero perché non esisteva alcun pericolo". Il dirigente del reparto di sicurezza della Federal Aviation Agency assicurò a sua volta il pubblico che gli "aerei erano stati accuratamente revisionati" ed "autorizzati a volare a bassa quota"; egli aggiunse imprudentemente, nell'infelice intento di fugare le apprensioni, che le valvole di sicurezza applicate agli aeroplani avrebbero permesso l'espulsione immediata dell'intero carico di aldrina. Per fortuna non vi fu bisogno di mettere in atto tale misura; tuttavia le particelle dell'insetticida irrorato dal cielo caddero imparzialmente sui coleotteri e sulla gente come una pioggia di "innocuo" veleno, esponendo ai loro effetti chi stava andando a far acquisti o al lavoro o i fanciulli appena usciti da scuola che rincasavano per la colazione. Le massaie spazzarono via dalle verande e dai marciapiedi quei pericolosi granelli tanto fitti da sembrare, come esse dissero, "una coltre di neve". Più tardi la Michigan Audubon Society puntualizzò l'episodio con queste parole: "Negli interstizi delle tegole, nella concavità delle grondaie, nelle screpolature delle cortecce e sui rami degli alberi, bianche particelle di aldrina mescolate ad argilla, non più grosse d'una capocchia di spillo, si erano ammassate a milioni... Quando venne la stagione delle piogge e della neve, l'acqua di ogni pozzanghera si trasformò in una possibile fonte di veleno». Qualche giorno dopo quella polverizzazione cominciarono a giungere numerose telefonate alla Detroit Audubon Sociey in merito alla sorte degli uccelli. A tale proposito la signora Ann Boyes, segretaria di quell'associazione, affermò testualmente: "Il primo indizio che la gente si stava preoccupando per le conseguenze della disinfestazione mi fu offerto una domenica mattina dalla chiamata di una donna, la quale mi comunicava di aver visto un allarmante numero di uccelli morti o moribondi mentre stava rincasando dalla chiesa (in quella zona l'irrorazione era stata effettuata il giovedì precedente). Essa affermava inoltre di non aver visto volare nessun uccello in quei paraggi e di averne trovati almeno una dozzina ?morti* nel suo cortile; ed aggiungeva che i suoi vicini avevano rinvenuto alcuni scoiattoli privi di vita". Tutte le telefonate giunte quel giorno alla signora Boyes parlavano di "una grande quantità di volatili uccisi, mentre non se ne vedeva alcuno ancora in vita". I davanzali di coloro che avevano messo sulle finestre il becchime per gli uccelli erano rimasti deserti. Gli uccelli raccolti qua e là, ormai moribondi, mostravano i sintomi tipici dell'avvelenamento da insetticida: erano assaliti da forti tremiti, non riuscivano più ad alzarsi in volo, rimanevano paralizzati o erano colti da convulsioni. Né gli uccelli erano i soli ad essere colpiti con tale rapidità. Un veterinario del luogo riferì che una folla di clienti aveva invaso il suo laboratorio portando con sé cani e gatti colti da improvviso malore. I gatti, abituati a lisciarsi il pelo e a leccare le zampe con tanta cura, apparivano in condizioni più gravi. I loro disturbi consistevano in violente diarree, vomito e crisi convulsive. L'unico consiglio che il veterinario poté dare ai suoi clienti fu quello di impedire a quelle bestiole di uscire all'aperto, o di lavar le zampe appena rientravano in casa (ma questa precauzione serviva a ben poco, perché è noto che gli idrocarburi non vengono rimossi dalla frutta e dalla verdura neppure con un abbondante lavaggio). Nonostante l'insistenza del locale commissario per la sanità nell'assicurare che la morte di quegli uccelli "doveva essere attribuita a qualche altra specie di disinfestante" e che "i frequenti casi di irritazione delle mucose della gola e dei polmoni provocati dall'esposizione agli effetti dell'aldrina andavano attribuiti a qualcos'altro", il locale Health Department continuò a ricevere una valanga di proteste. Un eminente specialista di medicina interna di Detroit fu chiamato per soccorrere quattro clienti, un'ora dopo che essi erano stati esposti all'azione del tossico mentre osservavano le evoluzioni degli aeroplani irroratori. Tutti presentavano gli stessi sintomi: nausea, vomito, brividi, febbre, spossatezza e tosse. L'amara esperienza fatta a Detroit venne ripetuta in numerose altre contrade, invogliate ad adottare gli insetticidi sintetici nella lotta contro la Popillia japonica. A Blue Island, nell'Illinois, centinaia di uccelli furono trovati nelle strade già morti o in fin di vita e, secondo i dati forniti da chi li raccolse, l'80% apparteneva a specie canore. Sempre nell'Illinois, a Joliet dove, nel 1959, 1200 ettari di terreno erano stati irrorati con eptacloro, secondo quanto riferì un circolo sportivo locale, tutta l'avifauna della zona disinfestata era stata virtualmente "spazzata via". La stessa sorte subirono numerosi conigli, topi muschiati, opossum e pesci; in una scuola del posto, nel programma del corso di scienze venne inclusa la ricerca e raccolta degli uccelli morti per effetto degli insetticidi. Ma forse nessuna popolazione ha sofferto per questa smania di avere "un mondo senza insetti" quanto quella di Sheldon, una cittadina dell'Illinois orientale posta al confine della contea irochese. Nel 1954, il Dipartimento federale dell'Agricoltura e quello dello stato dell'Illinois diedero inizio ad un programma per l'eliminazione della Popillia japonica e decisero di attaccarla lungo la sua linea di avanzata verso quello stato; si sperava, ed anzi si teneva per certo, che sarebbe bastata un'irrorazione intensiva per distruggere tutte le popolazioni di quegli insetti infestanti. Il primo "sradicamento" venne compiuto quell'anno stesso, cospargendo di dieldrina, per mezzo di aerei, 570 ettari di terreno; altri 1000 furono irrorati nello stesso modo nel 1955, dopo di che si pensò che ormai non occorrevano altre disinfestazioni. Ed invece, successivamente, la gravità della situazione richiese sempre nuovi e più massicci trattamenti, tanto che alla fine del 1961 la superficie irrorata risultava pari a circa 55.000 ettari. Fin dall'inizio del trattamento erano state accertate gravi perdite tra gli animali selvatici e domestici; nondimeno gli esecutori del piano avevano continuato la loro opera, senza consultare né lo United States Fish and Wildlife Service, né l'Illinois Game Management Division. (Però, nella primavera del 1960, i rappresentanti del Dipartimento Federale dell'Agricoltura si presentarono dinanzi ad una commissione parlamentare per opporsi al progetto di legge secondo cui venivano prescritte tali consultazioni preventive. Essi dichiararono tranquillamente che ritenevano superflua tale legge, poiché in realtà la cooperazione e le consultazioni erano già di pratica "normale"; e non ricordavano casi in cui non si erano svolte tali consultazioni "a livello federale". Però nella stessa udienza affermarono chiaramente la loro riluttanza a consultarsi con gli organismi statali per la tutela della pesca e della caccia.) Sebbene i fondi per le disinfestazioni chimiche affluissero con un ritmo incessante, i biologi dell'Illinois Natural History Survey che cercavano di appurare l'entità dei danni arrecati si trovarono di fronte a insuperabili difficoltà per la mancanza di mezzi. Nel 1954 venne dato un unico finanziamento di 1100 dollari per l'assunzione di una persona che si occupasse dello studio del problema; e nessun fondo speciale fu concesso nel 1955. Nonostante queste scoraggianti ristrettezze, i biologi riuscirono a raccogliere prove e dati sufficienti a dare un quadro completo della situazione: una distruzione di animali selvatici senza precedenti, che apparve chiaramente agli occhi di tutti appena si iniziò il programma di disinfestazione. Si tentò di studiare sperimentalmente l'avvelenamento degli uccelli insettivori, sia per quanto riguarda i tossici usati, sia per i fenomeni dovuti all'azione indiretta del tossico. A Sheldon, nella fase iniziale del programma, era stata impiegata la dieldrina, nella misura di 3 chilogrammi per ettaro. Per comprendere i suoi effetti sugli uccelli basti ricordare che, negli esperimenti di laboratorio sulle quaglie, questa sostanza ha mostrato una tossicità 50 volte maggiore di quella del Ddt. La quantità di veleno cosparsa sul territorio di Sheldon equivaleva dunque a 150 chilogrammi di Ddt per ettaro! E questa era ancora la dose minima, perché - a quanto sembra - ai margini e negli angoli dei campi si erano avute irrorazioni molto più abbondanti. A mano a mano che la sostanza tossica era penetrata nel suolo, le larve degli scarabeidi avevano cercato scampo risalendo alla superficie e là erano rimaste qualche tempo prima di morire: gli uccelli insettivori erano subito accorsi a catturare quella preda ideale. Insetti di varie specie già morti o moribondi erano così rimasti sul terreno per circa due settimane dopo il trattamento chimico, con conseguenze facilmente immaginabili per gli uccelli. Molti tordi, storni, itteridi, (2) gracchi e fagiani erano stati falciati via. I pettirossi, a detta dei biologi, avevano subìto "un annientamento quasi totale"; infatti, in seguito ad un po' di pioggia, erano venuti alla (2) Passeracei nordamericani di cui la Sturnella magna è un tipico rappresentante. ?N'd'T'* superficie numerosi lombrichi, che poi erano rimasti lì morti, e con ogni probabilità i pettirossi li avevano mangiati. Anche per altri uccelli, grazie al funesto potere del veleno cosparso sul loro mondo, la benefica pioggia di un tempo si era trasformata in uno strumento di distruzione: quelli che avevano bevuto o sguazzato nelle pozzanghere, rimaste sul terreno qualche giorno dopo l'irrorazione, erano stati mortalmente intossicati. La sterilità aveva colpito i sopravvissuti: nei pochi nidi - contenenti poche uova - trovati nella zona disinfestata, non era stato visto nemmeno un uccelletto. Tra i mammiferi, i tamia (3) avevano registrato una vera ecatombe; nei loro cadaveri si erano notati i chiari segni della morte subitanea per avvelenamento. La gente aveva trovato nei campi numerosi topi muschiati e conigli già stecchiti. Gli scoiattoli, un tempo numerosi in quei luoghi, erano scomparsi. Nella zona di Sheldon, dopo l'inizio della lotta contro gli scarabeidi infestanti, ben rara era una fattoria che possedesse ancora un gatto; il 90% era morto, vittima della dieldrina, in seguito alle irrorazioni compiute nel primo anno. E chiunque avrebbe dovuto prevederlo, dati i funesti effetti che questo tossico aveva prodotto in altre regioni. I gatti sono sensibilissimi all'azione di qualsiasi insetticida e, a quanto sembra, della dieldrina in modo (3) Roditori simili a scoiattoli, del Nord America e Asia orientale. ?N'd'T'* particolare. E' noto che nella zona occidentale di Giava, durante una campagna antimalarica promossa dalla World Health Organization, i gatti morirono in grande quantità e, nella zona centrale dell'isola, lo sterminio fu tale che il loro prezzo raddoppiò. Altrettanto è accaduto nel Venezuela dove, dopo una disinfestazione effettuata sempre dalla World Health Organization, i gatti diventarono animali quanto mai rari. A Sheldon, per la distruzione di un insetto, non vennero sacrificati soltanto gli animali selvatici e casalinghi. Osservazioni fatte su numerosi greggi e mandrie di buoi ci indicano quanto grande sia stata la minaccia di avvelenamento e di morte anche per quel tipo di bestiame. Ecco come viene descritto uno degli episodi in un rapporto del National History Survey: Le pecore... furono condotte, attraverso una strada ghiaiosa, da un campo irrorato con dieldrina (il 6 maggio) in un pascolo di falasco non disinfestato. Evidentemente qualche spruzzo aveva oltrepassato la strada, cadendo sul pascolo, perché le pecore cominciarono quasi subito a mostrare sintomi di intossicazione... Esse perdettero ogni interesse per il cibo, manifestarono segni d'una estrema irrequietudine e si diedero a correre intorno al recinto come per cercare una via di uscita...; rifiutavano di lasciarsi radunare, belavano continuamente e tenevano la testa bassa; alla fine furono allontanate dal pascolo... Mostravano un grande desiderio di acqua. Due pecore vennero trovate morte nel ruscello che scorreva in mezzo al pascolo; le altre dovettero essere spinte a forza fuori dell'acqua, parecchie addirittura trascinate fuori di peso. Tre pecore morirono; le altre, a quel che sembra, guarirono. Questo, dunque, era il quadro che si presentava alla fine del 1955. Negli anni successivi la campagna chimica continuò, mentre i già scarsi fondi per le ricerche biologiche vennero a mancare del tutto. Le richieste di contributi per studiare gli effetti degli insetticidi in natura figuravano tra le voci previste nel bilancio annuale del National History Survey sottoposto all'approvazione dell'assemblea legislativa dell'Illinois, ma erano sempre le prime a venire depennate. Soltanto nel 1960 si reperirono i mezzi per continuare a pagare l'unica persona che si occupasse della ricerca sul campo, ed essa faceva veramente un lavoro per quattro. Il desolato quadro delle perdite riscontrate in natura era cambiato di poco quando i biologi ripresero l'opera che avevano dovuto sospendere nel 1955. Nel frattempo l'aldrina (una sostanza usata negli esperimenti sulle quaglie, dalle 100 alle 300 volte più tossica del Ddt) aveva sostituito la dieldrina. Nel 1960 tutte le specie di mammiferi selvatici che popolavano la zona irrorata risultavano danneggiate; e, per gli uccelli, la situazione era ancora peggiore. Nella cittadina di Donovan, i pettirossi avevano subìto un vero sterminio, come pure i gracchi, gli storni ed i tordi. Questi e molti volatili erano rimasti quasi annientati altrove. I cacciatori di fagiani avevano riportato le più gravi conseguenze dalla campagna contro la Popillia; nel territorio irrorato il numero delle nidiate era diminuito del 50% circa, come pure il numero di nati per ciascuna nidiata. La caccia al fagiano, che nel passato era abbondante in questa zona, venne virtualmente abbandonata perché non redditizia. Nella contea irochese, nonostante l'enorme strage provocata nel tentativo di eliminare gli scarabeidi infestanti, il trattamento di oltre 40 mila ettari durante un periodo di otto anni ha dimostrato la provvisorietà delle misure repressive; e gli insetti continuavano la loro avanzata verso occidente. La vera entità dei danni causati da questo programma di controllo (rivelatosi così poco efficace) non verrà mai accertata con precisione, perché i risultati delle indagini compiute dai biologi dell'Illinois sono soltanto estremamente parziali. Se il piano di ricerche avesse ottenuto un finanziamento adeguato per consentire un esame completo, ci troveremmo oggi di fronte a cifre spaventose. Purtroppo, negli otto anni di disinfestazioni, sono stati stanziati soltanto 6.000 dollari per lo studio biologico del terreno irrorato, mentre il governo federale ne ha spesi 375.000 per le operazioni insetticide e molte altre migliaia sono state stanziate dai singoli stati. Il contributo a disposizione dei ricercatori consiste, quindi, in una piccola frazione dell'1% rispetto all'ammontare complessivo richiesto dalla guerra chimica. Queste campagne antiparassitarie, compiute nella zona centro-occidentale degli Stati Uniti, sono state condotte come se ci si trovasse in una condizione di emergenza, quasi che l'avanzata della Popillia japonica rappresentasse un pericolo estremo e tale da giustificare ogni mezzo per scongiurarlo. La realtà dei fatti era indubbiamente diversa e, se le comunità che sono state costrette a sopportare le conseguenze delle irrorazioni chimiche avessero conosciuto i precedenti di quei poveri scarabeidi sul suolo statunitense, sarebbero certamente state meno consenzienti. Gli stati dell'Est, che hanno avuto la fortuna di combattere quei coleotteri prima che si inventassero gli insetticidi sintetici, sono riusciti non soltanto a fronteggiarli, ma a tenerli sotto controllo con mezzi non lesivi per le altre forme di vita. Nell'Est non ci fu una disinfestazione paragonabile neppure lontanamente con quella di Detroit o di Sheldon, perché i metodi colà adottati hanno fatto assegnamento sulle forze naturali di controllo, che offrono i molteplici vantaggi di essere permanenti e di non danneggiare l'ambiente. Durante i dodici anni che seguirono la loro introduzione negli Stati Uniti, quei coleotteri - in assenza dei fattori limitanti che li tenevano sotto controllo nel luogo d'origine - si erano moltiplicati rapidamente. Ma già nel 1945 si potevano considerare parassiti di secondaria importanza nella maggior parte del territorio da essi infestato. A determinare il loro declino avevano contribuito soprattutto l'importazione dall'Estremo Oriente di altri parassiti e l'aver trovato organismi agenti di malattie particolarmente funeste per loro. Tra il 1920 ed il 1933, in seguito alle accurate ricerche compiute nel loro ambiente d'origine, 34 specie di insetti predatori e parassiti erano state importate dall'Asia orientale, con il proposito di adibirle al controllo naturale. Cinque di esse si ambientarono bene negli stati dell'Est. La più efficiente e diffusa è ancor oggi la Tiphia vernalis, l'Imenottero parassita proveniente dalla Corea e dalla Cina; la Tiphia femmina, quando trova una larva di Popillia japonica nel terreno, depone sulla sua regione ventrale un uovo, non senza averle prima iniettato un liquido paralizzante. L'imenottero, quando si schiude come larva, si nutre dell'ospite paralizzato e lo distrugge. In circa 25 anni, in ben 14 stati dell'Est, vennero introdotte colonie di Tiphia per l'attuazione di un programma di disinfestazione in collaborazione tra commissioni federali e statali. In tutta questa regione la vespa ha raggiunto una larga diffusione ed è considerata dagli entomologi come un importante fattore per il controllo della Popillia. Ma un'importanza ancora maggiore ha assunto uno speciale morbo batterico che colpisce solitamente gli scarabei, la famiglia cui appartiene la Popillia japonica. Si tratta di una malattia provocata da un organismo altamente specifico, il quale non attacca gli altri insetti ed è innocuo per i lombrichi, per gli animali a sangue caldo e per le piante. Le spore di questo batterio si trovano nel terreno; quando vengono ingerite dalle larve degli scarabeidi si moltiplicano con rapidità enorme nel loro sangue, che assume un colore biancastro: donde il nome di milky disease (morbo lattiginoso), dato dagli abitanti della zona a tale malattia. Questa fu scoperta nel 1933 nel New Jersey. Fino al 1938 essa rimase prevalentemente circoscritta alle zone che per prime erano state infestate dalla Popillia japonica. Nel 1939 fu deciso un programma che si proponeva di raggiungere una forma efficiente di lotta attraverso la rapida diffusione del morbo. Non venne elaborato alcun metodo per coltivare l'agente della malattia in un mezzo artificiale, ma si ricorse ad un esperimento che parve efficace: si raccolsero dal suolo le larve infette, che vennero quindi essiccate e mescolate con gesso. In una miscela standard, un grammo di polvere contiene 100 milioni di spore. Tra il 1939 ed il 1953, oltre 38.000 ettari di territorio situato in 14 stati subirono il trattamento previsto dal programma di cooperazione fra stato e confederazione, senza parlare poi di altri comprensori della confederazione o di aree di estensione sicuramente vasta, anche se non definita, in cui la disinfestazione venne compiuta da enti privati o da singoli agricoltori. Nel 1945 il "milky disease" infieriva tra le popolazioni di Popillia japonica del Connecticut, dello stato di New York, del New Jersey, del Delaware e del Maryland. In alcune aree di controllo il 94% delle larve appariva infettato. Nel 1953, il governo passò l'incarico di svolgere questo programma di produzione e distribuzione ad un laboratorio privato, che ancor oggi continua a rifornire i privati, le varie associazioni cittadine e chiunque altro sia interessato al controllo degli scarabeidi. Le regioni dell'Est sottoposte a questo trattamento possono oggi contare su un elevatissimo grado di protezione naturale contro le infestazioni da Popillia. L'agente infettante rimane vitale nel suolo per parecchi anni e quindi resta lì pronto per ogni evenienza e scopo, aumentando anzi la sua virulenza con il passar del tempo ed essendo continuamente diffuso dagli agenti atmosferici. Perché allora, dopo tanti risultati positivi conseguiti nell'Est, non si è fatto qualcosa di analogo nell'Illinois e negli altri stati centro-occidentali, dove la battaglia contro la Popillia japonica viene ancor oggi scatenata con tanta furia per mezzo dei tossici? Ci è stato detto che l'inoculazione delle spore di Tiphia vernalis è eccessivamente dispendiosa, sebbene nessuno se ne sia accorto, nel 1940, nei 14 stati dell'Est. Attraverso quale sorta di contabilità è stato dunque possibile arrivare a questo giudizio di "eccessiva dispendiosità"? Certamente non con quella che, a suo tempo, impose l'enorme spesa dei programmi che hanno portato a distruzioni del genere di quella di Sheldon. Tale giudizio, inoltre, non tiene conto del fatto che l'inoculazione delle spore viene fatta una volta sola: cioè, la prima spesa resta anche l'unica. Si afferma pure che tale metodo non può essere applicato ai margini della zona dove è avvenuta l'infestazione perché esso ha effetto soltanto dove si trova già una densa popolazione di larve. Come molte altre asserzioni a favore dei disinfestanti chimici, anche questa obiezione va confutata. Il batterio che dà origine al "milky disease" delle spore infetta almeno 40 altre specie di coleotteri che, complessivamente, hanno una distribuzione abbastanza vasta per diffondere la malattia anche là dove la Popillia japonica è scarsa o ancora inesistente. Per di più, le spore, grazie alla loro lunga sopravvivenza nel terreno, possono venir introdotte anche nelle zone prive di larve e situate ai margini della zona infestata, in modo da essere pronte ad entrare in azione appena gli scarabeidi vi giungano. Senza dubbio, chi esige un risultato subitaneo a qualunque costo continuerà a combattere tali insetti con i prodotti chimici. E così pure chi ha interesse a favorire la moderna tendenza a usare mezzi disinfestanti perché sa che la lotta chimica non ottiene un risultato definitivo, ma richiede sempre nuove e dispendiose applicazioni. D'altra parte coloro che hanno la pazienza di aspettare un anno o due pur di conseguire un effetto duraturo si affidano al sistema del "milky disease"; essi ne ritraggono il vantaggio di un controllo permanente - un controllo che con il passare del tempo diventerà sempre più efficiente. A Peoria, nell'Illinois, il laboratorio del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti sta svolgendo da qualche anno un ampio programma di ricerche per trovare il modo di coltivare l'agente del "milky disease" in un mezzo artificiale. Ciò ridurrà notevolmente il costo delle disinfestazioni ed incoraggerà l'adozione di questo sistema. Dopo un lungo periodo di esperimenti, qualche buon risultato è già stato raggiunto; quando si giungerà alla completa soluzione di tale problema, torneremo forse a comportarci con saggezza e preveggenza nei confronti della Popillia japonica, le cui infestazioni - anche quelle più virulente - non sono mai state tali da giustificare gli spaventosi eccessi che le campagne antiparassitarie hanno registrato nelle regioni centro-occidentali. Episodi come quelli che si sono verificati nell'Illinois orientale durante le irrorazioni insetticide ci pongono di fronte ad un quesito non soltanto scientifico, ma anche morale. Si tratta di stabilire se una civiltà può muovere una guerra incessante alla vita senza distruggere se stessa e senza perdere il diritto di chiamarsi civile. Questi insetticidi non sono veleni selettivi, e non colpiscono soltanto la singola specie cui li destiniamo. Ciascuno di essi viene usato per la semplice ragione che ha un potere mortale, e perciò avvelena tutti i viventi con cui viene a contatto: il vezzeggiato gattino domestico, i buoi dell'allevatore, il coniglio nei campi e l'allodola che volteggia nel cielo. Queste creature non rappresentano alcuna insidia per l'uomo, mentre invece la loro presenza, come quella di molti altri loro compagni, rallegra la nostra esistenza. E noi, per tutta ricompensa, le condanniamo ad una morte non solo improvvisa ma orribile. Degli scienziati, che si trovavano a Sheldon in quei giorni, così descrissero i sintomi di una Sturnella magna raccolta da terra quasi morente: "Sebbene avesse già perduto la coordinazione dei movimenti muscolari e non potesse più né volare né reggersi in piedi, continuava a battere le ali e a contrarre le zampine, restando distesa su un fianco. Il becco le era rimasto aperto e respirava con visibile affanno". Ancor più compassionevole sembrava la muta testimonianza dei tamia già uccisi che venivano trovati qua e là "con il caratteristico atteggiamento assunto nel momento della morte: la loro schiena si era incurvata e le zampe anteriori, strette contro il petto, mostravano le dita dei piedi fortemente serrate... la testa ed il collo apparivano tesi, e la bocca piena di fanghiglia stava a dimostrare che la bestiola, durante l'agonia, aveva cercato di mordere disperatamente il terreno". Chi di noi, messo a conoscenza di azioni che possono causare tali sofferenze ad una creatura vivente, non sente diminuita la propria dignità di uomo? Capitolo ottavo - Conseguenze dell'uso degli insetticidi sulla vita degli uccelli Su zone sempre più vaste del suolo statunitense, la primavera non è ormai più preannunziata dagli uccelli, e le ore del primo mattino, risonanti una volta del loro bellissimo canto, appaiono stranamente silenziose. Questa improvvisa scomparsa del cinguettìo degli uccelli, questa perdita di colore, di bellezza e di attrattiva che ha colpito il nostro mondo è giunta con passo leggero, subdolo e inavvertito per le comunità che non ne hanno ancora subìto i danni. Nel nostro villaggio gli olmi sono stati disinfestati per molti anni ?la lettera porta la data del 1958*. Quando ci stabilimmo qui, sei anni fa, c'era una grande varietà di uccelli: mettevo fuori della porta una bacinella di becchime, e frotte di cardinali, cince, picchi venivano a mangiare tutto l'inverno; e d'estate i cardinali e le cince portavano anche i loro piccoli. Dopo molti anni di irrorazione con Ddt, i pettirossi e gli storni sono praticamente scomparsi; da due anni non vedo più cince sul mio davanzale, e quest'anno anche i cardinali se ne sono fuggiti; in tutto il vicinato hanno fatto il nido solamente un paio di tortore e, forse, una famiglia di mimi. E' difficile spiegare ai bambini che qualcuno ha ucciso gli uccelli, quando a scuola è stato loro spiegato che una legge federale punisce chi li uccide o li cattura. "Non torneranno mai più?" essi chiedono, ed io non so che cosa rispondere. Gli olmi continuano a morire, così pure gli uccelli. Si sta cercando un rimedio? Si può trovare un rimedio? Sono in grado di fare qualcosa anch'io? Un anno dopo che il governo federale aveva compiuto una massiccia disinfestazione contro la "formica di fuoco", (1) una donna dell'Alabama scrisse: La nostra zona, da cinquanta anni a questa parte, pareva un vero paradiso per gli uccelli. Nel luglio scorso noi tutti notammo che non ce n'erano mai stati tanti. Ma poi, d'improvviso, nella seconda settimana d'agosto essi scomparvero completamente. Mi alzavo di buon'ora per dar da mangiare alla mia cavalla che aveva avuto un (1) Solenopsis geminata, Imenottero Formicide. ?N'd'T'* puledrino, e così mi accorsi che non si sentiva più il canto di un uccello. Era una cosa strana, e metteva perfino paura. Che cosa sta mai facendo l'uomo di questo nostro mondo bello e perfetto? Finalmente, cinque mesi più tardi sono apparsi uno scricciolo ed una ghiandaia. I mesi d'autunno ai quali quella donna si riferiva fecero parlare di sé anche nel Sud. Il Field Notes, pubblicazione trimestrale edita dalla National Audubon Society e dallo United States Fish and Wildlife Service, informò che nel Mississippi, nella Louisiana e nell'Alabama si stava verificando il sorprendente fenomeno di "chiazze deserte dove, per chissà quale mistero, non era rimasta neppure l'ombra di un uccello". Il Field Notes raccoglie tutti i rapporti di osservatori ben addestrati, che hanno studiato i resoconti, e conoscono meglio di qualsiasi altro la vita degli uccelli stanziati nella loro zona. Un'informatrice riferiva che, quell'autunno, andando in giro in automobile per il Mississippi meridionale non si scorgeva un solo uccello per lunghissimi percorsi. Una seconda osservatrice, residente a Baton Rouge, diceva che il becchime nelle ciotole "era rimasto intatto per settimane intere", ed aggiungeva che anche gli arbusti, dei cui frutti, per solito, gli uccelli si cibavano avidamente in quella stagione, avevano conservato tutte le loro bacche. Un terzo osservatore dichiarava che "guardando fuori dalla finestra non si vedeva più il gaio quadro d'un tempo, ravvivato dal rosso acceso di 40 o 50 cardinali volteggianti nell'aria insieme con altri uccelli; al massimo ne appariva un paio per volta!" Il prof. Brooks dell'Università della West Virginia, profondo conoscitore dell'avifauna degli Appalachi, riferì che l'avifauna aveva subìto "un'incredibile riduzione numerica" in tutto il territorio dello stato. Un singolare episodio può essere assunto come simbolo della sorte tragica cui furono condannati gli uccelli - una sorte che, dopo aver colpito alcune specie, rimane una minaccia per tutte le altre. Si tratta della vicenda che ha per protagonista un uccellino noto a tutti: il pettirosso. Per milioni di americani il suo arrivo significa che l'inverno è ormai finito; della sua comparsa parlano i giornali e se ne chiacchiera lietamente a tavola, e, a mano a mano che gli uccellini migratori arrivano e le prime foglioline verdi cominciano a schiudersi sugli alberi, migliaia di persone ascoltano il coro mattutino dei pettirossi frementi nell'aria alle prime luci dell'alba. Ma oggi tutto è cambiato e neppure il ritorno di quegli uccelli può essere assicurato. Infatti la sopravvivenza del pettirosso, e di molte altre specie, sembra essere fatalmente legata alla presenza dell'olmo bianco, un albero che faceva parte del paesaggio di migliaia di città, dall'Atlantico alle Montagne Rocciose, ed adornava le strade, le piazze principali ed i parchi dei "colleges» universitari con le sue pittoresche e verdi archivolte. Oggi gli olmi sono condannati a morire di una malattia che li ha colpiti in tutta la loro area di diffusione: una malattia così grave che molti esperti ritengono vano ogni sforzo per combatterla. La perdita degli olmi è dolorosa, ma sarebbe ancor più dolorosa se, nell'inutile tentativo di salvarli dalla distruzione, coinvolgessimo nello sterminio una gran parte della nostra avifauna. Ed il pericolo sta appunto in questo. La cosiddetta malattia dell'olmo olandese venne introdotta negli Stati Uniti dall'Europa verso il 1930, importatavi con i ceppi nodosi di olmo da utilizzare per intarsi: si tratta di un morbo causato da un fungo che invade i vasi di quella pianta adibiti al trasporto della linfa, si diffonde mediante le spore trasportate da questa e, con le sue secrezioni tossiche, cui si aggiunge l'ostruzione dei vasi, fa seccare i rami e morire la pianta. La malattia viene diffusa dalle piante malate a quelle sane da coleotteri che vivono nella corteccia degli alberi morti; questa è contaminata dalle spore del fungo invasore, le quali aderiscono al corpo degli insetti e sono trasportate ovunque. Si tentò di combattere la micosi degli olmi essenzialmente mediante la disinfestazione degli insetti che ne erano i vettori. Di comune in comune, e specialmente in quelle regioni dove l'albero prosperava maggiormente, il Midwest e il New England, le irrorazioni intensive divennero una pratica ordinaria. Cosa questa disinfestazione comportasse per l'esistenza degli uccelli, del pettirosso in particolare, fu chiarito per la prima volta da due ornitologi della Università del Michigan State, il prof. Wallace ed il suo allievo John Mehner. Quando il giovane Mehner si accinse a preparare la sua tesi di laurea, nel 1954, decise di studiare le popolazioni dei pettirossi. Fu una vera combinazione, giacché a quel tempo nessuno immaginava che su di esse incombesse alcun pericolo; ma, proprio mentre stava per iniziare il suo lavoro, cominciarono ad accadere fatti tali da costringerlo a mutare indirizzo, essendo rimasto privo del materiale di studio. La disinfestazione contro la malattia dell'olmo olandese cominciò in piccola scala nel 1954 entro il recinto dell'università. L'anno seguente, la città di East Lansing (cui appartiene quell'università) si unì ad essa nel programma di disinfestazione e quindi la pioggia di prodotti chimici, essendo anche in corso un'operazione antiparassitaria contro la Lymantria dispar (2) e le zanzare, si trasformò in una vera cateratta. Durante il 1954, l'anno della prima leggera disinfestazione, sembrò che tutto procedesse bene. La primavera successiva i pettirossi migratori giunsero puntuali, come di solito, nel giardino dell'università. Come le campanule dell'ossessionante racconto di Tomlinson, The Lost Wood ?Il bosco perduto* essi «non si aspettavano nulla di male", quando rioccuparono le loro zone abituali. Ben presto, però, si vide che qualcosa non andava: si cominciarono a trovare qua e là pettirossi morti o morenti, mentre non se ne vedevano quasi più (2) Comune insetto dell'ordine dei Lepidotteri, originario del continente euroasiatico, le cui larve, o bruchi, divorano le foglie di varie piante: querce, pioppi e conifere. ?N'd'T'* sulle piante, intenti a beccare come al solito, o allineati a fitte schiere nei loro luoghi preferiti per il riposo notturno; ben pochi nidi vennero costruiti e poche uova si schiusero. La stessa cosa si ripeté nelle primavere successive, con monotona regolarità. Quel suolo era dunque diventato una trappola fatale che ghermiva le ondate degli stormi migratori e le sterminava nel giro d'una settimana; ogni nuovo uccello in arrivo andava quindi a raggiungere lo stuolo di quelli già colpiti, che si dibattevano sul terreno in preda agli spasimi dell'agonia. "Il nostro giardino", dichiarò il prof. Wallace, «è diventato un cimitero per la maggior parte dei pettirossi che cercano di stabilirvi la loro residenza primaverile". Ma perché? Dapprima sospettò che si trattasse di qualche malattia del sistema nervoso, ma ben presto apparve evidente che «sebbene il personale addetto alla disinfestazione continuasse ad assicurare che la sostanza irrorata era completamente innocua per gli uccelli, i pettirossi stavano davvero morendo per intossicazione da insetticida e mostravano con chiarezza i ben noti sintomi di perdita di equilibrio, seguiti da tremiti, convulsioni e morte". Molti fatti suggerivano l'ipotesi che i pettirossi rimanessero intossicati non tanto per contatto diretto, quanto indirettamente per aver ingerito lombrichi. Questi vermi erano stati usati inavvertitamente durante alcune ricerche di laboratorio, per nutrire alcuni gamberi, e questi ultimi avevano subìto conseguenze mortali. Un serpente, tenuto in gabbia nello stesso laboratorio, era caduto in convulsioni dopo aver mangiato tali vermi. E quegli stessi vermi costituivano, in primavera, l'alimento principale dei pettirossi. La chiave per risolvere quell'enigma fu fornita di lì a poco dal dott. Barker dell'Illinois Natural History Survey di Urbana. Il lavoro del dott. Barker, pubblicato nel 1958, illustrava il complesso ciclo di eventi che collegava il destino dei pettirossi alle vicende degli olmi malati attraverso i lombrichi. Le piante vengono irrorate in primavera (con una media di 1-2,5 chilogrammi di Ddt per albero alto 15 metri, il che corrisponde a circa 23 chilogrammi per ettaro dove gli olmi sono folti) e spesso più tardi anche in luglio con una concentrazione pari alla metà circa. Potenti spruzzatori investono con il loro getto velenoso ogni parte delle piante più alte, uccidendo non soltanto gli organismi cui l'insetticida è destinato - i Dendroctonus o coleotteri delle cortecce - ma altri insetti e tra essi le specie impollinanti, i ragni predatori ed altri coleotteri. Il veleno forma sulle foglie e sulla corteccia una pellicola duratura che neppure le piogge riescono a rimuovere. D'autunno il fogliame cade al suolo, vi si accumula in strati inzuppati d'acqua e si trasforma a poco a poco in humus. Questo processo viene favorito dall'opera dei lombrichi i quali si nutrono delle foglie cadute - il loro nutrimento preferito - ed ingeriscono in tal modo anche l'insetticida che poi accumulano e concentrano nel loro corpo. Il dott. Barker trovò tracce di Ddt nel tubo digerente, nei vasi sanguigni, nei nervi e sul tegumento dei lombrichi. Senza dubbio qualche verme soccombe al tossico, ma quelli che sopravvivono si trasformano in veri e propri "accumulatori biologici". In primavera, i pettirossi tornano per diventare l'ultimo anello di questa catena: bastano undici grossi lombrichi per dare una dose letale di tossico ad un uccello, ed undici vermi son ben poca cosa rispetto alla dieta giornaliera d'un pettirosso abituato ad inghiottirne una dozzina in meno di un quarto d'ora. Non tutti i pettirossi ricevono una dose letale, ma un'altra causa oltre all'avvelenamento, e con altrettanta facilità, può portare all'estinzione della specie. Lo spettro della sterilità, infatti, incombe su questi uccelli e, come è stato accertato, minaccia di cancellare tutte le loro possibilità di sopravvivenza. Oggi, ad ogni ritorno della primavera, nei 75 ettari di terreno della Università del Michigan State, non si contano più di due o tre dozzine di pettirossi mentre prima delle irrorazioni, secondo calcoli prudenti, vi si trovavano almeno 370 uccelletti; verso la fine di giugno del 1957, dei 370 e più uccelli giovani che avrebbero dovuto svolazzare in quella zona se non vi fosse stata l'irrorazione (il giusto numero per sostituire la popolazione adulta), Mehner ne trovò soltanto uno. L'anno seguente il dott. Wallace riferiva: "Per tutta la primavera e l'estate ?del 1958* non mi è mai capitato d'imbattermi in un solo pettirosso e finora non ho trovato nessuno che ne abbia visti". Questa mancanza di nuovi nati si deve in parte al fatto che uno od entrambi i pettirossi di una coppia muoiono prima che la cova sia completa, ma Wallace ha alcune prove palesi di una causa ancor più sinistra: quella della loro permanente incapacità di riprodurre. Egli, per esempio, riporta casi di "pettirossi e di altri uccelli che hanno costruito il nido ma non vi hanno deposto alcun uovo", ed altri per cui "le uova deposte non si sono schiuse". Vi fu il caso d'un pettirosso che covò le uova con estrema diligenza per 21 giorni ed esse non si schiusero, mentre il periodo normale di incubazione è di 13 giorni. Nel 1960, lo stesso Wallace riferì ad un congresso: "Le nostre analisi stanno dimostrando un'alta concentrazione di Ddt nei testicoli e nelle ovaie degli uccelli adulti. Dieci maschi ne presentarono una quantità oscillante dalle 30 alle 109 p.p.m. nei testicoli, e due femmine rispettivamente 151 e 211 p.p.m. nei follicoli ovarici". Ben presto ricerche estese ad altre zone diedero risultati altrettanto allarmanti. Presso la Università del Wisconsin, il prof. Hickey ed i suoi allievi, dopo un accurato studio comparativo delle aree irrorate e di quelle non ancora sottoposte all'azione, riferirono che la mortalità dei pet tirossi raggiungeva almeno l'86-- 88%! Nel Michigan, il Cranbrook Institute of Science di Blonfield Hills, nell'intento di stabilire la reale entità delle perdite subite dall'avifauna in seguito alla disinfestazione degli olmi nel 1956, chiese che tutti gli uccelli morti per sospetta intossicazione da Ddt fossero inviati all'istituto per sottoporli ad esame. La richiesta ebbe una risposta superiore ad ogni aspettativa: dopo poche settimane le celle frigorifere dell'istituto erano già piene tanto che si dovettero rifiutare altri esemplari. Nel 1959, in quel solo comune venne portato al laboratorio - o se ne diede notizia - un migliaio di uccelli avvelenati. Sebbene si trattasse per lo più di pettirossi (una donna telefonando all'istituto riferì di averne trovati dodici già stecchiti nel suo prato), tra gli uccelli esaminati figuravano 63 diverse specie. Dunque i pettirossi non rappresentano che un anello della catena di devastazioni prodotte dall'irrorazione degli olmi; e dire che questa non è che una delle tante misure di controllo con insetticidi che ricoprono la nostra terra di veleno! Ben 90 specie di uccelli hanno subìto un'elevata mortalità e tra esse si trovano quelle più note agli amatori e a coloro che vivono ai margini della città; in qualche centro delle zone irrorate gli stormi di uccelli nidificanti sono diminuiti del 90%. E questa minaccia di estinzione, come vedremo, incombe su tutti i tipi di uccelli: quelli che saltellano per terra in cerca di cibo, quelli che si nutrono sempre sugli alberi o traggono dalla corteccia il loro alimento e, infine, quelli che vivono di preda. Molto probabilmente la stessa sorte del pettirosso toccherà anche alla restante avifauna ed ai mammiferi che si nutrono di lombrichi o di altri organismi terricoli. Circa 45 specie di uccelli si nutrono anche di vermi e tra esse si trova pure la beccaccia, un volatile che sverna nelle regioni meridionali, sottoposte di recente ad irrorazioni tanto copiose di eptacloro. E non fa meraviglia che si siano constatate due novità in questi ultimi tempi: il numero delle giovani beccacce nate nelle zone di nidificazione del New Brunswick ha subìto una forte riduzione, e gli uccelli adulti sottoposti ad analisi di laboratorio sono apparsi contaminati da abbondanti residui di Ddt e di eptacloro. Si posseggono già dati preoccupanti sulla elevata mortalità che ha colpito oltre 20 specie di uccelli abituati a cercare nel suolo il loro nutrimento - vermi, formiche, larve ed altri organismi terricoli ormai abbondantemente contaminati; e, tra esse, tre tipi di tordi, la cui voce è una delle più canore e graziose che sia dato ascoltare: il tordo dal dorso color oliva, il solitario e quello di bosco. Ed i passeri che, svolazzando qua e là tra i cespugli, danno vita all'ambiente del sottobosco e producono un fruscio così singolare quando beccano tra le foglie cadute - le Melospiza fasciata (3) e le Zonotrichia albicollis (4) hanno subìto essi pure gravi danni dalla disinfestazione degli olmi. Anche i mammiferi possono essere (3) Comune passero dell'America nord-orientale, noto per il suo dolce canto. Ha piumaggio scuro sul dorso, bianco sul petto, nel cui centro strisce scure formano una macchia. ?N.d.T'* (4) Comune passero dell'America nord-orientale, dal piumaggio scuro, con una larga macchia bianca quadrata sulla gola. ?N'd'T'* coinvolti, direttamente e indirettamente, nel ciclo dell'intossicazione. I lombrichi hanno una parte importante nell'alimentazione del procione e vengono mangiati dall'opossum durante la primavera e l'autunno. Anche il topo ragno e la talpa, che scavano gallerie sotterranee, si nutrono di un buon numero di vermi e passano probabilmente il veleno agli uccelli predatori che li assalgono, come i barbagianni. Numerosi barbagianni moribondi vennero trovati nel Wisconsin, dopo le abbondanti piogge primaverili: erano stati avvelenati quasi certamente dai lombrichi che avevano mangiato. Si sono visti falconiformi e strigiformi (gufi della Virginia, barbagianni, falchi dal dorso rossastro, sparvieri e falchi di palude) in preda a convulsioni forse provocate da intossicazione secondaria in seguito alla ingestione di uccelli o topi che avevano accumulato insetticidi nel fegato o in altri organi. Né le irrorazioni del fogliame degli olmi danneggiano solamente gli animali che cercano il loro cibo per terra o i loro predatori. Anche tutte le specie che popolano le cime degli alberi - gli uccelli insettivori che spigolano il loro nutrimento sulle foglie - sono scomparse dalle zone densamente irrorate: e, tra questi spiritelli delle selve, il regolo ed il fiorrancino, la minuscola Polioptila caerulea, (5) numerosi silviidi, i cui stormi migratori sfrecciano numerosi tra gli alberi ogni primavera in una movimentata e sfolgorante parata di colori. Nel 1956, la primavera arrivò tardi e così anche le disinfestazioni furono compiute più in là e andarono a coincidere con l'arrivo di un'ondata eccezionalmente intensa di tali uccelli. L'ecatombe che ne seguì coinvolse perciò quasi tutte le specie viventi in quella zona. A Whitefish Bay, nel Wisconsin, all'epoca del passo, si era ammirato, negli anni precedenti, perlomeno un migliaio di dendroiche coronate; nel (5) Passero dal bel piumaggio grigio-azzurro, tipico delle regioni sud-occidentali degli Stati Uniti. ?N'd'T'* 1958, dopo la irrorazione degli olmi, ne sono state viste soltanto due. Se a questa perdita aggiungiamo le distruzioni subìte dagli altri comuni, otteniamo un elenco lunghissimo che comprende tra le vittime le specie di silviidi più graziose e più ricercate dai conoscitori: la mniotilta bianca e nera, la dendroica estiva, i parulidi delle magnolie e la Dendroica tigrina, (6) il seiuro dalla testa d'oro che di maggio riempie i boschi di trilli squillanti, i silviidi di Blackburn dalle ali fiammeggianti, quelli del Canada, quelli verdi dal petto nero ed altri dai fianchi color castano. Tutti questi uccelli muoiono (6) Uccello canoro americano, trovato per la prima volta presso Cape May, nel New Jersey. ?N'd'T'* o perché si nutrono direttamente di insetti avvelenati o perché, essendo questi scomparsi, non riescono a trovare sufficiente cibo. La stessa iattura ha colpito duramente anche le rondini che, mentre sfrecciano nel cielo, ingoiano gli insetti dell'aria così come le aringhe, nel nuotare, filtrano attraverso la bocca il plancton marino. Un naturalista del Wisconsin scrive a questo proposito: "Le rondini sono state duramente colpite. Tutti si rammaricano nel vederne un così scarso numero in confronto a quello di quattro o cinque anni fa. Soltanto quattro anni fa il cielo sopra la nostra testa ne era pieno. Ed ora ne scorgiamo una di tanto in tanto... Può darsi che ciò sia avvenuto perché, in conseguenza delle irrorazioni, gli insetti sono venuti a mancare o, se sopravvivono, costituiscono una fonte di avvelenamento". Di altri uccelli, lo stesso osservatore annota: "Anche i tirannidi orientali hanno subìto danni. I tirannidi sono ormai scarsi dappertutto, ma quella specie, che pur pareva tanto resistente, è praticamente scomparsa. Ne ho visto soltanto un esemplare questa primavera, ed uno l'anno scorso. Da varie parti del Wisconsin giungono lamentele dello stesso genere. Possedevo cinque o sei paia di cardinali tempo addietro, e non se ne è salvato nemmeno uno. Gli scriccioli, i pettirossi, i mimi ed i barbagianni solevano nidificare ogni anno nel nostro giardino, oggi non vi è più alcun nido e, nelle mattine estive, non risuona neppure un cinguettìo. Sono rimasti solo gli uccelli dannosi, i piccioni, gli storni ed i passeri. La situazione è tragica, non posso pensarci". Le disinfestazioni autunnali degli olmi, permettendo al veleno di penetrare anche nelle più piccole screpolature della corteccia, sono forse le maggiori responsabili della distruzione di un così grande numero di capinere, sittidi, paridi, picchi e rampichini alpestri. Durante l'inverno 1957-- 1958 il dottor Wallace non vide, per la prima volta in tanti anni, né una capinera né un picchio muratore intenti a beccare il cibo nelle ciotole che aveva predisposto. Ebbe invece occasione di imbattersi in tre picchi che gli fornirono, passo passo, un breve e quanto mai desolante quadro del legame completo tra causa ed effetto: uno si stava cibando su un olmo; un altro, ormai in fin di vita, mostrava i sintomi tipici dell'intossicazione da Ddt; ed il terzo era già morto (più tardi nei tessuti di quello moribondo venne riscontrata una concentrazione di veleno pari a 226 p.p.m.). Il sistema di alimentazione di questi uccelli li rende particolarmente vulnerabili alle irrorazioni insetticide. E ciò comporta un grave danno non soltanto sotto il profilo economico, ma anche per altre ragioni meno palesi. D'estate, per esempio, i picchi muratori ed i rampichini alpestri liberano le piante da una grande quantità di parassiti, nutrendosi di insetti adulti oppure delle loro uova o larve. Il cibo della capinera è per tre quarti di origine animale, e comprende molti insetti nei vari stadi del loro ciclo vitale; il modo di nutrirsi di questo uccello ci viene descritto da Bent nella sua monumentale opera Life Historics of North American Jays, Crows and Titmice, con particolare riguardo all'avifauna nordamericana: "Quando lo stormo si sposta, ogni componente esamina minuziosamente le cortecce, i rami e le fronde, cercando cibo; piccole cose: uova di ragno, bozzoli ed altre forme di vita latente degli insetti. Numerosi esperimenti scientifici hanno dimostrato quale importanza determinante abbia in molti casi il ruolo assolto dagli uccelli per il controllo degli insetti. I picchi, per esempio, possono considerarsi i principali nemici dei coleotteri che parassitizzano gli abeti di Engelmann, poiché infliggono alle popolazioni di questi insetti una riduzione dal 45 al 98%; inoltre esercitano anche una larga azione repressiva, nei frutteti di meli, dei bachi delle mele. Le capinere ed altri uccelli stanziali proteggono la frutta contro l'infestazione delle larve di Operophthera brumata. (7) Tuttavia tale vasta opera di controllo naturale non avviene più, oggi, in questo mondo inzuppato di prodotti chimici, in cui le massicce irrorazioni distruggono non solo gli insetti ma anche i loro principali nemici, gli uccelli. Quando in seguito si manifesta una recrudescenza dei parassiti - e ciò accade quasi sempre - viene a (7) Insetti che danneggiano gli alberi da frutta. ?N'd'T'* mancare chi avrebbe potuto tenerli in scacco. A tale proposito, Owen J. Gromme, direttore della sezione ornitologica presso il Public Museum di Milwaukee, così scrisse al Journal di quella città: "I più grandi avversari degli insetti sono altri insetti predatori, gli uccelli e alcuni piccoli mammiferi; ma il Ddt uccide indiscriminatamente eliminando anche quegli esseri che la natura aveva creato per la propria salvaguardia... Nel nome del progresso dobbiamo forse diventare le vittime di quei mezzi diabolici che noi stessi fabbrichiamo e che ci consentono solo provvisoriamente di far fronte agli insetti, rendendo invece inutile la nostra opera più tardi? Con quali strumenti controlleremo le invasioni dei nuovi parassiti che attaccheranno gli altri alberi, quando gli olmi saranno scomparsi del tutto e la salvaguardia naturale degli uccelli avrà subìto una totale distruzione per colpa dei veleni irrorati?" Il signor Gromme affermava inoltre che, dopo l'inizio delle disinfestazioni compiute nel Wisconsin, le chiamate telefoniche e le lettere da parte di chi aveva visto uccelli morti o morenti erano aumentate con ritmo crescente; le inchieste compiute precisavano sempre che i casi di morte si erano registrati ogni volta nelle zone dove era avvenuta l'irrorazione o la nebulizzazione degli insetticidi. L'osservazione del signor Gromme è stata condivisa anche da ornitologi e direttori della maggior parte dei centri di ricerca istituiti nel Midwest, quali il Cranbrook Institute del Michigan, l'Illinois Natural History Survey e l'Università del Wisconsin. Basta dare una scorsa alla rubrica "Lettere al direttore", pubblicata da un qualsiasi giornale nelle zone dove è in corso la lotta antiparassitaria, per accorgersi che le disinfestazioni chimiche stanno suscitando un'ondata di sdegno tra i cittadini, i quali non si limitano ad esprimere la loro recriminazione, ma dimostrano un'esatta conoscenza dei pericoli e della scarsa efficacia delle sostanze tossiche cosparse per ordine delle autorità. "Prevedo con terrore", scrisse una donna di Milwaukee, "il giorno ormai molto prossimo in cui troverò morenti nel mio cortile tanti graziosi uccellini. Sarà un'esperienza dolorosa, che mi stringerà il cuore... un'esperienza che avvilisce ed esaspera, perché appare chiara l'incapacità di questi criminali disinfestatori di raggiungere i loro intenti... Si può salvare, con qualche altro sistema un po' meno ottuso, la vita degli alberi senza distruggere quella degli uccelli? Nell'economia della natura, non si salvaguardano forse l'un l'altro? E non è quindi possibile favorire questo equilibrio naturale senza distruggerlo?" L'idea che gli olmi, pur essendo magnifiche piante ombrose, non sono "vacche sacre" e non giustificano un'interminabile campagna di distruzione contro le altre forme di vita, viene espressa in altre lettere: "Ho sempre apprezzato gli olmi", scrisse una signora, anch'essa del Wisconsin, "che sono una nota così caratteristica del nostro paesaggio. Però esistono tante altre specie di alberi... e dobbiamo preoccuparci di salvare anche i nostri uccelli. Possiamo immaginare una cosa più triste ed orribile di una primavera senza il canto del pettirosso?" Per la maggior parte della gente il dilemma si riduce ad una vera e propria scelta tra bianco e nero: dobbiamo mantenere in vita gli olmi o gli uccelli ? Ma l'alternativa non è così semplice, e per una delle beffe così frequenti che si verificano nel campo del controllo chimico, può darsi che, se continuiamo per questa strada, non riusciremo a salvare né gli uni né gli altri. Infatti le disinfestazioni stanno uccidendo gli uccelli, ma non ci permettono di sottrarre gli olmi alla morte. L'illusione che la salvezza degli alberi stia nel beccuccio di uno spruzzatore è un pericoloso abbaglio che sta spingendo una popolazione dopo l'altra a sostenere spese enormi senza conseguire alcun risultato duraturo. A Greenwich, nel Connecticut, gli insetticidi vennero cosparsi con regolarità per 10 anni, finché sopraggiunse una stagione secca particolarmente favorevole ai coleotteri parassiti e la mortalità degli olmi raggiunse il 100%. Ad Urbana, centro universitario dell'Illinois, la malattia dell'olmo olandese fece la sua prima apparizione nel 1953; nel 1959, nonostante sei anni di trattamento, il terreno su cui ha sede l'università aveva perduto l'86% dei suoi olmi, metà dei quali vittime di quella malattia. A Toledo, nell'Ohio, un'analoga esperienza ha indotto il sovrintendente alle Foreste, Joseph A' Sweeney, a considerare con spirito realistico i risultati della campagna antiparassitaria. Anche là le irrorazioni erano state iniziate nel 1953 ed erano continuate fino al 1959. Nel frattempo però il signor Sweeney aveva notato come un'infestazione di coccidi, che aveva colpito diffusamente gli aceri della sua città, stesse diventando sempre più virulenta dopo il trattamento con insetticidi raccomandati dai "testi e dalle autorità". Decise allora di rivedere personalmente i risultati della disinfestazione praticata sugli olmi olandesi infetti. I risultati dell'indagine lo sbalordirono: s'accorse che nel centro urbano di Toledo "le sole aree veramente controllate si riducevano a quelle dove erano stati rapidamente rimossi gli alberi già intaccati dal morbo o che avevano il male in incubazione". "Dove invece", ebbe a dichiarare Sweeney, "avevamo fatto assegnamento sull'effetto puro e semplice del tossico cosparso, la malattia era rimasta senza alcun controllo; nelle campagne, dove nulla era stato fatto, l'infestazione aveva progredito meno che in città. Ciò stava ad indicare che le sostanze tossiche servivano solo a distruggere qualsiasi nemico naturale. "Ci siamo così decisi ad eliminare le disinfestazioni insetticide contro le malattie degli olmi. Ciò mi ha messo in urto con chi voleva restar fedele alle disposizioni impartite dal Dipartimento dell'Agricoltura, ma la realtà dei fatti sta dalla mia parte ed io m'attengo ad essi". Non si riesce a comprendere perché mai le città del Midwest, nelle quali la malattia degli olmi ha avuto una diffusione piuttosto recente, si siano avventurate in un programma di controllo così ambizioso ed oneroso senza indagare dapprima - a quanto pare - su ciò che era stato fatto in altre regioni, le quali avevano dovuto fronteggiare il problema già molto tempo addietro. Lo stato di New York, per esempio, ha avuto a che fare con questa infestazione da un tempo più lungo di qualsiasi altra zona, perché si pensa che il legname contenente i germi della malattia sia giunto sul suolo degli Stati Uniti verso il 1930, appunto dal porto di New York. E proprio lo stato di New York è quello che meglio ha saputo contenere e reprimere la malattia, senza mai ricorrere agli insetticidi chimici. Infatti le autorità preposte allo sviluppo dell'agricoltura non consigliano mai l'uso di insetticidi chimici su grande scala. Come è stato possibile, allora, raggiungere un esito così positivo? Dai primi tempi della battaglia in difesa degli olmi a tutt'oggi lo stato di New York ha messo in atto rigorose misure sanitarie, sradicando e distruggendo prontamente tutte le piante ammalate o appena infette. I risultati iniziali furono in parte scoraggianti, ma ciò accadde perché non si era compreso che bisognava distruggere non soltanto gli alberi irreparabilmente colpiti, ma tutto il legname d'olmo in cui i coleotteri potessero riprodursi. Una grande quantità di questi parassiti vettori di funghi esce dai tronchi degli olmi malati, abbattuti ed accatastati per essere poi usati, a meno che non vengano bruciati prima della primavera. Sono appunto i coleotteri adulti che, fuoriuscendo verso la fine di aprile o in maggio alla ricerca di cibo, trasmettono la malattia. Per esperienza diretta, gli entomologi di New York hanno appreso quale genere di materiale, favorevole alla riproduzione dei coleotteri, fosse realmente importante per la diffusione del morbo. Concentrando i loro sforzi su questa fonte di pericolo, essi riuscirono non solo ad ottenere ottimi risultati, ma anche a contenere il costo del loro "programma di risanamento" entro limiti ragionevoli. Nel 1950 l'incidenza della malattia dell'olmo olandese si era ridotta ad un'entità irrisoria: il 2 per mille dei 55.000 olmi che crescono nel centro urbano di New York. Un analogo programma aveva preso l'avvio, nel 1942, nella contea di Westchester, ed anche là, nei 14 anni successivi, la perdita di olmi non aveva superato la media annuale del 2 per mille. La città di Buffalo, che conta 185.000 olmi, offre pure un eccellente esempio di contenzione della malattia, perché il danno che registra annualmente si limita al 3 per mille delle piante: in altre parole, ferma restando tale media, occorrerebbero più di tre secoli per eliminare gli olmi di Buffalo. Quello che è accaduto a Syracuse appare ancor più sorprendente: in questa città nessun programma di disinfestazione era mai stato messo in atto prima del 1957. Tra il 1951 ed il 1956 erano andati perduti circa 3.000 olmi. Allora, sotto la direzione di Howard C. Miller del College of Forestry dell'Università dello Stato di New York, venne compiuto uno sforzo decisivo per rimuovere tutti gli alberi malati e tutto il legname in cui i coleotteri avrebbero potuto riprodursi; la media annuale delle perdite è ora largamente inferiore all'1%. A New York gli esperti in questo genere di controllo della malattia degli olmi hanno così sottolineato il vantaggio economico di tale metodo di risanamento: "Nella maggior parte dei casi», afferma J.G. Matthysse del New York State College of Agriculture, "la spesa effettiva è ben poca cosa in confronto a ciò che si può probabilmente salvare. Quando troviamo un ramo appassito o spezzato, lo recidiamo perché non rechi danno alla pianta o a noi stessi; e quando abbiamo una catasta di legna da ardere, che spesso viene usata fino a primavera, possiamo con facilità togliere dai tronchi la corteccia o riporre la legna in un luogo asciutto. Nel caso di piante morenti o già morte, la spesa per una pronta rimozione onde prevenire la diffusione del morbo non supera quella che bisognerebbe sostenere in seguito, perché in ogni zona cittadina gli alberi secchi vanno alla fine abbattuti". Dobbiamo quindi ritenere che la situazione, a proposito della malattia dell'olmo olandese, non sia irrimediabilmente compromessa, purché si prendano le dovute e tempestive misure. Anche se i mezzi che abbiamo a disposizione non ci consentono di sradicarla del tutto laddove si è ormai stabilmente fissata, possiamo pur sempre reprimerla e contenerla entro limiti ragionevoli per mezzo di un metodo di risanamento e senza dover ricorrere a palliativi che, oltre alla loro inefficacia, comportano una tremenda distruzione di uccelli. Altre possibilità di risanamento possono venire dal settore della genetica forestale, dove alcune ricerche sperimentali permettono di sperare nell'ottenimento di un olmo ibrido refrattario alla malattia. L'olmo comune europeo è molto resistente e numerosi esemplari ne sono stati piantati nei dintorni di Washington; queste piante, anche durante un periodo in cui il morbo aveva colpito un'alta percentuale di olmi olandesi, rimasero completamente immuni. Un'urgente opera di ripopolamento, attraverso un intenso programma di semina e di trapianti, si impone per le comunità che hanno subìto una larga falcidia dei loro olmi. Si tratta di una reale necessità, e sarà bene fare ricorso non soltanto al robusto olmo comune europeo, ma anche ad altre specie per evitare che una eventuale epidemia specifica privi in futuro una zona di tutti i suoi alberi. Il segreto della prosperità per un insieme di piante (o di animali) risiede in quella che l'ecologo inglese Charles Elton definisce "la conservazione della varietà". Quanto accade oggi è, in gran parte, il risultato del mancato intervento biologico delle passate generazioni. Fino a pochi decenni fa nessuno sapeva che, piantando su una vasta superficie una sola specie di albero, ci si esponeva ad un risultato disastroso; ecco perché gli abitanti di molte città rivestirono di olmi i bordi di ogni strada e le aiuole dei loro parchi. Questa è la ragione per cui gli olmi muoiono, e di conseguenza gli uccelli. Come il pettirosso, anche un altro uccello americano vive oggi sotto l'incubo della totale estinzione. Si tratta del nostro simbolo nazionale: l'aquila. La popolazione di aquile ha subìto una preoccupante falcidia negli ultimi dieci anni. I fatti inducono a supporre che nell'ambiente naturale di tali uccelli siano avvenuti mutamenti tali da distruggere virtualmente la loro capacità di riproduzione. Non si sa ancora bene dove si debba ricercarne l'origine, ma alcuni dati farebbero pensare che gli insetticidi vi abbiano la loro parte. Le aquile più studiate del Nord America sono state quelle che nidificano nel tratto costiero della Florida occidentale, fra Tampa e Fort Myers. In quella zona Charles Broley, un banchiere in pensione di Winnipeg, acquistò fama in campo ornitologico per aver inanellato dal 1939 al 1949 più di 1000 giovani aquile di mare dalla testa bianca (da che era in uso il sistema dell'inanellamento, solo 166 aquile erano state sottoposte a quell'operazione). Il signor Broley inanellava i giovani aquilotti durante i mesi invernali, prima che lasciassero il nido. Questi uccelli, ricuperati in seguito, mostrarono come le aquile nate in Florida e considerate sino allora uccelli stanziali migrassero invece lungo la costa verso nord fino ad entrare in territorio canadese, portandosi all'altezza dell'isola Prince Edward. D'autunno le aquile tornavano al sud, e il loro passaggio poteva essere seguito da osservatori ornitologici famosi come quello di Hawk Mountain, nella Pennsylvania orientale. Durante i primi anni della sua attività ornitologica, il signor Broley trovava per solito, ogni anno, in una fascia litoranea da lui prescelta, 125 nidi con aquilotti. Il numero dei giovani inanellati ammontava annualmente a circa 150. Senonché a partire dal 1947 la nascita di nuovi uccelli si fece più rara: in qualche nido non era stato deposto alcun uovo; in altri le uova non si schiudevano. Tra il 1952 ed il 1957 circa l'80% dei nidi rimase vuoto, e nel 1957 soltanto 43 nidi furono occupati: in sette di essi nacquero complessivamente otto aquilotti, in ventitré le uova non si aprirono, ed altri tredici non servivano più per la cova, ma soltanto come dimora provvisoria delle aquile adulte in cerca di nutrimento. Nel 1958 il signor Broley dovette percorrere più di 160 km di costa prima di imbattersi in un aquilotto ed inanellarlo. Le aquile adulte che erano state viste in 43 nidi nel 1957 erano così rare che furono ritrovate solo in 10 nidi. Anche se la morte del signor Broley, sopravvenuta nel 1959, ha troncato questa serie ininterrotta di preziose osservazioni, un certo numero di segnalazioni fornite in seguito dalla Florida Audubon Society e da altre fonti del New Jersey e della Pennsylvania conferma una realtà tale da indurci a pensare se non sia il caso di cercarci un nuovo simbolo nazionale. Tra di esse, assumono un particolare rilievo le notizie date da Maurice Broun, custode dello Hawk Mountain Sanctuary. La Hawk Mountain è un pittoresco picco della Pennsylvania sud-orientale dove gli estremi contrafforti orientali degli Appalachi formano un'ultima barriera contro i venti che provengono da occidente per scatenarsi poi sulle pianure che portano alla costa. I venti, quando investono i fianchi delle montagne, vengono dirottati verso l'alto e durante molte giornate autunnali si crea una continua corrente ascensionale, grazie alla quale gli uccelli dalle grandi ali, come i falchi e le aquile, vengono spostati senza sforzo e riescono a compiere in un solo giorno, nella loro migrazione verso il sud, parecchie miglia di percorso. I contrafforti convergono proprio attorno alla Hawk Mountain, e così pure le rotte che i rapaci percorrono. Ne risulta che questi uccelli, confluendo dalle sconfinate distese verso nord, sono costretti a passare in quella specie di collo di bottiglia. In più di una ventina d'anni trascorsi come custode a Hawk Mountain, Maurice Broun ha osservato e registrato in appositi elenchi un numero di falchi e di aquile maggiore di quanto non sia riuscito a fare qualsiasi altro americano. Il maggior afflusso di Haliaëtus leucocephala (8) migranti si verifica nel tardo agosto ed ai primi di settembre, e si presume che si tratti di rapaci della Florida diretti verso la loro terra (8) Aquila marina con la testa bianca, diffusa in tutta l'America settentrionale, dove vive lungo le coste marine o lungo le rive dei laghi e degli estuari. ?N'd'T'* d'origine, dopo il soggiorno estivo nel nord (più tardi, in pieno autunno ed anche all'inizio dell'inverno, si vedono trasmigrare anche altre aquile di maggiori dimensioni, le quali forse appartengono ad una razza settentrionale e vanno in cerca di una ancora sconosciuta dimora invernale). Durante i primi anni che seguirono all'inaugurazione della riserva, e precisamente dal 1935 al 1939, il 40% delle aquile era costituito da volatili giovani; a giudicare dal loro piumaggio uniforme e scuro mostravano non più d'un anno di età. Negli anni seguenti, invece, questi uccelli non ancora adulti sono diventati una rarità. Tra il 1955 ed il 1959 essi raggiungevano a stento il 20% dell'intero "passo", e in un anno (1957) si contò soltanto un individuo giovane per ogni 32 adulti. Le osservazioni fatte alla Hawk Mountain concordano con quanto si è riscontrato altrove. Uno di questi resoconti ci proviene da Elton Fawks, funzionario del Natural Resources Council dell'Illinois. Le aquile - che probabilmente nidificano nel nord - hanno l'abitudine di svernare lungo i corsi del Mississippi e dell'Illinois. Nel 1958 il signor Fawks riferì che, da un computo effettuato in quei giorni, risultava la presenza di un solo aquilotto su un complesso di 59 aquile enumerate. Segnalazioni dello stesso genere, che confermano l'ipotesi d'una prossima estinzione di questo rapace, si ricevono dalla Mount Johnson Island che sorge in mezzo al fiume Susquehanna e rappresenta l'unica riserva al mondo in cui si trovino solo aquile. Tale isolotto, pur essendo situato a soli dodici chilometri a monte della diga di Conowingo e a meno di un chilometro dalla costa della contea di Lancaster, ha conservato la sua naturale selvatichezza. Fin dal 1934, il suo solo nido di aquila è stato oggetto di studio da parte del prof. Beck, un ornitologo di Lancaster e sovrintendente della riserva. Tra il 1935 ed il 1947 la nidificazione si mostrò regolare e feconda; invece a partire dal 1947, sebbene gli uccelli adulti continuassero ad occupare il nido e a deporvi le uova, non nacque più nemmeno un aquilotto. Dunque, nella Mount Johnson Island, come in Florida, la situazione appare la stessa: gli adulti superstiti seguitano a dimorare nei nidi ed alcuni vi depongono anche le uova, ma gli uccelli che nascono sono rarissimi. Tra le varie spiegazioni che si possono addurre, una soltanto soddisfa completamente: la riduzione della capacità riproduttiva delle aquile è stata provocata da qualche fattore ambientale e ha assunto tale portata che ormai il numero delle morti supera quello delle nascite e la razza viene pertanto condannata all'estinzione. Vari sperimentatori, ed in particolare il dott. De Witt dello United States Fish and Wildlife Service, hanno riprodotto artificialmente condizioni analoghe. Gli ormai classici esperimenti del dott. De Witt per studiare gli effetti di una serie di insetticidi sulle quaglie e sui fagiani hanno provato che il Ddt ed altri composti affini, anche se non determinano danni visibili nelle coppie di uccelli adulti, incidono gravemente sulle loro funzioni riproduttive. Il manifestarsi degli effetti può variare, ma la sostanza non muta. Per esempio: quaglie, nella cui dieta era stata introdotta una dose di Ddt durante tutto il ciclo riproduttivo stagionale, non morirono e produssero anzi un numero normale di uova feconde; queste, però, non si schiusero che in minima parte. "Molti embrioni", affermò il dott. De Witt, "mostravano di svilupparsi regolarmente durante i primi stadi di incubazione, ma morivano al momento della schiusa". Tra i nati, più della metà sopravvisse meno di cinque giorni. Altri esperimenti comprovarono che quaglie e fagiani nutriti per tutto l'anno con un becchime contaminato da insetticida smettevano di fare uova. Anche il dott. Rudel ed il dott. Genelly dell'università di California segnalarono risultati del tutto analoghi: i fagiani che avevano ingerito alimenti contenenti dieldrina producevano un numero di uova assai scarso e i nati che sopravvivevano erano molto rari". Secondo questi autori, gli effetti lenti ma letali, riscontrati sui giovani uccelli, derivano da un deposito di dieldrina nel tuorlo dell'uovo che essi avevano gradatamente assimilato durante l'incubazione e dopo la schiusa. Tali ipotesi vengono autorevolmente confermate da recenti studi compiuti dal dott. Wallace e dal suo laureando Bernard, i quali riscontrarono forti concentrazioni di Ddt nei pettirossi del parco che sorge attorno all'Università dello stato del Michigan. Questi sperimentatori hanno accertato la presenza del tossico nei testicoli di tutti gli uccelli presi in esame, nei follicoli ovarici in via di sviluppo, nelle ovaie delle femmine, nelle uova mature ma non ancora deposte negli ovidutti, nelle uova non schiuse che si trovavano nei nidi abbandonati, negli embrioni in esse racchiusi ed in un uccelletto morto appena nato. Tali importanti studi ci dicono, dunque, che il veleno insetticida colpisce una generazione di individui anche se non è più a diretto contatto con essa. L'accumulo di tossico nell'uovo, nella sostanza del tuorlo destinata ad alimentare l'embrione in via di sviluppo, è un virtuale foriero di morte, e spiega perché mai gli uccelli di De Witt abbiano cessato di vivere prima ancora di uscire dall'uovo o pochi giorni dopo. L'applicazione sperimentale di questi studi in laboratorio alle aquile presenta difficoltà quasi insuperabili, e pertanto in Florida, nel New Jersey ed altrove si stanno svolgendo indagini in natura nella speranza di poter stabilire con certezza le cause che hanno determinato l'evidente sterilità di una così gran parte della popolazione di questi rapaci. Nel frattempo, e fino a prova contraria, i maggiori indizi cadono sugli insetticidi. I pesci, là dove abbondano, costituiscono gran parte della dieta di un'aquila (circa il 65% nell'Alaska ed il 52% nella zona di Chesapcake Bay). Quasi certamente le aquile, che per tanto tempo sono state oggetto di studio da parte del signor Broley, si nutrivano di pesci. Fin dal 1945 quel tratto di costa considerato dall'ornitologo è stato sottoposto a ripetute irrorazioni di Ddt diluito con petrolio, allo scopo di distruggere una zanzara della laguna che infesta le paludi e il litorale di quella zona in cui le aquile di mare cercano prevalentemente la loro preda. Pesci e granchi hanno subìto vere decimazioni e, dall'analisi dei loro tessuti, è parsa evidente una elevata concentrazione di Ddt, pari ad oltre 46 p.p.m'. Come gli svassi di Clear Lake che, nel mangiare i pesci di quelle acque, avevano accumulato dosi fatali di insetticida, le aquile stanno quasi certamente accumulando Ddt nei loro tessuti. E come gli svassi, le quaglie, i fagiani ed i pettirossi, anch'esse perdono in maniera sempre più manifesta la capacità di riprodursi e di assicurare la continuità della loro specie. Da ogni parte del mondo giunge l'eco del pericolo che oggi incombe sugli uccelli: le informazioni differiscono nei particolari, ma tutte hanno per tema comune la minaccia di morte che gli antiparassitari tengono sospesa sul capo degli animali selvatici. Tali sono le notizie che ci pervengono di centinaia di uccellini e di uccelli da caccia trovati morenti in Francia dopo trattamento dei vigneti con un erbicida a base di arsenico, o degli uccelli da caccia sterminati nel Belgio - un paese una volta famoso per la quantità di questi animali ed oggi ormai rimasto privo di essi a causa delle irrorazioni effettuate su vaste aree coltivate. In Inghilterra il problema più preoccupante viene posto dalla sempre più diffusa abitudine di sottoporre a trattamento insetticida le sementi prima della semina. Non è questa una cosa nuova; però, nel passato, gli agricoltori si limitavano all'impiego di sostanze fungicide che, a quanto pare, non avevano effetti dannosi sugli uccelli. A partire dal 1956 si è verificato un brusco mutamento, con l'adozione di un preparato composto dal vecchio erbicida e, in più, da aldrina, dieldrina o eptacloro nell'intento di conseguire un duplice obiettivo, e cioè di uccidere oltre ai funghi anche gli insetti del suolo. Da allora la situazione ha registrato un grave peggioramento. Nella primavera del 1960, gli enti preposti alla tutela degli animali selvatici - ed in particolare il British Trust for Ornithology, la Royal Society for the Protection of Birds e la Game Birds Association - cominciarono a ricevere una valanga di resoconti che segnalavano le perdite subìte qua e là dall'avifauna. "La nostra zona", scriveva un proprietario terriero del Norfolk, "è come un campo di battaglia. Il mio custode ha trovato sul terreno un numero enorme di animali morti e, tra essi, una grande quantità di uccellini: fringuelli, verdoni, fanelli, passere scopaiole e passeri... la distruzione di tante bestiole selvatiche incute un senso di desolazione". Un guardacaccia scrisse dal canto suo: "Le mie pernici sono state spazzate via per colpa degli erbicidi cosparsi sul grano da semina, ed anche molti fagiani ed altri uccelli, a centinaia, hanno perso la vita. Come vecchio sorvegliante di una riserva non trovo parole per descrivere questa amara esperienza. E' molto penoso vedere coppie di pernici unite in un abbraccio di morte". In una relazione comune il British Trust for Ornithology e la Royal Society for the Protection of Birds discussero 67 casi di morte di uccelli - cioè una piccola parte di quelli che si erano registrati nella primavera del 1960. Tra essi, cinquantanove dovevano essere considerati provocati dalle sementi che avevano subìto un trattamento erbicida, e gli otto rimanenti andavano attribuiti agli effetti delle irrorazioni tossiche effettuate dopo la semina. Una nuova ondata di avvelenamenti sopraggiunse l'anno seguente. Dello sterminio di 600 uccelli in un singolo appezzamento nel Norfolk si parlò diffusamente alla Camera dei Lords, e si apprese anche che 100 fagiani erano morti in una fattoria dell'Essex settentrionale. Apparve subito evidente che, in confronto al 1960, la distruzione si era abbattuta su un numero maggiore di contee (34, di fronte alle 23 dell'anno precedente). Il Lincolnshire - regione prevalentemente agricola - aveva riportato le perdite più cospicue: non meno di 10.000 uccelli, a quanto pare. Ma anche tutte le altre regioni agricole dell'Inghilterra erano rimaste gravemente danneggiate: da Angus nel nord, alla Cornovaglia nel sud; da Anglesey verso ovest al Norfolk verso est. Nella primavera del 1961 la situazione appariva tanto preoccupante che una speciale commissione parlamentare venne incaricata di compiere un'inchiesta attingendo le possibili testimonianze dai coltivatori, dai proprietari terrieri, dai funzionari del Ministero dell'Agricoltura, e dai dipendenti dei vari organismi (governativi e privati), interessati alla tutela della natura. "I colombi", disse uno degli interpellati, "si abbattono al suolo, fulminati durante il volo". Ed un altro testimone oculare aggiunse: "Potete spingervi per centocinquanta ed anche trecento chilometri fuori di Londra, ma non vedrete un solo gheppio." Alcuni funzionari del Nature Conservancy affermarono a loro volta: "Non si è mai visto niente di simile da cent'anni a questa parte o anche da prima, per quanto ne sappiamo; si tratta del maggior rischio che la selvaggina e l'attività venatoria del nostro paese abbiano mai corso". I mezzi a disposizione per le analisi chimiche da effettuare sugli uccelli morti apparvero subito inadeguati; in tutta l'Inghilterra si trovarono soltanto due specialisti adatti a tale compito (due chimici dipendenti rispettivamente dal Governo e dalla Royal Society for the Proctetion of Birds). Dalle testimonianze si apprese che i corpi degli uccelli, accatastati in grossi cumuli, venivano dati alle fiamme; vennero comunque fatti vari tentativi per ottenere almeno le carcasse da esaminare, e si vide così che tutti gli uccelli avevano subìto la contaminazione di residui tossici: unica eccezione, un beccaccino, cioè un volatile che non si nutre di semi. Insieme con l'avifauna, anche le volpi avevano subìto probabilmente perdite, forse indirettamente, per aver mangiato topi od uccelli avvelenati. L'Inghilterra, infestata da legioni di conigli selvatici, ha un gran bisogno di un animale da preda come la volpe; purtroppo almeno 1300 volpi vennero falcidiate dal novembre del 1959 all'aprile del 1960. Le perdite più gravi si ebbero nelle stesse zone che avevano registrato una totale scomparsa di sparvieri, gheppi ed altri uccelli predatori; e ciò indusse gli investigatori a ritenere che il veleno si fosse diffuso attraverso la catena alimentare, trasferendosi dagli uccelli granivori a quegli rapaci ed ai mammiferi carnivori. Il comportamento delle volpi moribonde mostrava i sintomi dell'avvelenamento da idrocarburi clorurati: esse giravano vorticosamente su se stesse, inebetite e quasi cieche, per cadere alla fine in preda a convulsioni e morire. Le notizie raccolte convinsero la commissione parlamentare che la vita degli animali selvatici stava correndo "un serio pericolo". Di conseguenza, venne fatto presente alla Camera dei Comuni che "il Ministero dell'Agricoltura ed il segretario di Stato per la Scozia avrebbero dovuto impegnarsi a proibire immediatamente l'uso, per il trattamento dei cereali da semina, dei composti contenenti la dieldrina, l'aldrina e l'eptacloro od altre sostanze chimiche di analoga tossicità". La commissione raccomandò pure un più accurato controllo per accertare che i disinfestanti impiegati fossero messi alla prova, sia in natura sia in laboratorio, prima di venire posti in vendita. Si tratta, val la pena di sottolinearlo, di una delle maggiori manchevolezze delle ricerche sugli insetticidi, manifestatasi in tutti i paesi. Nelle prove eseguite dagli industriali vengono usati solo animali di laboratorio - topi, cani e cavie - e non vi sono mai specie selvatiche né, di norma, uccelli o pesci; per di più, tutto si svolge in condizioni controllate e sperimentali. L'estensione di tali risultati alla vita in natura risulta perciò tutt'altro che precisa. Ma il problema di difendere gli uccelli dal pericolo delle sementi avvelenate non riguarda soltanto l'Inghilterra. Anche da noi, negli Stati Uniti, si è determinata una situazione del genere particolarmente là dove viene coltivato il riso, cioè nella California e negli stati del Sud. Per un certo numero di anni i coltivatori delle risaie californiane hanno trattato le sementi con il Ddt per proteggerle contro alcuni gamberetti che parassitizzano i girini degli Anfibi e contro certi coleotteri scafidiidi, che talvolta insidiano le pianticelle di riso. Gli sportivi della California hanno goduto di un'abbondante cacciagione nelle risaie ricche di uccelli d'acqua e di fagiani. Ma, nell'ultimo decennio, sono pervenute numerose segnalazioni dalle zone risicole che denunciano i gravi danni subìti dalle popolazioni di uccelli, e specialmente dai fagiani, dalle anitre e dai merli. La "malattia del fagiano" è diventato un fatto comune; gli uccelli che ne vengono colpiti, secondo quanto ci descrive un osservatore, "appaiono assetati, sono paralizzati, e si ritrovano ai margini delle risaie o nell'acqua dove continuano ad annaspare convulsamente". La "malattia" si manifesta di primavera, quando avvengono le seminagioni. Si noti che la concentrazione del Ddt impiegato per proteggere il riso da semina è molto più elevata di quella che basterebbe per uccidere un fagiano adulto. Con il passare degli anni e con lo sviluppo di insetticidi sempre più potenti, il pericolo è aumentato: l'aldrina, che ha sui fagiani una tossicità 100 volte superiore a quella del Ddt, viene oggi largamente usata per proteggere le sementi. Nelle risaie del Texas orientale questo trattamento ha provocato una grave riduzione numerica nelle popolazioni dell'arborea fulva - un volatile di color rossiccio che somiglia ad un'oca e vive nella zona del Golfo del Messico. E vi sono buone ragioni per supporre che i coltivatori di riso, con il proposito di sbarazzarsi dei merli che minacciavano le piantagioni, abbiano sostituito l'insetticida d'un tempo con un prodotto tossico ambivalente, senza preoccuparsi dei suoi disastrosi effetti su altri uccelli di risaia. La ricerca di veleni sempre più micidiali - stimolata dall'ormai diffuso costume di "sradicare" ogni creatura che ci dia fastidio o causi danno - aggrava incessantemente la situazione degli uccelli, che stanno diventando un bersaglio non soltanto accidentale, ma diretto, dell'aggressione chimica. Si nota, infatti, una crescente tendenza verso le irrorazioni di tossici mortali come il parathion, a mezzo di aeroplani, per "controllare" gli stormi particolarmente numerosi di uccelli sgraditi ai coltivatori. Il Fish and Wildlife Service ha ritenuto necessario lanciare un monito contro questo malcostume, sottolineando che le "aree trattate con il parathion costituiscono un pericolo per l'uomo e per gli animali domestici e selvatici". Nell'Indiana meridionale, per esempio, diversi agricoltori si accordarono, nell'estate del 1959, per affittare un aeroplano e irrorare così, dall'aria, quell'insetticida su terreni alluvionali. In quella località stanziavano migliaia di merli, soliti a procurarsi il nutrimento nei campi di granoturco attigui. Si sarebbe potuto scongiurare facilmente questa insidia con un semplice accorgimento, e cioè facendo ricorso ad un altro tipo di granoturco, le cui pannocchie ben protette possono resistere all'assalto degli uccelli; ma gli agricoltori avevano troppa fiducia nel potere letale del parathion e non si lasciarono distogliere dalla loro missione di morte. Forse essi, in seguito, si rallegrarono per i risultati raggiunti, poiché venne infatti accertata la morte di 65.000 tordi, sasselli e storni; né si sa con certezza quanti animali selvatici abbiano subìto conseguenze fatali. Il parathion non è un tossico specifico per i merli, ma uno sterminatore generico. Pertanto anche i conigli, i procioni e gli opossum stanziati in quella zona alluvionale - tutte bestiole che forse non avevano mai messo piede nelle piantagioni cerealicole - erano stati condannati a morte da un giudice e da giurati ignari e incuranti della loro esistenza. E cosa succede agli esseri umani? Nei frutteti della California, trattati con il famigerato parathion, diversi contadini, che stavano sfoltendo il fogliame di certe piante irrorate un mese prima, si accasciarono improvvisamente, in preda ad uno choc, e vennero strappati alla morte solo per merito di cure mediche particolarmente attente. A cosa vanno incontro i ragazzi dell'Indiana che si dispongono a compiere gite nei boschi e nei campi, ed inconsapevolmente potrebbero avventurarsi fino alle rive di quel fiume? Chi metterà in guardia la gente contro il pericolo in cui potrebbe incorrere penetrando nelle zone disinfestate nella vana ricerca di una natura ancora intatta? Chi resterà vigile e pronto ad avvertire il viandante che sta per addentrarsi in una terra avvelenata, dove ogni pianta è ricoperta da una pellicola mortale? Eppure, nonostante questo rischio spaventoso, gli agricoltori continuano nella loro scriteriata guerra contro i merli, senza che nessuno li fermi. Tutte queste considerazioni ci inducono a riflettere su un quesito: chi ha permesso che venisse messa in moto questa spirale di progressiva intossicazione, questa onda di morte che si allarga come le increspature prodotte dalla caduta di un sasso in uno specchio d'acqua? Chi ha messo su un piatto della bilancia le foglie che possono essere state mangiate dai coleotteri, e sull'altro un rattristante mucchietto di piume dai mille colori, tutto quello che rimane degli uccelli abbattuti indiscriminatamente dalla mazzata dei veleni insetticidi? Chi ha deciso - chi aveva il diritto di decidere - a nome delle innumerevoli schiere di persone che non vennero consultate, che la cosa più importante da farsi è quella di cancellare dalla faccia della terra gli insetti, anche se ciò comporterà l'avvento di un mondo sterile su cui non si alza più il volo di un solo uccello? Tale arbitrio denuncia la temporanea intrusione di un principio autoritario nell'esercizio del potere. Essa tradisce la buona fede di milioni di cittadini, per i quali la bellezza e l'ordine del mondo naturale hanno ancora un significato profondo ed inalienabile. Capitolo nono - Cause dirette ed indirette della morte dei pesci Dalle praterie sommerse degli abissi atlantici molti sentieri conducono verso la costa. Sono i sentieri percorsi dai pesci; anche se invisibili e non localizzabili, essi si allacciano al flusso delle acque immesse nel mare dalle foci dei fiumi. Da migliaia e migliaia di anni i salmoni conoscono e seguono questi filoni d'acqua dolce che li riportano verso i fiumi, ciascuno al torrentello dove ha trascorso i primi mesi o anni di vita. Perciò, anche nell'estate o nell'autunno del 1953, i salmoni del fiume Miramichi, che sfocia sulla costa del New Bruns -wick, si mossero dai pascoli del lontano Atlantico, risalendo lungo il fiume nativo. In quell'autunno essi deposero le uova sul letto ghiaioso di uno dei tanti ruscelli che, rapidi e gelidi, si gettano nell'alto corso del Miramichi e coprono l'intera zona con un pittoresco intreccio di acque e di vegetazione rigogliosa. In questa regione le raccolte d'acqua delle grandi foreste (abeti rossi, abeti del Canada e pini) costituiscono l'ambiente necessario perché il salmone possa deporre le proprie uova per la sopravvivenza della specie. E ciò avveniva da tempo immemorabile - un lasso di tempo che aveva fatto del Miramichi uno dei corsi d'acqua in cui si trovavano i salmoni più pregiati di tutta l'America del Nord. Ma quell'anno l'incanto doveva rompersi. Durante l'autunno e l'inverno le uova di salmone, grosse e protette da uno spesso guscio, giacciono in buche poco profonde piene di ghiaia, che la madre scava nel letto del corso d'acqua. Nel rigido inverno esse si sviluppano lentamente, come ha disposto la natura, e soltanto di primavera, quando il gelo si scioglie e i ruscelli delle foreste tornano a spumeggiare, cominciano a schiudersi. Dapprima i piccoli nati - sottili pesciolini lunghi poco più d'un centimetro - si nascondono tra i ciottoli e non vanno in cerca di cibo perché continuano a consumare l'abbondante sostanza nutritizia del sacco vitellino; poi, quando essa è esaurita, cominciano a nuotare nella corrente in cerca di piccoli insetti. Nella primavera del 1954 il Miramichi accoglieva, oltre a questi pesciolini, anche i salmoni nati un anno o due prima - giovani pesci dalle brillanti livree con strisce o chiazze d'un rosso lucente - che mangiavano voracemente i numerosi e disparati insetti trasportati dalla corrente. Con l'avvicinarsi dell'estate, tutto questo cambiò. Quell'anno il bacino nord-occidentale del fiume venne incluso in un vasto programma di disinfestazione che il Governo canadese aveva intrapreso l'anno prima per salvare le foreste dall'invasione della Tortricide Choristoneura fumiferana (un insetto indigeno che attacca parecchie specie di conifere e, a quanto pare, manifesta nel Canada periodi ciclici di diffusione, ogni 35 anni circa). All'inizio del 1950 questo parassita aveva dato i primi segni di reviviscenza; per combatterlo, venne iniziata una disinfestazione con Ddt, dapprima in piccola misura quindi, improvvisamente, nel 1952, con una intensità crescente. Milioni di ettari - e non le poche migliaia degli anni precedenti - vennero irrorati, con la speranza di salvare gli abeti del Canada che sono gli alberi più apprezzati per la produzione della cellulosa e per l'industria cartaria. Così, nel giugno del 1954, si videro volteggiare nel cielo di quella regione aeroplani che lasciavano, nella loro scia a zig-zag, bianche nuvole di polvere sedimentante. La sostanza irrorata, consistente in circa mezzo chilogrammo di Ddt per ettaro, diluito in una soluzione oleosa, filtrò attraverso il fogliame degli abeti, e parte di essa si depositò al suolo e nei corsi d'acqua. I piloti, preoccupati soltanto di portare a termine il loro compito, non cercarono di tenersi a distanza dai corsi d'acqua o di chiudere i beccucci dei nebulizzatori quando vi passavano sopra; del resto, l'irrorazione aerea si diffonde con tanta facilità, anche con la più leggera corrente d'aria, che, se pur l'avessero fatto, il risultato sarebbe stato ben poco differente. Subito dopo la disinfestazione, apparve chiaro che qualcosa non andava per il verso giusto: non erano passati che due giorni e già venivano trovati sul greto del Miramichi pesci morti o in fin di vita e, tra essi, molti giovani salmoni. Anche i Salvelinus fontinalis (1) avevano ricevuto un colpo mortale, e nei boschi e lungo le strade si vedevano numerosi uccelli morenti. Ma soprattutto la vita acquatica era ormai in agonia; prima che il Ddt venisse cosparso, essa appariva quanto mai rigogliosa, e costituiva un abbondante pascolo per i (1) Pesci della famiglia dei Salmonidi. ?N'd'T'* salmoni e le trote: larve di Tricotteri, che vivono entro larghi astucci di foglie e ramoscelli o cellette fatte di ghiaia tenuta insieme dalla saliva, ninfe di Plecotteri e larve vermiformi di Simulidi, attaccate ai massi di pietra in mezzo al vortice delle correnti, dalla parte meno esposta ad esse e dove le rocce ne frenano la violenza. Ma ora tutti questi insetti del fiume erano morti, falciati dal Ddt, ed i giovani salmoni non avevano più nulla con cui nutrirsi. In mezzo ad un tale quadro di sterminio e di desolazione era ben difficile che i salmoni trovassero il modo di salvarsi, ed infatti non lo trovarono. Nel mese d'agosto, nessuno dei giovani pesci nati sul fondo ghiaioso in primavera era sopravvissuto; quelli un po' più adulti, cioè nati un anno o due prima, non stavano molto meglio: per ogni sei pesci della generazione del 1953, che durante la nebulizzazione aerea avevano continuato a nuotare nel fiume, ne rimaneva in vita uno; tra i salmoni nati nel 1952, e quindi già in età di migrare, soltanto i due terzi, stavolta, avrebbero compiuto il loro viaggio verso l'oceano. Tutti questi fatti furono resi noti dal Fishery Research Board of Canada, che, dal 1950, stava svolgendo un'indagine sui salmoni del Miramichi nord-occidentale. Ogni anno i biologi di quell'istituto avevano fatto un censimento dei pesci che popolavano il fiume, registrando il numero dei salmoni adulti che risalivano la corrente per tornare a deporre le uova nel luogo d'origine, il numero di individui per ogni gruppo di età presente nel fiume e la popolazione normale dei salmoni e degli altri pesci che viveva in quel corso d'acqua. Grazie a questo quadro completo, redatto prima delle disinfestazioni, si poté quindi valutare, con una precisione raramente raggiunta in altri casi, il danno provocato dal Ddt. Questo controllo mostrò che le perdite non si limitavano ai pesci, ma coinvolgevano profonde alterazioni nei corsi d'acqua stessi. Le ripetute irrorazioni ne avevano alterato completamente l'ambiente e tutti gli insetti che servivano di nutrimento ai salmoni ed alle trote erano morti. Anche dopo una sola aspersione, infatti, è necessario lasciar passare molto tempo perché la maggior parte degli insetti si ristabilisca in numero sufficiente per soddisfare le esigenze alimentari dei salmoni - un tempo che si misura in anni e non in mesi. Le specie più piccole - Chironomidi e Simulidi - si ristabiliscono piuttosto in fretta, ma esse non servono che per salmoni piccoli, il novellame di solo pochi mesi. Quelle più grosse - come gli stadi larvali dei Tricotteri, dei Plecotteri e degli Efemeridi - dalle quali dipende l'alimentazione dei pesci nati da uno o due anni, non si ripristinano, invece, in così breve tempo. Anche nella stagione successiva a quella in cui è avvenuta l'irrorazione, un giovane salmone, allo stadio in cui la livrea si arricchisce di bande trasversali parallele, cercando cibo non troverebbe per il suo nutrimento che qualche esile Plecottero; non vi sarebbero, invece, Plecotteri più grossi, Efemeridi o Tricotteri. Nel tentativo di ovviare a questa precaria situazione, i canadesi hanno cercato di ripopolare l'alto Miramichi immettendovi larve di Tricotteri ed altri insetti; ma, naturalmente, anche questi trapianti sarebbero spazzati via dalle successive disinfestazioni. Frattanto le popolazioni di Choristoneura fumiferana, invece di diminuire - come si sperava - erano diventate refrattarie al Ddt; dal 1955 al 1957 le irrorazioni vennero quindi ripetute in molte zone del New Bruns -wick e di Quebec, in certe località perfino tre volte. Nel 1957 la superficie cosparsa con Ddt ammontava a circa 6 milioni di ettari. In seguito il trattamento subì, per prova, una battuta d'arresto ma, nel 1960 e 1961, venne ripreso a causa di una recrudescenza dell'infestazione. Per la verità, tutto induce a credere che gli insetticidi chimici impiegati contro quel parassita degli abeti siano soltanto un palliativo (tendente a salvare la pianta dalla morte, attraverso la perdita delle foglie per parecchi anni successivi); pertanto i gravi effetti secondari continueranno a farsi sentire fintantoché proseguiranno le irrorazioni. I funzionari forestali del Canada, su raccomandazione del Fisheries Research Board e nel tentativo di contenere le perdite di pesci, hanno ridotto la concentrazione del Ddt, portandola da mezzo chilo a poco più di 200 grammi per ettaro (negli Stati Uniti la norma è ancora oggi molto più elevata e letale: circa un chilogrammo per ettaro). Oggi, dopo una pluriennale constatazione degli effetti determinati dal trattamento chimico, la situazione canadese appare confusa, ma tale da offrire ben poche speranze a coloro che si dedicano alla pesca del salmone; tanto più che le disinfestazioni continuano. Tuttavia un singolare concorso di circostanze ha preservato le acque del Miramichi nord-occidentale dalla prevista distruzione: una vera costellazione di eventi che non potrebbe ripetersi di nuovo in un secolo. E' quindi importante comprendere cosa è avvenuto in quella zona remota e le ragioni che l'hanno provocato. Nel 1954, come abbiamo visto, il bacino superiore del fiume aveva subìto intense nebulizzazioni aeree; perciò, tranne una sottile lista di territorio irrorata nel 1956, era stato escluso dai successivi trattamenti chimici. Nell'autunno del 1954 un uragano tropicale influì decisamente sul destino dei salmoni: la coda del ciclone "Edna" che si stava spostando verso nord si abbatté sulle coste del New England e del Canada con piogge torrenziali che produssero piene tali da riversare in mare masse enormi di acqua dolce, facendo risaltare verso le sorgenti dei fiumi un numero insolito di salmoni. Perciò, quell'anno, nel letto ghiaioso dei fiumi, che i salmoni ricercano all'epoca della riproduzione, venne deposto un numero di uova eccezionalmente abbondante. I giovani salmoni che, nella primavera del 1955, schiusero nel Miramichi nord-occidentale, trovarono un ambiente particolarmente adatto per la loro sopravvivenza: sebbene il Ddt avesse distrutto, l'anno precedente, tutti gli insetti, le specie più piccole - quelle dei Chironomidi e dei Simulidi - si erano riprodotte in grande quantità. Esse costituiscono appunto il cibo normale dei piccoli salmoni, e quell'anno, dunque, il novellame poté nutrirsi a sazietà anche perché mancavano i concorrenti più anziani, uccisi durante la tremenda irrorazione del 1954. Di conseguenza i pesciolini del 1955 crebbero molto in fretta e furono quanto mai numerosi. Completato rapidamente il ciclo di sviluppo fluviale, essi fecero la loro prima migrazione nel mare e, nel 1959, molti tornarono in larghi banchi alle acque natie. Se i banchi di salmoni che risalgono il Miramichi nord-occidentale appaiono ancor oggi in buone condizioni, ciò è dovuto al fatto che la disinfestazione è stata compiuta durante un solo anno. I risultati di ripetute operazioni di irrorazione sono chiaramente visibili in altri corsi dello stesso bacino fluviale, dove preoccupanti diminuzioni si stanno verificando nelle popolazioni di salmoni; in tutti i corsi d'acqua disinfestati i giovani salmoni di qualsiasi dimensione sono scarsi: come riferiscono i biologi, le forme più giovani sono spesso "praticamente spazzate via". Nel corso principale del Miramichi, quello sud-occidentale, irrorato nel 1956 e nel 1957, la pesca compiuta nel 1959 non aveva dato da dieci anni risultati così deludenti: i pescatori si accorsero che, tra i salmoni di ritorno dal mare, scarseggiavano soprattutto quelli che avevano migrato per la prima volta (nelle reti di controllo collocate all'estuario del Miramichi il numero di questi giovani pesci, in confronto all'anno precedente, non superava il 25%); nel 1959, nell'intero bacino del Miramichi, i pesci scesi al mare per la prima volta erano stati soltanto 600.000, cioè meno di un terzo di quelli del triennio precedente. Di fronte a tale situazione appare chiaro che le sorti dell'industria ittica del New Brunswick dipendono dalla ricerca di un insetticida meno funesto del Ddt da cospargere sulle foreste. Ma la situazione del Canada orientale non si può considerare un caso unico, tranne forse per l'estensione di terreno forestale sottoposto alla disinfestazione e per l'abbondanza di elementi raccolti. Anche il Maine ha le sue foreste di abeti rossi e abeti canadesi ed i suoi problemi per il controllo dei parassiti. Anche il Maine ha le sue migrazioni di salmoni - ciò che resta delle prodigiose migrazioni di un tempo, e che si è potuto preservare grazie alla faticosa opera dei biologi e di coloro che sono addetti alla conservazione della natura, i quali hanno cercato con ogni mezzo di attenuare l'inquinamento delle acque provocato dagli scarichi dell'industria, e di eliminare l'inconveniente dei tronchi abbattuti e trasportati dalla corrente per lasciare ai salmoni almeno una parte del loro habitat naturale. Sebbene anche qui si sia dovuto dar battaglia all'onnipresente Choristoneura fumiferana le irrorazioni non hanno colpito grandi aree e non hanno, finora, compreso le zone di riproduzione; tuttavia ciò che è avvenuto ai pesci di fiume in una zona controllata dal Maine Department of Inland Fisheries and Game, è forse un presagio sinistro per il futuro. "Subito dopo la disinfestazione del 1958", si legge nella relazione del Maine Department, "un grande numero di catostomidi in fin di vita è stato notato nel Big Godelard Brook; questi pesci presentavano sintomi d'avvelenamento da Ddt: guizzavano qua e là, boccheggiavano in superficie e manifestavano tremiti e spasmi. Durante i primi cinque giorni successivi all'irrorazione chimica vennero trovati, in due grandi reti che sbarrano il fiume, 668 catostomidi morti. Catostomidi e "Vaironi" sono stati sterminati in notevole quantità anche nel Little Godelard Brook, nel Carry Brook, nell'Alder Brook e nel Blake Brook. Spesso abbiamo visto che i pesci galleggiavano passivamente diretti verso valle in un atteggiamento di estrema spossatezza, come se stessero per morire. Anche più di una settimana dopo la disinfestazione, sono state notate trote ormai cieche ed agonizzanti che si lasciavano trasportare dalla corrente. (Che il Ddt produca la cecità nei pesci viene confermato da più parti. Un biologo canadese, che indagò sugli effetti delle irrorazioni effettuate nel 1957 sul territorio settentrionale dell'Isola di Vancouver, riferì che giovani Salmo clarki (2) potevano essere catturati nell'acqua con le mani tanto si muovevano lentamente senza cercare alcuno scampo. Sottoposti ad esame si constatò che una pellicola bianca, opaca, ricopriva i loro occhi riducendo o annullando completamente la loro capacità di vedere. Ricerche di laboratorio effettuate per conto del Canadian Department of Fisheries appurarono che quasi tutti i pesci ?salmoni argentati* che non venivano uccisi da basse concentrazioni di Ddt ?3 p.p.m'* mostravano chiari segni di cecità con diffusa opacità del cristallino.) In tutte le regioni ricoperte da grandi foreste, i moderni metodi di controllo chimico sono una minaccia per i pesci dei corsi d'acqua che si (2) Una specie americana di salmoni. ?N'd'T'* snodano sotto gli alberi. Uno degli esempi più noti di ecatombe di pesci è quello che si registrò nel 1955 negli Stati Uniti, a causa d'una disinfestazione effettuata all'interno ed ai margini dello Yellowstone National Park. Nell'autunno di quell'anno venne trovata una tale quantità di pesci morti nelle acque del fiume Yellowstone che gli appassionati di pesca e l'ente interessato alla caccia ed alla pesca ne furono allarmati: il fiume appariva infetto per un tratto di quasi 150 chilometri; in soli 300 metri di greto si trovarono ben 600 pesci morti, tra cui un gran numero di trote, coregoni e catostomidi. Tutti gli insetti acquatici - il cibo naturale delle trote - erano scomparsi. Il personale del servizio forestale dichiarò in seguito di aver cosparso il Ddt nella misura di un chilogrammo per ettaro con la convinzione che si trattasse d'una dose "innocua". Ma i fatti si incaricarono di dimostrare l'assoluta mancanza di fondamento di quel giudizio. Il Montana Fish and Game Department e due enti federali (il Fish and Wildlife Service ed il Forest Service) iniziarono, nel 1956, un'indagine collegiale. Le irrorazioni effettuate in quell'anno sui territori del Montana riguardavano una superficie di 360.000 ettari; nel 1957 vennero disinfestati altri 320.000 ettari; non mancava, dunque, ai biologi, il terreno per svolgere la loro indagine. Dappertutto l'ala della morte si era distesa, con gli stessi caratteristici contrassegni: l'acuto odore del Ddt cosparso sulle foreste, la patina oleosa galleggiante sulla superficie dell'acqua, i pesci morti sui greti. Tutti i pesci presi, vivi o morti, sottoposti ad analisi di laboratorio, presentavano tracce di Ddt depositate nei loro tessuti. Come già era avvenuto nel Canada orientale, l'ecatombe subìta dagli insetti acquatici costituiva una delle più gravi conseguenze delle disinfestazioni. In numerose aree prese in esame, gli insetti e l'altra fauna di fondo si erano ridotti ad un decimo della popolazione normale, e questa, così essenziale per la sopravvivenza delle trote, una volta distrutta, impiegava molto tempo a ricostituirsi. Anche alla fine della seconda estate successiva alle irrorazioni, solo una piccola quantità di insetti acquatici si era ripristinata; ed un fiume, che prima abbondava di fauna bentonica, non ne aveva quasi più traccia. In questo corso d'acqua l'80% del pesce da lenza era stato sterminato. Non sempre i pesci intossicati dal Ddt muoiono immediatamente, anzi può accadere che la mortalità ritardata sia più estesa di quella subitanea e passi inosservata - come ebbero a constatare i biologi del Montana - perché si verifica quando la stagione della pesca è terminata. Nei corsi d'acqua ispezionati, molti decessi si erano verificati tra i pesci che deponevano le uova in autunno (trote, coregoni, ecc.). E ciò non sorprende, perché è appunto in un periodo di stress fisiologico che l'organismo - sia esso pesce o uomo - attinge energia dal grasso accumulato, esponendosi così all'intero effetto letale del Ddt che si trova in esso. Apparve dunque quanto mai chiaro che la disinfestazione compiuta con la dose di un chilogrammo di Ddt per ettaro rappresentava un pericolo micidiale per i pesci dei fiumi che attraversano le regioni ricoperte di foreste; inoltre la Choristoneura fumiferana, il temuto parassita degli abeti, non era stato debellato e diverse aree vennero designate per una ulteriore irrorazione. Il Montana Fish and Game Department espresse una forte opposizione ad ulteriori irrorazioni dicendo che "non era d'accordo sull'opportunità di compromettere le risorse della pesca sportiva per propositi di discutibile necessità e di dubbio successo"; tuttavia aggiungeva che avrebbe continuano a cooperare con il Forest Service "per cercare il modo di ridurre l'entità del pericolo". Ma potrà tale cooperazione proteggere la vita dei pesci? L'esperienza che ne ha fatto la Columbia Britannica dà un'ampia spiegazione in proposito. In quel paese una esplosione di Choristoneura fumiferana stava infestando vaste aree da diversi anni. Nel 1957 le autorità forestali, ritenendo che la perdita di fogliame per un'altra stagione avrebbe avuto conseguenze letali per un grande numero di alberi, decise di compiere un'operazione di disinfestazione. Dopo molte consultazioni con il Game Department - i cui dirigenti erano molto preoccupati per la sorte dei salmoni - la Forest Biology Division accettò di emendare il proprio programma con qualsiasi modifica (anche a costo di perdere in efficacia) per ridurre i rischi in cui incorrevano i pesci. Ma, nonostante queste precauzioni e gli sforzi sinceri che vennero apparentemente compiuti, in almeno quattro dei corsi d'acqua più importanti quasi il 100% dei salmoni rimase ucciso. Lungo il corso di un fiume, la generazione più giovane di un banco di 40.000 salmoni argentati subì un quasi totale annientamento; ed altrettanto capitò agli stadi giovani di molte migliaia di trote arcobaleno e di varie altre specie di trote. Il salmone argentato ha un ciclo vitale di tre anni, ed i singoli banchi sono composti quasi interamente di pesci della stessa generazione. Anche questo salmone, come le altre specie, ha un forte istinto che lo riporta sempre al corso d'acqua natio: non è, dunque, possibile un ripopolamento con individui provenienti da fiumi diversi. Ciò significa che, ogni tre anni, la popolazione di salmoni migranti in quel fiume sarà pressoché inesistente fino a quando non si provvederà con particolari accorgimenti (propagazioni artificiali od altri mezzi) a ripristinare le condizioni del passato. Eppure esiste il modo di risolvere il duplice problema di preservare le foreste e salvare anche i pesci. Ammettere che dobbiamo rassegnarci a vedere i nostri corsi d'acqua trasformati in fiumi della morte equivale a lasciarsi prendere dalla disperazione e dal disfattismo. Bisogna far un uso più saggio dei metodi oggi noti che si prestano ad una alternativa e dobbiamo impiegare la nostra ingegnosità e le nostre risorse per trovarne di nuovi. Siamo a conoscenza di molti casi in cui il parassitismo naturale ha mostrato maggiore efficacia che non le sostanze chimiche contro le infestazioni dei parassiti degli abeti. Tali forme di controllo naturale devono essere sfruttate fino in fondo. Esiste la possibilità di ricorrere ad irrorazioni di tossicità meno elevata o, ancor meglio, di servirsi dell'opera di microrganismi che provocano in quei Tortricidi l'insorgenza di gravi malattie senza nuocere all'intera orditura della vita forestale. Vedremo in seguito cosa sono alcune di queste innovazioni e cosa promettono: per ora ci basti sapere che il trattamento chimico degli insetti dannosi alle piante non è il solo né il migliore. Gli insetticidi possono essere nocivi per i pesci in tre modi: da una parte, come abbiamo visto, ai pesci che popolano i corsi d'acqua delle foreste settentrionali, ed il danno si limita quasi esclusivamente agli effetti del Ddt; da un'altra, invece, il danno è più vasto, dilagante e diffuso perché colpisce i più diversi tipi di pesci - persino trote, centrarchidi, Pomoxys annularis, (3) catostomidi, ecc. - che dimorano nelle acque, calme o fluttuanti, di molte regioni del nostro paese; questa volta è in causa quasi l'intera gamma dei disinfestanti sintetici impiegati oggi nell'agricoltura benché alcuni tra i più micidiali, come l'endrina, il toxafene, la dieldrina e l'eptacloro (3) Pesci eduli appartenenti alla famiglia dei Centrarchidi, tipica del continente americano, ma importata anche in Europa. Assomigliano come aspetto al pesce persico. ?N'd'T'* possano essere esclusi. Un terzo aspetto, infine, deve esser preso in considerazione, soprattutto in funzione di quanto presumiamo possa avvenire in futuro: gli studi su tale soggetto muovono oggi, infatti, i primi passi. I pesci di cui dobbiamo interessarci in tal caso sono quelli delle paludi salmastre, delle baie e degli estuari. Era inevitabile che l'impiego indiscriminato dei nuovi insetticidi organici portasse alla distruzione di tanti pesci. I pesci sono eccezionalmente sensibili all'azione degli idrocarburi clorurati che costituiscono il grosso dei moderni insetticidi. Ed allorché milioni di tonnellate di composti chimici velenosi vengono cosparsi sulla superficie della terra, una parte di essi trova inevitabilmente la strada per introdursi nell'incessante ciclo di acque che si svolge tra mare e terra. Segnalazioni di mortalità tra i pesci - talvolta con proporzioni disastrose - sono diventate ormai tanto frequenti che lo United States Public Health Service ha creato un ufficio apposito per raccoglierle quando giungono dai diversi stati come indice della polluzione delle acque. Si tratta dunque di un problema che interessa moltissime persone: circa 25 milioni di cittadini considerano la pesca come il loro svago preferito, ed altri 15 milioni sono pescatori perlomeno occasionali; essi spendono ogni anno tre miliardi di dollari per le licenze, le attrezzature, le imbarcazioni, l'equipaggiamento da campeggio, il carburante e l'alloggio. Non si può privarli di questo loro sport senza recare, al tempo stesso, un serio danno ad una fitta rete di interessi economici. Quanto poi all'industria della pesca non si deve soltanto parlare dell'aspetto precipuamente economico, ma anche della sua grande importanza come fonte alimentare di prim'ordine. La pesca nelle acque interne e sulla costa (esclusa quella d'alto mare) dà un gettito di quasi un milione e mezzo di tonnellate di pesci all'anno. Pertanto, come vedremo, l'avvelenamento dei corsi d'acqua, degli stagni, dei fiumi e delle insenature costiere da parte degli antiparassitari costituisce una gravissima insidia per la pesca sportiva e commerciale. Dappertutto il trattamento chimico delle colture agricole con il metodo dell'irrorazione o della polverizzazione ha comportato notevoli distruzioni di pesci. In California, per esempio, un tentativo di disinfestazione delle tineidi del riso con la dieldrina ha provocato la perdita di circa 60.000 pesci da lenza, per la maggior parte Lepomis macrochirus (4) ed altri centrarchidi. Nella Louisiana 30 diversi casi di estesa mortalità di pesci si sono registrati in un solo anno (1960) per l'impiego di dieldrina nelle piantagioni di canna da zucchero. In Pennsylvania i pesci sono (4) Vedi nota 3. stati uccisi in gran quantità dall'endrina usata nei frutteti per combattere i topi. Il clordano cosparso contro le locuste è responsabile della morte di molti pesci nei corsi d'acqua degli altopiani occidentali. Forse nessuna campagna antiparassitaria è stata condotta su scala così vasta come quella realizzata mediante irrorazione e polverizzazione su milioni di ettari di superficie nel sud degli Stati Uniti per sterminare la "formica di fuoco". L'eptacloro, che vi è stato prevalentemente impiegato, possiede una tossicità per i pesci di poco inferiore a quella del Ddt; quanto alla dieldrina, anch'essa usata contro tali formiche, possediamo una ben documentata storia dei suoi micidiali effetti su tutta la vita acquatica (soltanto l'endrina ed il toxafene costituiscono un pericolo ancor maggiore per i pesci). Da tutti i territori sottoposti alla disinfestazione contro le formiche e trattati con eptacloro o con dieldrina sono giunte segnalazioni di disastrosi effetti sulla vita acquatica. Bastano pochi stralci per dare un'idea dei danni accertati dai biologi. Le notizie pervenute dal Texas parlano di "alte perdite di organismi acquatici nonostante gli sforzi prodigati per difendere i canali", o di "pesci morti... presenti in tutte le acque del territorio irrorato", o ancora di "mortalità elevata e continuata per più di tre settimane". Dall'Alabama si è appreso che "?nella contea di Wilcox* molti pesci adulti avevano subìto un vero sterminio pochi giorni dopo il trattamento", e che "i pesci nelle raccolte d'acqua temporanee e negli affluenti minori erano rimasti completamente annientati". Dalla Louisiana gli agricoltori segnalarono gravi perdite negli stagni delle loro fattorie; in un canale, per un tratto inferiore ai 400 metri, furono visti 500 pesci morti galleggiare o in secca sugli argini. In un altro distretto gli osservatori constatarono che per ogni 4 centrarchidi sopravvissuti, ve n'erano 150 morti; altre cinque specie erano state totalmente distrutte. In Florida si vide che i pesci di stagni situati in una zona disinfestata contenevano residui di eptacloro e di un suo derivato, l'eptacloro epossido; si trattava, per lo più, di centrarchidi e di persico trote, due bottini ambiti che compaiono spesso sulla tavola dei pescatori dilettanti. Le sostanze tossiche depositate nei loro tessuti vengono considerate tra quelle troppo pericolose per uso umano, anche in quantità minime, dalla Food and Drug Administration. Tanto numerosa appariva la casistica sulla morte dei pesci, delle rane e di altri animali acquatici che la American Society of Ichtyologists and Herpetologists - autorevole organizzazione scientifica per lo studio dei Pesci, dei Rettili e degli Anfibi - inoltrò al Department of Agriculture ed agli enti dei singoli stati associati ad esso la richiesta di "cessare le irrorazioni di eptacloro, dieldrina o di altri tossici equivalenti, per evitare danni irreparabili". La società richiamava l'attenzione sulla grande varietà di pesci e di altri esseri viventi che popolavano la parte sud-orientale degli Stati Uniti, e che comprendevano certe specie introvabili in ogni altra parte del mondo. "Molti di essi", precisava, "occupano un territorio piuttosto ristretto; perciò possono venir facilmente sterminati". Anche gli insetticidi cosparsi sulle piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti hanno arrecato grave danno ai pesci. Particolarmente disastrosa apparve nell'Alabama settentrionale l'estate del 1950: prima di allora gli insetticidi organici avevano avuto scarso impiego nel trattamento contro l'Anthonomus grandis (5) ma in quell'anno si manifestò un'enorme abbondanza di tali insetti dovuta al susseguirsi di alcuni inverni (5) Coleottero Curculionide dannoso al cotone. ?N'd'T'* eccezionalmente miti. Perciò, su consiglio degli enti locali, un gran numero di coltivatori (dall'80% al 95%) decisero di ricorrere agli insetticidi e quello che diventò di uso più comune fu il toxafene, uno dei più velenosi per i pesci. Quell'estate le piogge furono frequenti e copiose. Esse dilavarono gli insetticidi dal terreno, riversandoli nei corsi d'acqua, e gli agricoltori furono così costretti a ripetere le loro operazioni. In media un ettaro di terreno coltivato a cotone ricevette quell'anno 63 chili di toxafene, ma alcuni agricoltori ne usarono persino duecento per ettaro; un contadino, per eccesso di zelo, applicò più di 500 chili per ettaro. Si può facilmente prevedere cosa sia successo. Quanto avvenne nel Flint Creek che scorre per oltre 80 chilometri tra le piantagioni di cotone dell'Alabama prima di gettarsi nello Wheeler Reservoir, va considerato come un esempio tipico. Il primo agosto, in quel bacino fluviale, si abbatté una pioggia torrenziale: ruscelletti, fiumiciattoli, e via via fiotti sempre più grossi d'acqua dilagarono per il terreno per poi gettarsi nel Flint Creek; in breve tempo il livello del fiume salì di una quindicina di centimetri. Già il mattino successivo apparve chiaro che non vi era affluita soltanto l'acqua piovana: si vedevano i pesci nuotare alla superficie tracciando circoli oziosi, talvolta qualcuno cercava di spiccare un salto in direzione della riva. Era molto facile catturarli: un agricoltore ne prese diversi e li mise in un fontanile; in quell'acqua pura essi si ristabilirono prontamente. Frattanto i pesci del fiume venivano trasportati a valle, rimanendo permanentemente a galla. E questo non fu che il preludio, giacché dopo ogni pioggia una dose ulteriore di insetticida si riversava nel corso d'acqua ed un numero crescente di pesci ne rimaneva intossicato. L'acquazzone del 10 agosto provocò uno sterminio quasi totale tra i pesci, cosicché ben pochi ne restarono a disposizione del successivo riversamento tossico che avvenne il 15 agosto. Ma la maggior prova della presenza funesta degli insetticidi si ottenne ponendo nel fiume alcune gabbiette contenenti pesciolini rossi presi come test: essi morirono nello spazio di un giorno. Tra i pesci uccisi nel Flint Greek vi erano numerosi Pomoxys annularis, tanto apprezzati dai pescatori. E furono trovati anche molti persico trote e centrarchidi - pesci particolarmente abbondanti nello Wheeler Reservoir, che riceve l'acqua del fiume contaminato. Anche tutti i pesci più ordinari che popolavano quell'acqua furono uccisi: carpe, Ictiobus, (6) Aplodinotus grunniens, (7) Dorosoma cepedianum (8) e pesci gatto. Nessuno di essi mostrava alcun segno di malattia, ma solo una singolare colorazione rosso cupo delle branchie e movimenti quanto mai irregolari, tipici dell'agonia. Negli stagni delle fattorie che si trovano in prossimità delle zone disinfestate con insetticidi, le acque (6) Grossi pesci commestibili della famiglia dei Catostomodi, comuni della valle del Mississippi. ?N'd'T'* (7) Pesce edule della famiglia degli Scienidi. Benché la famiglia sia tipica di acque marine costiere, molti suoi componenti, tra cui l'Aplodinotus, risalgono le acque interne e vi si stabiliscono. Gli Scienidi sono detti "borbottoni" per il verso che emettono nuotando e che assomiglia al gracidare di una rana. ?N'd'T'* (8) Pesce d'acqua dolce nordamericano, appartenente alla famiglia dei Clupeidi, tra i quali si annoverano numerosi altri pesci eduli: le alose, le aringhe, gli spratti e le sardine. ?'Nd'T'* tiepide ed immote appaiono altrettanto letali. Come dimostrano molti esempi, il veleno vi è introdotto sia dall'acqua piovana che dilava il terreno, sia mediante i canali di drenaggio delle campagne circostanti. Gli stagni talvolta possono essere anche contaminati per via diretta, poiché i piloti degli aerei che compiono le polverizzazioni non si preoccupano di chiudere provvisoriamente i distributori durante il sorvolo. Ma, anche senza questa dose aggiuntiva, i pesci ricevono ugualmente, dalla normale disinfestazione agricola, una concentrazione tossica molto superiore a quella letale; in altre parole, non sarebbe sufficiente neppure una forte riduzione del quantitativo di disinfestante per salvare la vita dei pesci, dato che dosi superiori ai cento grammi per ettaro possono già essere considerate pericolose. Per di più, l'acqua contaminata dal veleno se ne libera difficilmente: uno stagno cosparso di Ddt per distruggere alcuni Rhinichtys (9) nocivi, rimase così avvelenato che, anche dopo molteplici prosciugamenti e riempimenti, fu letale al 94% dei centrarchidi immessivi in seguito. Evidentemente l'insetticida si era depositato nella fanghiglia del fondo. Oggi la situazione non è certamente migliore di quella esistente quando l'uso dei moderni insetticidi cominciò a diffondersi. L'Oklahoma Wildlife Conservation Department comunicò, nel 1961, che le segnalazioni relative alle perdite di pesci negli stagni delle fattorie e nei laghetti si succedevano con il ritmo di almeno una per settimana, e che anzi negli ultimi tempi erano diventate più frequenti. (9) Pesci d'acqua dolce americani della famiglia dei Ciprinidi, cui appartengono anche le carpe, i pesci rossi, le scardole. ?N'd'T'* Tutti ormai, nell'Oklahoma, conoscevano le cause di questa situazione che durava ormai da un pezzo: gli insetticidi cosparsi sulle coltivazioni, la forte piovosità ed il veleno che veniva dilavato e convogliato negli stagni. In molte parti del mondo l'allevamento dei pesci nei vivai costituisce un'indispensabile risorsa alimentare, e perciò l'uso indiscriminato dei disinfestanti vi crea problemi che richiedono un'immediata soluzione. In Rhodesia, per esempio, giovani abramidi di Kafue - pesci di largo consumo - viventi in raccolte d'acqua bassa, decedettero di fronte ad una dose irrilevante di Ddt (0,04 p.p.m.); ed anche concentrazioni ancor più trascurabili di altri insetticidi avrebbero avuto conseguenze mortali. Le acque poco profonde preferite da questi pesci sono anche un habitat adatto per la riproduzione delle zanzare. Pertanto il duplice obiettivo del controllo antimalarico e della conservazione del patrimonio ittico, tanto importante per l'alimentazione di quelle popolazioni dell'Africa centrale non è stato ancora raggiunto in maniera soddisfacente. L'allevamento dei Chanus (10) nelle Filippine, in Cina, nel Vietnam, in Tailandia e in Indonesia deve far fronte alle stesse difficoltà: questi pesci vengono allevati in stagni poco profondi che si trovano lungo le coste di tutti quei paesi. Banchi di (10) Pesci tipici della zona dell'Indo Pacifico, di famiglia affine a quella delle aringhe. ?N'd'T'* pesciolini (che non si sa donde provengano) arrivano d'improvviso nelle vicinanze delle coste, vengono raccolti e messi nelle acque stagnanti dove completano il loro sviluppo. Questi pesci sono così importanti come fonte di proteine animali nell'alimentazione, basata prevalentemente sul riso, dei popoli dell'Asia sud-orientale e dell'India, che il Pacific Science Congress ha promosso una campagna internazionale per la ricerca delle zone oceaniche finora ignote in cui avviene la riproduzione dei Chanos, onde poter sviluppare un allevamento intensivo in questo senso. Ma, se questi sono i propositi, la realtà è che le disinfestazioni stanno arrecando enormi danni ai vivai oggi esistenti. Nelle Filippine, le irrorazioni aeree contro le zanzare sono costate care ai proprietari degli stagni; in un vivaio popolato da 120.000 Chanos, più della metà fu sterminata da un trattamento insetticida aereo, nonostante gli sforzi disperati del proprietario di diluire il tossico immettendo nel bacino acqua non contaminata. Una delle più disastrose distruzioni di pesci degli ultimi anni è avvenuta nel 1961 nel fiume Colorado, a valle di Austin, nel Texas. Una domenica mattina, il 15 gennaio di quell'anno, con le prime luci dell'alba, alcuni pesci morti apparvero nel Town Lake, un nuovo laghetto artificiale costruito nella cittadina di Austin, e nell'emissario, per un tratto di 8 chilometri. Nessun pesce morto era stato visto invece il giorno prima; il lunedì successivo lo stesso spettacolo di desolazione e di morte si poteva osservare anche ad una distanza di 80 chilometri a valle di quel punto: ci si rese conto dunque, in quel momento, che un'ondata di qualche sostanza tossica stava avanzando lungo il fiume. Infatti, il 21 gennaio, l'ondata mortale aveva raggiunto La Grange, 160 chilometri più a sud, ed una settimana più tardi i tossici stavano già operando 320 chilometri a valle di Austin. Alla fine di gennaio le chiuse dell'Intracoastal Waterway vennero sbarrate per impedire l'afflusso delle acque contaminate nella baia di Matagorda e dirottarle verso il Golfo del Messico. Nel frattempo, esperti preposti alle indagini avevano notato nell'aria di Austin un odore simile a quello degli insetticidi clordano e toxafene, particolarmente acuto nello scarico di uno degli sfioratori di cui si era già parlato, tempo addietro, in relazione a guai provocati da scarichi industriali. Gli addetti della Texas Game and Fish Commission, seguendone a ritroso il corso a partire dal lago, percepirono un odore simile a quello dell'esacloruro di benzene, in corrispondenza di tutti i tombini, finché arrivarono ad una conduttura di raccordo proveniente da uno stabilimento chimico. I principali prodotti della fabbrica erano Ddt, esacloruro di benzene, clordano, toxafene e, in quantità minore, anche altri insetticidi. Il direttore dello stabilimento ammise che, di recente, quantità di insetticidi in polvere erano stati scaricati in quello scolo e per di più, riconobbe che l'eliminazione degli insetticidi in eccesso o dei residui della loro fabbricazione durava già da un decennio. Gli ufficiali di controllo, durante le successive indagini, trovarono altri stabilimenti industriali, i cui insetticidi venivano riversati in notevoli quantitativi dalle piogge o anche semplicemente dalle acque di lavaggio nella conduttura di quello sfioratore. Finalmente si scoprì l'ultimo anello della catena di indagini: pochi giorni prima che le acque del lago e del fiume diventassero mortali per i pesci, l'intero sistema delle condutture di scarico era stato lavato da milioni di ettolitri d'acqua ad alta pressione per rimuovere le scorie depositate sul fondo; questo lavaggio aveva certamente messo in libertà gli insetticidi accumulatisi tra la ghiaia, la sabbia ed il pietrisco, convogliandoli verso il lago e quindi nel fiume, dove in seguito gli esami chimici ne avrebbero accertata la presenza. Il flusso avvelenato man mano che scendeva lungo il Colorado era causa di morte. La distruzione dei pesci in un tratto di fiume lungo più di 200 chilometri a valle del lago deve essere stata pressoché totale poiché, quando le scorticarie vennero calate in acqua per vedere se qualche pesce era sfuggito al disastro, furono ritirate completamente vuote. Circa cinque quintali di pesci, appartenenti a 27 specie diverse, vennero trovati sul greto nel breve spazio di un chilometro e mezzo. Si trattava, per lo più, di Ictalurus, i principali pesci da lenza di quel fiume, di magnaroni, centrarchidi, leucischi, persico trote, carpe, muggini e catostomidi. Si notavano inoltre anguille, carpe ed altri pesci comuni in quelle acque. (11) Tra essi erano alcuni "patriarchi del fiume" - pesci che, a giudicare dalle dimensioni, dovevano essere vecchissimi: numerosi Pylodictis olivaris del peso di oltre 12 chilogrammi (alcuni di 30 chilogrammi vennero trovati lungo il fiume dagli abitanti della zona). Venne segnalato anche un pesce gatto azzurro (12) gigante che, secondo le notizie ufficiali, pesava la bellezza di 40 chilogrammi. La Game and Fish Commission predisse che, anche senza ulteriori contaminazioni, sarebbero dovuti passare molti anni prima che il quadro della ittiofauna in quel fiume potesse ristabilirsi. Alcune specie - quelle (11) Letalurus furcatos, Pylodictis olivaris, Notropis, Gatostomus nigricans, Gampostoma anomalum, Lepidosteus, Carpiodes carpio, Dorosoma cepedianum e Ictiobus. ?N'd'T'* (12) Ictalurus furcatus. ?N'd'T'* che vivevano ai limiti del loro ambito naturale - dovevano considerarsi ormai perdute per sempre e le altre avrebbero potuto essere reintegrate solo attraverso una larga opera di ripopolamento da parte di quello stato. Tutto ciò riguarda il ben noto avvelenamento di pesci avvenuto nella zona di Austin, ma vi furono quasi sicuramente altre conseguenze: le acque intossicate del fiume apparivano portatrici di morte anche dopo 300 chilometri di percorso e furono quindi dirottate verso il Golfo del Messico, mare aperto, poiché vennero giudicate troppo pericolose per riversarsi nella Baia di Matagorda ricca di vivai di ostriche e di gamberetti. Ma quali furono gli effetti sui pesci che vivevano nel Golfo del Messico? E quali le conseguenze che continueranno ad avere le scorie tossiche, forse ugualmente letali, trasportate dal corso di tanti altri fiumi? Una risposta a questi interrogativi può essere, per ora, soltanto una congettura, ma vi è un crescente interesse per il ruolo che le polluzioni da insetticidi hanno sulla vita degli estuari, delle paludi salmastre, delle baie e di tutte le altre acque costiere. E queste aree non ricevono soltanto gli scarichi tossici dei fiumi; ma vengono anche irrorate direttamente per reprimere le infestazioni di zanzare o di altri insetti. Le conseguenze delle disinfestazioni sulla vita delle paludi salmastre, delle foci fluviali e delle insenature marine non sono mai state dimostrate in maniera così viva come nell'amara esperienza che ne ha fatto la zona costiera della Florida orientale, dove scorre l'Indian River. Una parte di quel territorio, e precisamente un migliaio di ettari di paludi salmastre nella contea di St. Lucie, subì, nella primavera del 1955, un trattamento a base di dieldrina per la distruzione delle larve di simulidi, con una dose di un chilogrammo di ingrediente attivo per ettaro. L'effetto sulla vita acquatica fu catastrofico. Gli specialisti dell'Entomology Research Center dello State Board of Health, effettuando un sopralluogo dopo la strage, affermarono che la distruzione della fauna ittica appariva "effettivamente completa". Dappertutto il greto era coperto di pesci morti; dall'alto era possibile vedere i pescicani che dal mare si portavano nelle acque interne attratti da quei pesci ormai inermi e moribondi. Nessuna specie venne risparmiata: né muggini, né mojarras, né gambusie. La distruzione totale dei pesci nelle paludi, situate esclusivamente lungo il percorso dell'Indian River, ammontava come minimo a 20-30 tonnellate per un totale di 1.175.000 capi appartenenti ad almeno 30 specie diverse ?dati forniti da R.W. Harring -ton jr. e da W.L. Bidlingmayer del servizio di controllo*. Soltanto i molluschi avevano resistito alla dieldrina, mentre i crostacei dell'intera zona erano stati virtualmente annientati. L'intera popolazione acquatica dei granchi appariva sterminata; e quelli del genere Gelasimus, quasi annientati, sopravvissero, ma per poco, solo in piccole aree risparmiate dalla polvere insetticida. La morte aveva colpito prima di tutto la maggior parte dei pesci da lenza e da rete. I granchi si erano allora avventati sui moribondi e li avevano fatti fuori, ma il giorno dopo anch'essi avevano subìto la stessa sorte. Le chiocciole, frattanto, con altri polmonati acquatici, continuavano a divorare le carcasse dei pesci: dopo due settimane non restava più alcuna traccia dell'ecatombe. Un quadro non meno malinconico venne dipinto dal dott. Mills in base ad osservazioni compiute nella Tampa Bay, sulla costa occidentale della Florida, dove la National Audubon Society ha eretto una riserva destinata agli uccelli marini, nell'area comprendente lo Whiskey e lo Stump Key. Per ironia del destino, tale riserva ebbe ben poco da "riservare" ai volatili, all'indomani di una campagna antimalarica intrapresa dalle autorità sanitarie locali per l'eliminazione delle zanzare che infestavano quelle paludi salate. Ancora una volta i pesci ed i granchi ne furono le principali vittime. I Gelasimus - questi piccoli e caratteristici crostacei che pascolano a fitte schiere sulle spiagge fangose o sabbiose come fanno le mandrie nelle praterie - non hanno alcuna difesa contro gli insetticidi. Dopo una serie di disinfestazioni che si protrasse per tutta l'estate e l'autunno (qualche località ricevette il trattamento perfino 16 volte), la situazione venne così descritta dal dott. Mills: "In quel tempo si fece sempre più evidente la progressiva scomparsa dei granchi. Dove, in quelle condizioni di tempo ?12 ottobre* e di marea, se ne sarebbero dovuti trovare circa 100.000 non ne ho visti che un centinaio dispersi su un lungo tratto di spiaggia, ed essi erano tutti morti o in cattive condizioni, in preda a tremiti e a contrazioni spasmodiche, ormai incapaci di camminare e di nuotare; invece nelle località circonvicine, non sottoposte a disinfestazioni, essi non avevano subìto alcuna perdita". Nel mondo in cui vive, il granchio adempie ad una funzione ecologicamente necessaria, e non può essere facilmente sostituito. Esso costituisce, infatti, un'importante fonte di nutrimento per molti animali e, in particolare, per i procioni che vivono nelle fasce litoranee, per gli uccelli di palude (quale il porciglione), per quelli delle spiagge, nonché, occasionalmente, anche per quelli di mare. In una palude salmastra del New Jersey, cosparsa di Ddt, la normale popolazione dei gabbiani comuni diminuì per parecchie settimane, dell'85%, probabilmente perché, dopo l'irrorazione, il cibo era venuto a scarseggiare. I Gelasimus delle paludi sono utili anche perché, nello scavarsi il proprio asilo, perforano il terreno fangoso e determinano una provvidenziale aereazione; forniscono, inoltre, un'eccellente esca per l'amo dei pescatori. Il Gelasimus non è il solo abitante delle paludi salate e degli estuari ad essere minacciato dagli insetticidi: su altri, ancor più importanti per l'uomo, pende la spada di Damocle. Il Callinectes hastatus, il granchio azzurro della baia di Chesapeake e di varie località del litorale atlantico, ne è un esempio: esso soggiace tanto facilmente all'azione degli insetticidi che, dopo ogni trattamento chimico delle paludi, delle insenature, dei canali e degli stagni lambiti dalla risacca, viene sterminato quasi del tutto. E non muoiono soltanto gli individui della zona: anche quelli che giungono dal mare soccombono dinanzi al veleno persistente. Non parliamo dei casi di contaminazione indiretta, come si poté constatare nelle paludi vicine all'Indian River, dove granchi saprofagi si avventarono sui pesci moribondi, morendo essi stessi ben presto. Meno noto è il rischio in cui incorre l'aragosta; però, siccome essa appartiene allo stesso gruppo di artropodi e ha le medesime caratteristiche fisiologiche del Callinectes hastatus, le sostanze tossiche provocano, con ogni probabilità, effetti analoghi. Ed altrettanto può dirsi della Menippe mercenaria e di altri crostacei che vengono destinati in grande quantità all'alimentazione umana. Le acque costiere interne - baie, stretti, estuari di fiumi e paludi prodotte durante l'alta marea - costituiscono un insieme ecologico della massima importanza. Esse sono così intimamente e necessariamente connesse con la vita di molte specie di pesci, molluschi e crostacei che, se diventassero ad un certo momento inabitabili, ricche fonti di cibo scomparirebbero dalla nostra tavola. Anche molti pesci che hanno un'ampia distribuzione nelle acque costiere dipendono da queste aree interne per lo sviluppo e per la nutrizione dei loro piccoli. I giovanissimi tarponi atlantici abbondano nel labirinto di corsi d'acqua e canali fiancheggiati di mangrovie che copre il tratto inferiore, un terzo circa, della costa occidentale della Florida. Sul litorale atlantico la trota di mare, l'ombrina, il salmone rosso e gli scienidi depongono le uova sul bassofondo sabbioso degli stretti che separano gli isolotti (o "banchi") situati, come una specie di cordone protettivo, al largo di buona parte della costa a sud di New York. Appena le uova si schiudono, i pesciolini vengono trascinati in mare dalle maree; nelle baie e nelle insenature (in quelle di Currituck, Pamlico, Bogue e molte altre) essi trovano un cibo abbondante e si sviluppano rapidamente. Senza tali acque calde, calme e ricche di cibo, queste e molte altre specie non potrebbero sopravvivere. Eppure noi continuiamo a contaminarle con gli insetticidi sia direttamente, quando disinfestiamo le paludi salmastre sulla costa, sia indirettamente, attraverso i fiumi che vi sfociano con il loro flusso di sostanze velenose. (Va osservato, inoltre, che i primi stadi di vita di questi pesci, ancor più degli adulti, vanno soggetti all'azione diretta dei tossici.) Un altro crostaceo - il gamberetto - dipende pure da aree interne per la nutrizione dei propri piccoli. Una specie abbondante e molto diffusa sostiene l'intera industria della pesca dell'Atlantico meridionale e degli stati del Golfo. Sebbene la deposizione delle uova avvenga in pieno oceano, i piccoli raggiungono gli estuari e le baie poche settimane dopo la nascita ed è là che il loro corpo subisce varie mute e metamorfosi. Qui essi rimangono dal maggio o giugno fino all'autunno, nutrendosi con i detriti del fondale. Durante questo periodo il benessere dei gamberetti e la prosperità del commercio che essi alimentano sono strettamente legati alle condizioni favorevoli degli estuari. Dobbiamo considerare gli insetticidi una minaccia per questi crostacei e per il nostro mercato? La risposta ci viene data da una recente ricerca compiuta dal Bureau of Commercial Fisheries. Si è constatato che la tollerabilità all'insetticida appare incredibilmente irrisoria nei gamberetti che hanno appena superato lo stadio larvale - tanto da costringere i ricercatori a misurarla in p.p.b. (cioè in parti per miliardo) anziché, come si fa di solito, in p.p.m'. Per esempio, metà dei gamberetti impiegati in un esperimento morì sotto l'azione d'una dose di dieldrina pari a 15 p.p.b'; ed altre sostanze chimiche mostrarono una tossicità ancora maggiore. L'endrina - insetticida sempre eccezionalmente micidiale - somministrata a questi stessi animali con una concentrazione di 0,5 p.p.b. ne uccise la metà. Anche per le ostriche, per le Mya arenaria (13) o per la Venus mercenaria, (14) la minaccia è grave, specialmente durante i primi stadi di vita. Questi molluschi popolano i fondali delle baie, delle insenature e dei fiordi alimentati dalla marea, che si trovano sulla costa atlantica dal (13) Molluschi bivalvi, tipici di mari freddi, dove vivono sui fondali fangosi. ?N'd'T'* (14) Vedi nota 13. New England al Texas, e le aree protette dell'Oceano Pacifico. Sebbene diventino sedentari nell'età adulta, essi depongono le loro uova in mare aperto, dove i piccoli vivono liberamente per un periodo di molte settimane. D'estate, usando una fitta rete a strascico rimorchiata da una barca, è facilissimo raccogliere assieme ad altre piante ed animali galleggianti che formano il plancton le larve infinitamente piccole, fragili come vetro, delle ostriche e degli altri lamellibranchi. Queste larve trasparenti, non più grosse d'un granello di polvere, nuotano nelle acque superficiali e si nutrono dei microscopici componenti il fitoplancton: se tale impalpabile vegetazione marina venisse a mancare, esse non potrebbero più sopravvivere. Ebbene, si dà appunto il caso che i disinfestanti distruggano una buona parte di questo loro essenziale alimento: parecchi erbicidi di comune impiego nei prati e nei campi coltivati, oltre che nelle paludi costiere, sono infatti, straordinariamente tossici per il fitoplancton che serve di nutrimento alle larve dei molluschi, spesso in concentrazioni di solo qualche p.p.m'. Le stesse delicate larve, inoltre, non resistono a dosi anche minime di molti tra i comuni insetticidi. L'esposizione a concentrazioni inferiori a quelle letali può essa pure, a lungo andare, provocare la loro morte, perché inevitabilmente la velocità di accrescimento viene rallentata e, perciò, viene protratto il periodo della loro permanenza in mezzo ai pericoli cui soggiace il plancton: diminuiscono così le probabilità di sopravvivenza fino allo stadio adulto. Per i molluschi adulti, vi è apparentemente un minor pericolo di avvelenamento diretto, perlomeno per alcuni disinfestanti. Tuttavia ciò non rassicura perché le ostriche e gli altri lamellibranchi possono concentrare il tossico nei loro organi digerenti e negli altri tessuti; e tutti questi molluschi vengono di solito mangiati per intero e crudi. Il dott. Butler del Bureau of Commercial Fisheries ha tracciato, a questo proposito, un sinistro parallelo tra la situazione in cui veniamo a trovarci noi e quella dei pettirossi, che - come egli ricorda - non morirono per l'azione diretta del Ddt irrorato, ma perché si cibarono di lombrichi che avevano concentrato quell'insetticida nei loro tessuti. Sebbene l'improvvisa morte di migliaia di pesci e di crostacei in certi fiumi o stagni, causata in forma diretta e visibile dalle operazioni di controllo sugli insetti, abbia aspetti drammatici e preoccupanti, la realtà della situazione apparirà, forse, ancora più disastrosa quando riusciremo a valutare gli effetti invisibili ancora ampiamente ignoti e incommensurabili degli antiparassitari che raggiungono gli estuari in maniera indiretta, trasportati dai corsi d'acqua e dai fiumi. Il problema, considerato nel suo complesso, presenta molti interrogativi che attendono una risposta soddisfacente. Sappiamo che i disinfestanti contenuti nei canali di drenaggio delle campagne e delle foreste vengono successivamente convogliati verso il mare dal corso di molti, e forse di tutti, i grandi fiumi, ma ignoriamo la quantità totale e la qualità degli infiniti tossici cosparsi; e non abbiamo a nostra disposizione - almeno per adesso - un metodo di analisi efficiente per identificarli allorché vengono diluiti dalle onde dell'oceano. Sappiamo che essi subiscono quasi certamente cambiamenti durante il loro lungo viaggio, ma ignoriamo se alla fine diventino più o meno tossici di quanto lo fossero all'origine. Un altro settore tuttora inesplorato è quello delle interazioni tra sostanze chimiche, problema che diventa senza dubbio di primaria importanza quando tali prodotti giungono in mare, dove una quantità così grande di sostanze minerali diverse viene continuamente mescolata e trasportata dal moto ondoso. Tutti questi interrogativi esigono urgentemente una risposta precisa che ci può venire fornita soltanto da un'ampia opera di ricerca, da condurre fino in fondo non certo con i mezzi irrisori messi oggi a disposizione. La pesca d'acqua dolce e di mare è una fonte alimentare di enorme importanza ed un cespite fondamentale di guadagno e di benessere per un grande numero di persone; appare indubbio, ormai, che essa ritragga un grave danno dalla contaminazione chimica delle nostre acque. Se sottrarremo anche una piccola frazione degli stanziamenti destinati ogni anno alla produzione di tossici sempre più distruttivi e la impiegheremo in una ricerca scientifica costruttiva potremo forse trovare il modo di usare materiali meno pericolosi e di tenere i veleni al di fuori delle nostre acque. Ma quando i cittadini degli Stati Uniti diventeranno abbastanza consapevoli da esigere tale provvedimento? Capitolo decimo - Disinfestazioni aeree indiscriminate Dai timidi esordi su qualche piantagione o sopra lontane foreste, il metodo delle irrorazioni aeree si è sviluppato ed esteso fino al punto di diventare ciò che un ecologo inglese ha recentemente definito "una terrificante pioggia di morte" sulla Terra. Il nostro atteggiamento nei confronti dei veleni ha subìto a poco a poco una sottile trasformazione: una volta, le sostanze tossiche restavano sigillate dentro recipienti che mostravano, ben evidenti, teschi ed ossa incrociate; ad esse si ricorreva di rado e, quando si doveva farne uso, si cercava con ogni cura che colpissero soltanto il bersaglio cui erano destinate e non entrassero in contatto con nient'altro. Ma, con lo svilupparsi della produzione di nuovi insetticidi organici e con la sovrabbondanza di aeroplani rimasti inutilizzati dopo la fine della seconda guerra mondiale, tutto ciò è stato dimenticato. I veleni oggi, sebbene abbiano, rispetto a quelli del passato, una tossicità molto maggiore, vengono considerati come qualcosa che può essere disseminato indiscriminatamente dal cielo. E pertanto, non solo sugli insetti dannosi e sulla vegetazione parassita, ma su tutti gli altri esseri - umani e non umani - incombe il pericolo, se si trovano nell'area di dispersione di questo fall-out chimico, di riceverne il tocco funesto. E non solo foreste e piantagioni vengono cosparse di veleno, ma anche i villaggi ed i centri urbani. Molta gente comincia già a sospettare che la distribuzione aerea di prodotti chimici tossici su alcuni milioni di ettari comporti una minaccia e, fin dal 1950, due massicce campagne intraprese negli stati nord-orientali e nel sud per combattere rispettivamente la Lymantria dispar e la "formica di fuoco" hanno alimentato le sue perplessità. Nessuno di questi due insetti è originario, ma entrambi hanno fatto il loro ingresso nel Nord America molti anni fa e vi sono rimasti senza mai creare situazioni che richiedessero misure radicali di disinfestazione. Ed ecco che, d'improvviso, venne intrapresa contro di essi un'azione drastica per volere delle "sezioni di controllo" del nostro Dipartimento dell'Agricoltura ed in ossequio al suo ben noto principio secondo il quale il fine giustifica il mezzo. Il programma messo in atto contro la Lymantria dispar ci mostra con lampante evidenza quali e quanti danni dobbiamo aspettarci quando un controllo antiparassitario oculato e circoscritto viene sostituito da un trattamento indiscriminato su enorme scala. Dal suo canto, la disinfestazione contro la "formica di fuoco" offre un eccellente esempio di una campagna portata fino alle sue estreme conseguenze, sebbene non ve ne fosse alcuna necessità, e condotta, per di più, senza un minimo di conoscenza scientifica sul dosaggio del veleno da adottare per raggiungere lo scopo, né sugli effetti prodotti sull'ambiente circostante. E va detto subito che, in entrambi i casi, l'insuccesso non poteva essere più completo. La Lymantria dispar, originaria dell'Europa, è giunta negli Stati Uniti quasi un secolo fa. Nel 1869, uno scienziato francese, Leopold Trouvelot, se ne lasciò sfuggire accidentalmente qualcuna dal laboratorio di Medford, nel Massachusetts, dove stava tentando un incrocio con il baco da seta. A poco a poco la Lymantria si diffuse in tutto il New England, favorita, in primo luogo, dal vento: le giovani larve possono essere trasportate dal vento anche a notevoli distanze. Un altro mezzo di diffusione è dato dai carichi di legname che contengono le masse d'uova, la forma duratura con cui questo insetto sopravvive nel periodo invernale. La Lymantria - la cui larva in primavera, per un periodo di qualche settimana, attacca il fogliame delle querce e di alcune altre latifoglie - si trova oggi in tutti gli stati del New England; ricorre anche sporadicamente nel New Jersey, dove venne introdotta nel 1911 insieme con un carico di abeti provenienti dall'Olanda, e si è spinta fino al Michigan, non si sa come. Un uragano abbattutosi nel 1938 sul New England le permise di arrivare fino in Pennsylvania e nello stato di New York, ma i monti Adirondacks, coperti da una vegetazione arborea non adatta al suo nutrimento, le sbarrarono il passo ed impedirono che proseguisse il cammino verso occidente. L'obiettivo di circoscrivere l'invasione della Lymantria dispar entro i margini della zona nord-orientale degli Stati Uniti è stato raggiunto in più modi e, nei quasi cento anni che sono trascorsi dal suo arrivo sul nostro continente, chi temeva l'infestazione delle grandi foreste di caducifoglie degli Appalachi meridionali ha potuto constatare che la sua paura non era giustificata. Tra l'altro, tredici specie di parassiti e predatori vennero importate dall'estero nel New England e si sono stabilite facilmente nella zona. Lo stesso Dipartimento dell'Agricoltura si è interessato alla realizzazione di questa iniziativa, riuscendo così a ridurre la frequenza e la pericolosità delle esplosioni di Lymantria. Tale forma di controllo naturale, insieme con le misure di quarantena e con qualche irrorazione locale di insetticida, produsse ciò che il Dipartimento dell'Agricoltura, nel 1955, annunciò come "una notevole riduzione dell'invasione e dei danni da essa provocati". Ed ecco che, soltanto un anno dopo aver espresso la propria soddisfazione per lo stato delle cose, la Plant Pest Control Division dello stesso dipartimento intraprese un programma di disinfestazioni chimiche annuali a tappeto su una superficie di milioni di ettari con lo sbandierato proposito di "sradicare" definitivamente la Lymantria dispar. ("Sradicamento", se le parole hanno un senso, dovrebbe significare la estinzione di una specie, cioè lo sterminio di essa nell'intera area che costituisce il suo ambiente; tuttavia, dopo il fallimento delle successive campagne, il Dipartimento dell'Agricoltura è stato costretto a parlare di un secondo e di un terzo "sradicamento" della stessa specie e nella stessa zona.) La guerra chimica radicale dichiarata alla Lymantria dal Dipartimento dell'Agricoltura cominciò con ambiziosi propositi: nel 1956, venne irrorato quasi mezzo milione di ettari di territorio negli stati della Pennsylvania, del New Jersey, del Michigan e di New York; e quasi subito molti abitanti di quelle zone cominciarono a lagnarsi per i danni che ne avevano riportato. La stessa cosa fecero in seguito gli enti per la tutela del paesaggio, non appena entrò in vigore l'uso di cospargere di veleno enormi aree di terreno. Quando, nel 1957, venne annunciata un'altra campagna - e stavolta sopra una superficie di un milione e 200 mila ettari - si levò un coro di proteste, ma le autorità statali e federali con un atteggiamento loro tipico non ne tennero alcun conto. Il territorio di Long Island, incluso in questa seconda fase del programma di disinfestazione della Lymantria dispar, comprende essenzialmente alcune popolose città e campagne pure fittamente abitate, ed un tratto di costa interrotto qua e là da paludi salmastre. Vi si trova, tra l'altro, la contea di Nassau che, dopo il centro urbano di New York, registra la più alta densità demografica di tutto lo stato di New York. Eppure per giustificare la sua inclusione nel programma, venne tirato in causa, nella maniera più assurda possibile, "il pericolo di infestazione che incombeva sul territorio metropolitano di New York". La Lymantria dispar è sicuramente un insetto che vive nelle foreste e non già nelle città; del suo habitat non fanno parte né i prati, né i campi coltivati o i giardini e neppure il terreno paludoso. Nondimeno, nel 1957, gli aeroplani dello United States Department of Agriculture e del New York Department of Agriculture and Markets cosparsero imperterriti il prescritto miscuglio di Ddt e petrolio sull'intera zona. Essi irrorarono imparzialmente orti e cascine, vivai e paludi salmastre e non risparmiarono nemmeno i piccoli lotti di terreno della periferia della città, non più di 1000 metri quadrati ciascuno, inzuppando perfino, con la loro pioggia funesta, una massaia che stava disperatamente cercando di proteggere il proprio giardino prima del loro arrivo, alcuni bambini che giocavano all'aperto e la gente che sostava alla stazione in attesa del treno. A Setauket, un bel cavallo da corsa che si era abbeverato ad un truogolo dopo che gli aerei vi avevano volteggiato sopra, morì nel giro di dieci ore. Molte automobili ricevettero schizzi di quella mistura oleosa. Fiori e cespugli subirono una vera rovina; uccelli, pesci, granchi, come pure gli insetti utili, rimasero uccisi. Un gruppo di cittadini di Long Island, guidato da Robert Cushman Murphy, un ornitologo di fama mondiale, aveva sollecitato un'ingiunzione giudiziaria che proibisse la disinfestazione del 1957, ma la richiesta venne respinta. Essi ebbero così a subire i gravi danni prodotti da quella pioggia di Ddt. Questa volta tornarono alla carica con il proposito di ottenere un divieto permanente; purtroppo i magistrati, trincerandosi dietro il pretesto che la causa era già stata discussa nel primo dibattito, sostennero che la petizione non era "fondata". Il caso venne portato fino alla Corte Suprema, ma questa si rifiutò di ascoltarlo. Il giudice Douglas, mostrando tutta la sua disapprovazione per la decisione di non rivedere il caso, sostenne che "l'allarme destato da molti esperti e incaricati responsabili circa i pericoli dell'impiego di Ddt non faceva che sottolineare l'importanza pubblica di questo caso". Ad ogni modo la causa intentata dai cittadini di Long Island servì almeno a richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla crescente tendenza a realizzare programmi antiparassitari sempre più massicci, e sul malcostume, da parte delle commissioni di controllo, di trascurare e calpestare i cosiddetti "diritti inviolabili del cittadino privato". La contaminazione del latte e dei prodotti agricoli, durante la campagna contro la Lymantria, fu un'amara sorpresa per molta gente. Un caso particolarmente indicativo avvenne nella fattoria Waller, un'azienda di quasi cento ettari che si trova nello stato di New York, nella parte settentrionale della contea di Westchester. La signora Waller aveva espressamente richiesto ai funzionari del Dipartimento dell'Agricoltura di non disinfestare la sua proprietà, adducendo il motivo che non sarebbe stato possibile irrorare la zona boscosa senza che il Ddt cadesse anche sui pascoli, ed aveva offerto di controllare con irrorazioni locali la diffusione del parassita nella propria campagna e di annientare qualsiasi infestazione. Sebbene essa avesse ricevuto le più ampie assicurazioni che nessuna fattoria sarebbe stata toccata dall'insetticida, la sua proprietà venne sottoposta per ben due volte ad irrorazioni dirette e, per giunta, ricevette per altre due volte i residui degli insetticidi cosparsi in altra zona e trasportati dal vento. I campioni di latte delle mucche di razza Guernsey allevate nella fattoria Waller - prelevati 48 ore dopo - risultarono contaminati da una dose di 14 p.p.m. di Ddt; ed anche i campioni del foraggio raccolto nei prati dove quei bovini avevano pascolato presentavano, naturalmente, tracce di veleno. L'Health Department della contea ne fu subito avvertito, ma non mosse un dito per impedire che il latte arrivasse al consumo. Del resto la cosa, lungi dal sorprendere, conferma la tipica noncuranza delle nostre autorità per la protezione dei consumatori. Esistono sì precise norme stabilite dalla Food and Drug Administration che proibiscono la distribuzione di latte contenente residui di insetticidi, ma esse quasi sempre non vengono fatte applicare adeguatamente, e valgono solo per le forniture destinate agli scambi tra i vari stati. Quanto alle autorità sanitarie dei vari stati e delle singole contee, esse non sono costrette a seguire le prescrizioni delle autorità federali per ciò che riguarda la tollerabilità agli antiparassitari, a meno che le leggi locali non si conformino ad esse - cosa che raramente avviene. Anche i proprietari degli orti subirono gravi danni: certa verdura aveva le foglie così bruciate e chiazzate da essere incommestibile; altra conteneva una gran quantità di residui tossici. Un campione di piselli, esaminato alla Stazione Sperimentale Agraria della Cornell University, palesò un contenuto di Ddt che oscillava dalle 14 alle 20 p.p.m. (mentre il massimo ammesso per legge è di 7 p.p.m.). Pertanto i coltivatori si trovarono di fronte ad un grave dilemma: subire una considerevole perdita di guadagno, o trovarsi in una posizione illegale immettendo sul mercato un prodotto contenente una quantità eccessiva di residui tossici. Molti di essi preferirono la prima soluzione ed il dissesto economico che ne derivava. Man mano che si diffondeva l'uso della disinfestazione aerea con Ddt, aumentava anche il numero dei ricorsi inoltrati alla magistratura e, tra essi, quelli di molti apicoltori dello stato di New York. Anche prima della disinfestazione del 1957, gli apicoltori avevano subìto gravi danni dall'uso del Ddt nei frutteti. "E pensare", dichiarò amaramente uno dei danneggiati, "che fino al 1953 ogni cosa che provenisse dal Dipartimento dell'Agricoltura o da qualche altra organizzazione del genere mi sembrava Vangelo". Ed il sarcasmo di quest'uomo aveva le sue buone ragioni perché nel maggio di quell'anno, dopo la disinfestazione di una vasta area, ben 800 dei suoi alveari erano rimasti spopolati. Le perdite erano state così gravi ed estese che 14 altri apicoltori si unirono a lui per richiedere allo stato un risarcimento di danni per 250 mila dollari. Le irrorazioni del 1957 non furono meno disastrose: un apicoltore, i cui 400 alveari erano stati l'accidentale bersaglio del Ddt, riferì che le api operaie (addette alla raccolta del nettare e del polline per le arnie) avevano subìto uno sterminio del 100% nelle zone forestali e del 50% nelle piantagioni agricole, disinfestate meno copiosamente: "Si prova un vero senso di sgomento", ebbe a dichiarare, "quando si va tra gli alveari, in pieno mese di maggio. senza sentire una sola ape ronzare". La campagna contro la Lymantria fu caratterizzata da numerosi episodi che dimostravano la mancanza d'ogni senso di responsabilità. Poiché i piloti degli aerei avevano a che fare con chi riforniva il disinfestante ad ettolitri più che con i proprietari dei terreni da disinfestare, non valeva la pena di far economia sull'insetticida e, quindi, molte proprietà vennero irrorate non una ma parecchie volte. In almeno un caso i contratti per la disinfestazione aerea vennero stipulati con una ditta di un altro stato che non disponeva di un recapito locale e non aveva adempiuto agli obblighi legali di far registrare il proprio nome presso le autorità del posto, onde poter stabilire le eventuali responsabilità. Ben si spiega dunque che, in una situazione tanto ambigua e confusa, i cittadini più gravemente colpiti nei loro interessi - coltivatori di mele ed apicoltori - non sapessero con chi prendersela né chi citare in giudizio per il risarcimento. Dopo la sciagurata disinfestazione del 1957, il programma venne ridimensionato bruscamente ed in larga misura, con il pretesto di voler "valutare il lavoro compiuto" ed esaminare sperimentalmente altri tipi di insetticidi. Invece del milione e mezzo di ettari irrorati nel 1957, l'area sottoposta al trattamento scese, nel 1958, a poco più di 200.000 ettari e, negli anni successivi (1959-1961), a meno di 50.000 ettari. Frattanto le commissioni di controllo ricevevano da Long Island notizie inquietanti: la Lymantria vi stava ricomparendo in gran numero. Insomma, la dispendiosa campagna contro tale parassita, che era costata al dipartimento tanta perdita di prestigio e di consenso popolare - questa millantata operazione che avrebbe dovuto estirpare per sempre quel fastidioso insetto - si concludeva con un totale fallimento. Nel frattempo gli uomini del Plant Pest Control del Dipartimento dell'Agricoltura non restavano con le mani in mano: avevano messo provvisoriamente in disparte la Lymantria perché si preparavano ad intraprendere un programma ancor più vasto nel sud. E di nuovo il vocabolo "sradicamento" comparve nelle circolari del dipartimento: questa volta si prometteva lo "sradicamento" della "formica di fuoco". Questo insetto, così chiamato perché la sua puntura provoca un'infiammazione, pare sia penetrato negli Stati Uniti dal Sud America, attraverso Mobile - un porto dell'Alabama - dove venne scoperto poco dopo la fine della prima guerra mondiale. Nel 1928, esso aveva già invaso la periferia di quella città donde, con successive avanzate, si era diffuso in quasi tutti gli stati meridionali. Durante quaranta e più anni di permanenza sul suolo statunitense, la "formica di fuoco" ha fatto parlare poco di sé. Anche nelle zone che erano più colpite dall'infestazione, la sua presenza veniva considerata un semplice fastidio, soprattutto perché questo insetto costruisce grandi cumuli alti anche 30 cm o più, che possono intralciare il lavoro delle macchine agricole. Ad ogni modo soltanto due stati l'avevano inclusa nella lista dei 20 parassiti più importanti da combattere, mettendola in ogni modo verso la fine. E nessuno, né enti ufficiali né privati, pensò mai che essa potesse costituire un'insidia per i raccolti o per il bestiame. Ma lo sviluppo nella produzione di prodotti chimici dotati di un vasto potere sterminatore indusse le autorità ad assumere un atteggiamento del tutto diverso nei confronti della "formica di fuoco". Fatto si è che, nel 1957, il Dipartimento dell'Agricoltura decise di scatenare contro di essa una delle più clamorose campagne pubblicitarie della sua storia. La "formica di fuoco" diventò d'improvviso il bersaglio d'una serie di comunicati governativi, che la descrivevano come una devastatrice delle zone agricole meridionali ed una minaccia mortale per gli uccelli, le mandrie e l'uomo. Alla fine venne annunciato un gigantesco programma in cui il governo federale e gli stati colpiti dal presunto flagello prevedevano il trattamento di otto milioni di ettari, appartenenti a ben nove stati. "Con questi programmi di disinfestazione su scala sempre più vasta, organizzati dal Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti", scrisse entusiasticamente un giornale commerciale nel 1958, "i produttori statunitensi di insetticidi hanno trovato un filone d'oro per le vendite". Mai, prima e dopo di allora, un programma antiparassitario è stato accolto da un coro di deprecazione così unanime - esclusi, s'intende, i beneficiari di quella "cuccagna". Esso è un esempio quanto mai appariscente di una campagna massiva contro gli insetti, mal concepita, eseguita ancor peggio e diffusamente nociva - un esperimento che costò così caro sia come denaro, sia come perdita di vite animali, sia, infine, come discredito pubblico nei riguardi del Dipartimento dell'Agricoltura - tanto nociva che non si riesce veramente a comprendere come vi si possano ancora destinare fondi. In sede parlamentare, grazie ad alcune affermazioni che vennero in seguito screditate, il progetto venne approvato: la "formica di fuoco" fu definita come una seria minaccia per gli agricoltori del Sud poiché distruggeva i raccolti, e per gli animali selvatici, dato che aggrediva gli uccelletti nei nidi costruiti per terra. E si disse perfino che la sua puntura costituiva un'insidia per la salute dell'uomo. Come stavano in realtà le cose? Le affermazioni fatte da relatori del Dipartimento dell'Agricoltura per giustificare il loro operato discordavano in maniera stridente con quanto lo stesso ente governativo affermava in alcune pubblicazioni chiave. Nel 1957, il suo bollettino Istruzioni per l'uso di antiparassitari... nel controllo degli insetti che infestano i raccolti ed il bestiame non fece riferimento alla "formica di fuoco" - una omissione inesplicabile questa, se il dipartimento crede nella propria propaganda. Inoltre l'Annuario, a carattere enciclopedico, edito dallo stesso Dipartimento e dedicato interamente agli Insetti, nella sua annata 1952 non accenna che in un breve paragrafo alla "formica di fuoco" - su mezzo milione di parole di testo. Le gratuite affermazioni governative, secondo le quali la "formica di fuoco" distruggerebbe i raccolti e minaccerebbe le mandrie, sono del resto abbondantemente confutate dalla Agricultural Experiment Station che ha compiuto una seria indagine nell'Alabama, lo stato che visse con essa l'esperienza di maggior entità. Gli esperti di tale ente asseriscono che "i danni alle piante sono, in generale, rari". Il dott. Arant, entomologo dell'Alabama Polytechnic Institute e presidente della Entomological Society of America per l'anno 1961, assicura "di non avere mai ricevuto, negli ultimi cinque anni, una sola segnalazione di danni alle coltivazioni provocati dalla "formica di fuoco"... Né si è registrato alcun danno al bestiame". Questi specialisti, che hanno compiuto sia ricerche in natura che in laboratorio, dicono che le "formiche di fuoco" si nutrono prevalentemente di una varietà di altri insetti, per lo più considerati nocivi per l'uomo; per esempio, si è osservato che esse predano le larve dei punteruoli infestanti le piantagioni di cotone e che la costruzione dei loro cumuli sul terreno è utile per aerare e drenare il suolo. Gli studi effettuati nell'Alabama hanno poi trovato conferma nelle ricerche svolte presso l'Università del Mississippi, e appaiono ben più meritevoli di credito che non le "prove" fornite dal Dipartimento dell'Agricoltura sulla scorta di conversazioni con qualche agricoltore (spesso incapace di distinguere una specie di formica da un'altra) o di indagini vecchie di decenni e ormai prive di fondamento (molti entomologi ritengono che le "formiche di fuoco", a causa della loro incessante espansione, abbiano radicalmente modificato le loro esigenze alimentari). Pertanto anche il giudizio che la "formica di fuoco" rappresenti una minaccia per la salute e la vita umana va riveduto. Il Dipartimento dell'Agricoltura (allo scopo di guadagnar consensi per il suo programma) si è valso della propaganda cinematografica e ci ha propinato impressionanti documentari in cui si vedeva all'opera il pungiglione di questo insetto. Non contesteremo che la sua puntura sia dolorosa e che si debba cercare di evitarla, così come cerchiamo di evitare quella delle vespe o delle api. Dobbiamo anche ammettere che in certi individui particolarmente sensibili possono manifestarsi reazioni di una certa gravità; anzi troviamo nella letteratura medica anche un caso mortale attribuito, se pure non con assoluta certezza, al veleno della "formica di fuoco". In contrapposto a ciò ricorderemo che, secondo quanto riporta l'Office of Vital Statistics, ben 33 persone sono morte, nel solo 1959, in seguito alla puntura di vespe o di api; eppure nessuno ha mai pensato di "sradicare" questi insetti. Ad ogni modo l'evidenza dei fatti vale più di qualsiasi fantasia: sebbene la "formica di fuoco" viva nell'Alabama da oltre quarant'anni ed in quantità maggiore che altrove, l'ufficiale sanitario di quello stato dichiara di "non aver mai riscontrato, tra la popolazione dell'intero territorio statale, un solo caso di morte dovuto alla puntura della "formica di fuoco", e considera veramente "eccezionali" i casi clinici risultanti da punture di questo insetto. Può sì accadere che i ragazzi, mentre giocano all'aperto e nei prati, calpestino uno dei monticelli costruiti dalle formiche e vengano punti, ma è forse questa una ragione sufficiente per giustificare l'inondazione di milioni di ettari con veleno, quando basterebbero poche e circoscritte irrorazioni? Anche il pericolo per gli uccelli da caccia - dipinto a fosche tinte dalla propaganda governativa - appare più presunto che reale; se esiste un uomo qualificato per parlare di tale argomento, questi è il direttore del Wildlife Research Unit di Auburn, nell'Alabama, che possiede una pluriennale esperienza in quella zona. Le sue conclusioni sono però proprio agli antipodi di quelle del Dipartimento dell'Agricoltura; egli afferma tra l'altro: "Nell'Alabama meridionale e nel nord-ovest della Florida abbiamo un'eccellente cacciagione, e le nostre pernici convivono, senza risentirne alcun danno, con un numero elevatissimo di "formiche di fuoco". Da quando, quarant'anni fa, questo insetto si stanziò nell'Alabama meridionale, si è notato un continuo e notevole aumento degli uccelli da caccia. Certamente, se la formica avesse rappresentato una seria minaccia per la selvaggina, le condizioni sarebbero diverse". La minaccia sopraggiunse proprio quando gli insetticidi destinati alle "formiche di fuoco", cominciarono a far sentire i loro effetti. Si trattava, per lo più, di dieldrina e di eptacloro, due prodotti scoperti da poco e non ancora sperimentati in natura, per cui nessuno conosceva l'azione tossica che il loro impiego su vasta scala avrebbe esercitato sugli uccelli, sui pesci e sui mammiferi selvatici. Si sapeva che essi erano molto più potenti del Ddt: ed il Ddt, usato ormai da quasi un decennio, aveva mostrato già più volte il suo potere mortale sugli uccelli, e soprattutto sui pesci, anche con la modesta dose di un chilogrammo per ettaro. Per di più la dieldrina e l'eptacloro vennero cosparsi in quantità maggiore: nella misura di due chilogrammi per ettaro nella maggior parte dei casi, e persino di tre chilogrammi per ettaro nelle località in cui si voleva combattere l'infestazione di un Coleottero Curculionide. (1) La quantità di eptacloro distribuita corrispondeva, riguardo all'effetto sugli uccelli, a ben 20 chilogrammi di Ddt e quella di dieldrina a 120 chilogrammi! Immediatamente si levò un coro di proteste da parte di enti statali e federali per la tutela del paesaggio, (1) Graphognatus leucoloma. ?N'd'T'* di ecologi e perfino di qualche entomologo, indirizzate all'allora segretario per l'Agricoltura, Ezra Benson, perché facesse sospendere le operazioni in corso, almeno finché non si fossero stabiliti con certezza gli effetti dell'eptacloro e della dieldrina sugli animali selvatici e domestici, e non si fosse trovato il quantitativo minimo necessario per il controllo delle formiche. Ma queste proteste vennero ignorate e, nel 1958, si diede inizio alla campagna: 400.000 ettari subirono il primo trattamento. Appariva ormai chiaro che le analisi sugli uccelli si sarebbero fatte post-mortem. A mano a mano che la disinfestazione proseguiva, sempre più copiose diventavano le prove accumulate dai biologi di numerose università e di commissioni statali e federali preposte alla conservazione della natura. Le loro indagini appurarono che le perdite registrate in qualcuna delle aree soggette al trattamento avrebbero condotto ben presto alla completa distruzione di tutti gli animali selvatici. Anche il pollame, le mandrie e gli animali domestici vennero uccisi. Tuttavia il Dipartimento dell'Agricoltura continuava a respingere ogni prova irrefutabile affermando che si trattava di esagerazioni e di travisamenti. Ma gli incidenti, frattanto, seguitavano ad accumularsi nel Texas, ad esempio, sull'intero territorio della contea di Hardin, gli opossum, gli armadilli ed un buon numero di procioni erano quasi scomparsi fin dalla prima irrorazione, ed anche nell'autunno dell'anno seguente essi furono molto scarsi; i pochi procioni che vennero rintracciati in quell'area presentavano residui di tossico nei loro tessuti. Gli uccelli morti che venivano raccolti nelle aree irrorate avevano assorbito o ingerito il veleno destinato alle "formiche di fuoco", e ciò era chiaramente confermato dalle successive analisi chimiche compiute in laboratorio sui loro tessuti. (Il solo uccello che sopravviveva in quantità era il passero comune che già in altre regioni si era mostrato relativamente refrattario all'azione dei tossici.) In una zona dell'Alabama, disinfestata nel 1959, metà dell'avifauna risultò distrutta e le specie che vivevano sul suolo o nella bassa vegetazione registrarono una mortalità del 100%. Anche l'anno seguente, in primavera, si verificò un'intensa mortalità di uccelli canori per cui buona parte del territorio, scelto di solito per la nidificazione, rimase disabitato e silenzioso. Nel Texas, merli, allodole ed altri uccelli vennero trovati morti nei loro nidi, molti dei quali furono trovati vuoti. Quando esemplari dell'avifauna sterminata, provenienti dal Texas, dalla Louisiana, dall'Alabama, dalla Georgia e dalla Florida, vennero analizzati dagli esperti del Fish and Wildlife Service si vide che il 90% di essi conteneva nei tessuti residui di dieldrina, oppure di una forma di eptacloro, in quantità superiori alle 38 p.p.m'. Le beccacce che si riproducono nel nord ma svernano nella Louisiana, sono oggi contaminate dal veleno cosparso contro le "formiche di fuoco", e la causa di ciò appare manifesta: questi uccelli si nutrono prevalentemente di lombrichi, che estraggono dal suolo con il lungo becco. E proprio sui lombrichi che erano sopravvissuti nella Louisiana venne accertata la presenza di quasi 20 p.p.m. di eptacloro, anche 6-10 mesi dopo la campagna insetticida in quella regione (un anno più tardi essi ne conservavano ancora 10 p.p.m.). Soltanto oggi si possono valutare le conseguenze di quella intossicazione subletale delle beccacce: infatti assistiamo ad un graduale declino della specie determinato dal fatto che, fin dalla stagione successiva alle irrorazioni, la natalità si è costantemente mantenuta al di sotto della mortalità. Alcune tra le segnalazioni più preoccupanti per i cacciatori del sud riguardavano le pernici. Questo volatile, che nidifica e cerca il cibo per terra, aveva subìto uno sterminio quasi completo nelle aree disinfestate. Per esempio, i biologi dell'Alabama Cooperative Wildlife Research Unit constatarono che, due settimane dopo la disinfestazione, in tredici covate stanziali - per un complesso di 121 pernici, da essi computate qualche tempo prima, su una superficie di 1450 ettari destinati al trattamento - si trovavano soltanto uccelli morti. Tutti gli esemplari inviati al Fish and Wildlife Service per l'analisi risultarono contaminati con dosi di insetticida sufficienti per provocare la morte. La stessa situazione si ripeté nel Texas, dove in una zona di 1000 ettari trattata con eptacloro tutte le pernici rimasero uccise e, insieme con esse, il 90% degli uccelli canori; di nuovo si riscontrò la presenza di eptacloro nei tessuti degli animali morti. Oltre alle pernici, pure i tacchini selvatici pagarono lo scotto dell'irrorazione di insetticidi che avrebbero dovuto distruggere soltanto le "formiche di fuoco". Di un'ottantina di tacchini contati in un'area circoscritta nella contea di Wilcox (Alabama) - prima che vi venisse cosparso l'eptacloro - non se ne trovò più alcuno nell'estate successiva; al loro posto si rinvenne una covata di uova non schiuse ed un piccolo morto. D'altronde anche il confratello domestico del tacchino selvatico aveva subìto una sorte analoga nelle fattorie delle zone sottoposte al controllo chimico: nei pollai, ben poche uova si erano dischiuse e quasi nessun pulcino era sopravvissuto. Per converso, nei territori non irrorati, la cova si era svolta regolarmente. I tacchini non erano stati i soli a subire quel fato funesto. Allorché uno dei più noti ed autorevoli studiosi statunitensi della vita degli animali selvatici, il dott. Cottam, convocò presso di sé alcuni agricoltori delle aree disinfestate, ricevette da essi non solo la conferma che nelle loro proprietà "tutti gli uccelletti arboricoli" erano scomparsi dopo il trattamento, ma che anche le mandrie, il pollame e le bestiole domestiche si trovavano a mal partito. "Uno di quei coltivatori", riferì il dott. Cottam, "appariva particolarmente indignato contro i responsabili della disinfestazione e spiegava come avesse dovuto seppellire o eliminare in altro modo i cadaveri delle sue 19 mucche uccise dal veleno. Egli aveva avuto notizia, inoltre, di altre tre o quattro mucche morte per la stessa ragione. Erano morti, inoltre, i vitellini nutriti fino allora con il solo latte materno". Gli agricoltori convocati dal dott. Cottam sembravano soprattutto preoccupati per ciò che era accaduto nei mesi successivi al trattamento. Una donna gli disse di aver messo a covare diverse galline dopo l'irrorazione chimica delle località viciniori ma, "per ragioni che le sfuggivano, ben pochi pulcini erano nati o rimasti in vita". Un altro coltivatore che allevava maiali, "per nove mesi dopo la disinfestazione non aveva potuto far crescere nemmeno un porcellino; tutti gli nascevano morti o morivano poco dopo". Non molto diverso fu il racconto di un terzo agricoltore: dei 250 porcellini partoriti dalle sue scrofe, gliene restavano soltanto 31; e, inoltre, i suoi pollai non avevano prodotto neppure un pulcino dal giorno della irrorazione. Il Dipartimento dell'Agricoltura si è costantemente ostinato a negare che la disinfestazione contro la "formica di fuoco" abbia causato perdite al bestiame. Sarà dunque opportuno citare la testimonianza d'un veterinario della Georgia, il dott. Poitevint di Bainbridge, il quale era stato chiamato per curare numerosi capi ammalati. Egli ha riassunto così le ragioni che lo hanno spinto a mettere i sopravvenuti decessi in relazione con gli insetticidi: in un periodo compreso tra due settimane e parecchi mesi a partire dalla data della disinfestazione, i bovini, le capre, i cavalli, il pollame, gli uccelli ed altri animali selvatici cominciarono a dar segni di una malattia spesso letale dell'apparato nervoso; e ciò capitava soltanto alle bestie che venivano a contatto con acqua o con pascoli contaminati, e non a quelle che erano rimaste sempre nelle stalle o al chiuso. Questi sintomi, osservati dal dott. Poitevint e da altri veterinari, si riscontravano solo nelle zone irrorate; essi non denunciavano - come comprovarono analisi di laboratorio - alcuna malattia organica, ma coincidevano invece con quelli che i testi più autorevoli attribuiscono all'avvelenamento da dieldrina o da eptacloro. Il dott. Poitevint descrisse tra l'altro il caso interessante di un vitellino di due mesi che presentava chiari segni di intossicazione da eptacloro e venne sottoposto a numerose prove di laboratorio. Si riuscì solo a scoprire che aveva accumulato nei suoi tessuti adiposi una dose di eptacloro pari a 79 p.p.m'. Eppure l'insetticida era stato cosparso cinque mesi prima che il vitellino nascesse. Quale mezzo aveva scelto il veleno per contaminarlo? Forse l'erba del pascolo, oppure il latte della madre? O forse l'intossicazione era avvenuta durante la gestazione? "Ma, se si tratta del latte", si chiedeva giustamente il dott. Poitevint, "perché mai non sono state prese le necessarie precauzioni per proteggere i nostri figli che hanno bevuto il latte proveniente dalle latterie locali?" La relazione del dott. Poitevint ci pone di fronte al grave problema relativo alla contaminazione del latte. L'area compresa nel programma di disinfestazione contro la "formica di fuoco" è composta prevalentemente di campi coltivati e di prati. Cosa succede alle mucche che pascolano su quel suolo? Nei campi sottoposti al trattamento insetticida, i residui dell'eptacloro, in una qualsiasi delle sue forme, si depositeranno inevitabilmente nell'erba, cosicché le mucche, pascolando in essa, resteranno infette, e così pure sarà del latte. Questo diretto trasferimento dell'eptacloro nel latte ha avuto una chiara dimostrazione sperimentale nel 1955: molto tempo prima, dunque, che il tossico venisse usato nella campagna antiparassitaria; la stessa cosa è stata provata, poco più tardi, per la dieldrina, anch'essa largamente impiegata nella lotta contro le formiche. Oggi le pubblicazioni annuali del Dipartimento dell'Agricoltura includono l'eptacloro e la dieldrina nella lista dei prodotti chimici che rendono il foraggio inadatto per l'alimentazione del bestiame da latte o destinato alla macellazione. Tuttavia le divisioni di controllo di quello stesso dipartimento governativo continuano ad ordinare l'irrorazione con eptacloro o dieldrina di vastissime aree da pascolo nel sud. Chi fa da salvaguardia al consumatore per vedere che il latte non contenga residui di questi due potenti veleni? Se gli venisse posto un tale interrogativo, il Dipartimento Federale dell'Agricoltura risponderebbe senza dubbio che esso ha già impartito agli allevatori l'opportuna disposizione di tener lontane le mucche dai pascoli contaminati per un periodo variante dai 30 ai 90 giorni. Però, se si considera che molte aziende agricole sono di piccola entità e che la zona irrorata abbraccia un'enorme estensione - vengono infatti molto usati gli aeroplani - appare quanto mai dubbio che tale prescrizione sia stata osservata o possa esserlo in futuro. Del resto, la natura persistente dei residui fa apparire del tutto inadeguato un così breve periodo cautelativo. La Food and Drug Administration, sebbene si mostri assai intransigente di fronte alla presenza di residui d'insetticidi nel latte, può fare ben poco in casi come questi. Infatti nella maggior parte degli stati compresi nell'area del programma di disinfestazione contro le "formiche di fuoco", l'industria casearia è frazionata in una infinità di piccole aziende e la produzione viene consumata sul posto; perciò le misure di sicurezza contro lo smercio del latte infetto restano affidate alle autorità locali. Inchieste compiute nel 1959 presso gli uffici sanitari o altri funzionari dell'Alabama, della Louisiana e del Texas mostrarono come non fosse stata effettuata alcuna prova di laboratorio e che addirittura non si sapeva se il latte contenesse tracce di insetticida o ne fosse immune. Intanto, piuttosto dopo che prima del lancio della campagna antiparassitaria, erano state compiute ricerche sulla natura e gli effetti dell'eptacloro. Sarebbe più esatto parlare di una ripresa, da parte di qualcuno, di vecchie indagini già pubblicate poiché il fatto fondamentale che provocò una tardiva azione da parte del governo federale era stato scoperto parecchi anni prima e avrebbe quindi dovuto influire all'inizio sull'applicazione del programma di controllo. Già si sapeva, infatti, che l'eptacloro, dopo un breve periodo di permanenza nei tessuti animali o vegetali (oppure nel suolo), assume una forma molto più tossica, nota con il nome di eptacloro epossido, attraverso un processo, comunemente detto di ossidazione, determinato dagli agenti atmosferici. La realtà di questa trasformazione era stata accertata fin dal 1952, allorché gli esperti della Food and Drug Administration si accorsero che le femmine di certi ratti, alle quali erano state somministrate 30 p.p.m. di eptacloro nel giro di due settimane presentavano nei loro tessuti un deposito di ben 165 p.p.m. di epossido. La conoscenza di questi fatti si diffuse oltre la cerchia rigorosa della letteratura scientifica soltanto nel 1959, quando la stessa Food and Drug Administration si fece promotrice di una vasta opera, che si concluse con il divieto di smerciare qualsiasi commestibile contenente tracce di eptacloro o del suo epossido. Tale proibizione servì almeno ad imporre una battuta di arresto al programma di disinfestazione; infatti, per quanto il Dipartimento dell'Agricoltura continuasse ad esercitare pressione perché venissero realizzati integralmente i progetti di disinfestazione contro le "formiche di fuoco", i suoi funzionari periferici cominciarono a mostrarsi piuttosto riluttanti quando si trattava di dover convincere gli agricoltori della necessità di sottoporre i loro terreni ad un trattamento chimico che avrebbe reso la vendita dei raccolti perseguibile a termini di legge. In poche parole, il Dipartimento dell'Agricoltura si era avventurato in quell'impresa senza assumere le più elementari informazioni su quanto già si sapeva dei prodotti che si proponeva di usare; o, seppure lo aveva fatto, non si era voluto arrendere di fronte all'evidenza. E non si era neppure preoccupato di compiere una ricerca preliminare per stabilire la quantità minima di sostanza sufficiente per raggiungere il suo scopo; infatti, nel 1959, dopo tre anni di irrorazioni con elevate dosi, ridusse improvvisamente il trattamento a 1250 grammi di eptacloro per ettaro e, più tardi, a soli 500 grammi, da cospargere in due disinfestazioni di 250 grammi ciascuna a distanza da 3 a 6 mesi l'una dall'altra. Un funzionario del dipartimento spiegò che "un programma di miglioramento dei metodi di disinfestazione" aveva mostrato che anche dosi inferiori erano efficaci. Se questa constatazione fosse stata fatta in via sperimentale, prima di dare inizio alle operazioni di controllo, si sarebbe risparmiato un notevole onere fiscale ai contribuenti e si sarebbe evitata una buona parte degli enormi danni. Nel 1959, il Dipartimento dell'Agricoltura, forse per placare la crescente ondata di malcontento, decise di offrire gratuitamente le sostanze disinfestanti ai proprietari terrieri disposti a dichiarare che non avrebbero promosso alcuna azione per il risarcimento di eventuali danni, né contro le autorità federali, né contro quelle statali o locali. Nello stesso anno lo stato dell'Alabama, allarmato e sdegnato per i danni provocati dalle sostanze chimiche, rifiutò di stanziare altri fondi per la prosecuzione del programma antiparassitario; uno dei suoi funzionari definì l'intero progetto come "un'opera incauta, concepita troppo in fretta e mal programmata, ed un esempio madornale di prevaricazione nei confronti degli enti agricoli statali e privati". Ma, nonostante la sospensione dei finanziamenti da parte dello stato, i fondi continuarono ad affluire nell'Alabama dallo stesso governo federale; anzi, nel 1961, l'assemblea legislativa locale si lasciò convincere a riprendere il versamento del tributo, sia pure in misura notevolmente inferiore alla precedente. Frattanto, nella Louisiana, i coltivatori si mostravano sempre più restii ad approvare il progetto, perché si erano accorti che l'impiego dei tossici contro la "formica di fuoco" stava causando un enorme aumento di altri insetti dannosi alle piantagioni di canna da zucchero. La campagna antiparassitaria non era, inoltre, arrivata a nulla di positivo. Questa triste situazione venne così compendiata, nella primavera del 1962, dal dott. Newsom, capo reparto entomologo presso l'Agricultural Experiment Station della Università della Luisiana: "Il progetto di "sradicamento" della "formica di fuoco", realizzato dagli enti statale e federale, si è risolto in un completo fallimento. Nella Louisiana la superficie infestata ha oggi un'estensione maggiore di prima". Sembra, tuttavia, che si stiano facendo strada oggi metodi più saggi e meno distruttivi: si apprende dalla Florida che laggiù si sono ormai abbandonati i progetti di "sradicamento totale", perché l'esperienza ha insegnato che proprio per colpa di essi "le "formiche di fuoco" hanno registrato un incremento"; pertanto ci si sta indirizzando, ora, piuttosto verso sistemi di controllo locale. Metodi efficaci e poco costosi di controllo locale sono noti da anni ed appaiono particolarmente indicati per la lotta contro le "formiche di fuoco" che hanno l'abitudine di costruire i loro nidi in cumuli di terriccio: questi monticelli possono essere facilmente disinfestati chimicamente uno ad uno, ed il costo dell'operazione è di circa due dollari e mezzo per ettaro. Nel caso, poi, che i cumuli siano numerosi e sia necessario ricorrere ad un sistema meccanizzato, il Mississippi Agricultural Experimental Method ha costruito una specie di aratro che dapprima spiana il suolo e poi applica direttamente il disinfestante. Con tale trattamento le "formiche di fuoco" vengono distrutte nella misura del 90-95%, con una spesa di 60 centesimi di dollaro per ettaro. Si noti che il costo del massiccio programma messo in opera dal Dipartimento dell'Agricoltura è, d'altra parte, di più di otto dollari per ogni ettaro: quindi, spreco d'un'enorme quantità di denaro, danni disastrosi e scarsissimi risultati. Capitolo undicesimo - Il contatto quotidiano con i veleni La contaminazione del nostro mondo non proviene soltanto dai programmi di disinfestazione su vasta scala. Anzi, per la maggior parte di noi, questi costituiscono un pericolo minore di quello che deriva dalle lievi ma innumerevoli esposizioni cui siamo sottoposti giorno per giorno, anno per anno. Come la piccola goccia che, con il suo continuo stillicidio, scava la roccia, i veleni entrano a contatto con il nostro corpo da quando nasciamo fino all'ora della morte determinando, talvolta, conseguenze funeste. Ciascuna di queste ripetute esposizioni - anche se di modesta entità - contribuisce al progressivo aumento di sostanze chimiche nel nostro corpo e di conseguenza al cosiddetto avvelenamento cumulativo. Forse nessuno di noi può dirsi immune da tale dilagante contaminazione, a meno che non abbia trovato il modo di vivere in una condizione di inimmaginabile isolamento. Il cittadino medio, adescato dai venditori melliflui e dai persuasori occulti, soltanto in rari casi comprende quanto siano minacciose le sostanze di cui sta circondandosi; il più delle volte le usa senza neanche rendersene conto. Questa nostra "epoca di veleni" afferma sempre più i suoi diritti, ed ormai capita a molta gente di andare in un negozio a comperare, senza che le sia chiesto niente, una sostanza molto più mortale di certe medicine che nessun farmacista venderebbe se non dietro la presentazione d'una precisa prescrizione medica. Pochi minuti di permanenza in un qualsiasi, supermercato sono sufficienti per destare un senso d'allarme anche nei clienti meno emozionabili - ammesso, s'intende, che essi abbiano una conoscenza, sia pure rudimentale, dei prodotti chimici messi in vendita. Se un grosso teschio ed un paio di ossa incrociate venissero appesi nel reparto in cui si vendono gli insetticidi, l'eventuale acquirente proverebbe almeno quella naturale circospezione che desta ogni pozione apportatrice di morte; invece troviamo questi prodotti disposti familiarmente e allegramente in file sopra file, tra vasetti di olive o di sottaceti, in mezzo a saponette da bagno o a sapone da bucato. In una posizione che può essere facilmente raggiunta dalla mano di un bambino, questi veleni vengono tenuti in bella mostra, racchiusi dentro recipienti di vetro. Basta che un fanciullo oppure un adulto disattento li faccia cadere per terra, perché qualunque persona circostante possa venirne contaminata ed essere colta dalle stesse convulsioni determinate negli addetti alle disinfestazioni. Questi rischi ci inseguono anche tra le pareti domestiche. Sopra un nebulizzatore di tarmicida a base di Ddt, per esempio, l'avvertimento che il contenuto è soggetto ad una forte pressione e può scoppiare in vicinanza di una fiamma o di una sorgente di calore sta scritto in caratteri minuti e quasi illeggibili. Il clordano viene usato comunemente per varie necessità casalinghe, specialmente in cucina, anche se il capo farmacologo della Food and Drug Administration ha messo più volte in guardia contro l'impiego "molto pericoloso" di questo veleno nelle disinfestazioni domestiche. Altri preparati a disposizione delle massaie contengono un tossico ancora più potente, la dieldrina. E si cerca anche di suggerire e di facilitare l'uso di questi veleni nelle nostre cucine. Le carte che vengono vendute in vari colori, a seconda dei gusti, per ricoprire le scaffalature di cucina, possono essere impregnate di insetticida non solo da un lato ma da tutti e due. I fabbricanti di insetticidi offrono graziosi opuscoli che ci insegnano il modo migliore per uccidere le blatte, ed è così che, premendo il pulsante del nebulizzatore, riusciamo a far arrivare uno spruzzo di dieldrina nei cantucci più inaccessibili e nelle fessure degli stanzini, dei ripostigli e dei pavimenti. Se zanzare, acari o altri parassiti ci danno fastidio non abbiamo che da scegliere tra un'infinità di lozioni, creme e "spray" da applicare agli indumenti o direttamente sul corpo. E, nonostante ci sia stato detto che possono sciogliere le vernici, i colori e i materiali sintetici, non ci passa neanche per la testa che la nostra pelle non sia impermeabile ad essi. Per metterci in grado di poter respingere in qualsiasi momento l'assalto degli insetti, un grande emporio di New York fa la réclame ad un atomizzatore tascabile per insetticidi, che può trovar posto sia nella borsetta delle signore che nei canestri da spiaggia, da golf o da pesca. Possiamo lucidare i nostri pavimenti con cere che ci garantiscono lo sterminio di qualsiasi insetto; possiamo appendere strisce di carta impregnate di lindano nei guardaroba, nei sacchi per indumenti oppure metterle nei cassetti del nostro ufficio, contenti di esserci liberati, per almeno sei mesi, dal pensiero delle tignole. Del resto le istruzioni stampate sul recipiente ci nascondono che si tratta d'una sostanza micidiale; ed alla stessa stregua si comportano, nei loro avvisi pubblicitari, le ditte che costruiscono dispositivi elettronici per la vaporizzazione del lindano - anzi vien detto che sono innocui e inodori. La verità è che la American Medical Association considera i vaporizzatori di lindano tanto pericolosi da aver condotto, nel suo Notiziario, una vasta campagna contro il loro impiego. Il Dipartimento dell'Agricoltura, in uno dei suoi Home and Garden Bulletin ?Bollettino della casa e del giardino*, ci consiglia di spruzzare i nostri capi di vestiario con soluzioni oleose di Ddt, dieldrina, clordano o un altro qualsiasi tarmicida, ed aggiunge che, quando nella stoffa restino tracce biancastre d'insetticida, esse si possono togliere con la spazzola: si dimentica però di avvertirci di stare attenti al luogo e al modo in cui viene compiuta l'operazione. E, per completare l'opera, potremo terminare la giornata andando a dormire sotto una coperta trattata con un antitarmico a base di dieldrina! Le operazioni di giardinaggio vengono oggi compiute a base di ultra-veleni. Ogni negozio di utensileria agricola o di sementi, ogni supermercato tiene ben in mostra un completo assortimento di insetticidi per ogni genere di parassita. Chi si ostina a non fare uso di questa caterva di liquidi e polveri viene considerato uno stolto, una persona sorda agli "utili" insegnamenti che si leggono ogni giorno nelle rubriche dei giornali riservate ai proprietari di giardini o di frutteti, e nelle pagine delle riviste d'agricoltura. Gli antiparassitari organici a base di fosforo, che sono così rapidamente letali, vengono impiegati tanto diffusamente nei parchi e sulle piante ornamentali che, nel 1960, il Florida State Board of Health si è trovato costretto a proibire lo sfruttamento commerciale degli insetticidi in tutte le zone residenziali da parte di chiunque non avesse preliminarmente ottenuto un permesso e non rispondesse a certi requisiti. Prima dell'entrata in vigore di tale provvedimento, si erano registrati in quello stato diversi casi di morte per intossicazione da parathion. Ben poco, ad ogni modo, si fa per avvertire i giardinieri o i proprietari di casa che hanno a che fare con sostanze nocive. Per converso, un costante afflusso di nuovi accessori ne rende più facile l'uso nei prati e nei giardini - ed aumenta quindi la possibilità di contatto per i giardinieri. Ad esempio, si può attaccare il recipiente contenente l'insetticida alla stessa pompa che serve per irrigare i prati, cosicché innaffiando questi si cosparge anche il clordano e la dieldrina. Ciò comporta non soltanto un grave rischio per chi ricorre a questo sistema, ma è anche una minaccia pubblica. Il New York Times, nella pagina dedicata al giardinaggio, ha ritenuto necessario segnalare la possibilità che, con tale sistema, il veleno venga aspirato nella conduttura per un'improvvisa caduta di pressione dell'acqua, a meno che non siano prese le precauzioni necessarie. Come possiamo dunque meravigliarci di fronte ai numerosi casi di acque pubbliche contaminate, se pensiamo quanto siano frequenti i fatti come quelli or ora descritti e quanto siano scarse le misure precauzionali adottate? Quale poi sia il danno in cui può incorrere chi si occupa di giardinaggio, lo si comprenderà agevolmente dal seguente episodio che ha avuto per protagonista un medico - un appassionato giardiniere - il quale, una volta alla settimana, aveva cominciato a cospargere di Ddt, e quindi di malathion, i cespugli e le aiuole del suo giardino; talora egli si serviva di uno spruzzatore a mano, altre volte si attaccava alla pompa dell'acqua. Spesso gli capitava di spruzzarsi le mani ed i vestiti, ma non vi faceva caso, finché una volta fu colto da un collasso e trasportato all'ospedale. Gli venne prelevato un frammento di tessuto adiposo e le analisi effettuate appurarono che aveva accumulato in esso 23 p.p.m. di Ddt; gli vennero altresì riscontrate gravi alterazioni nel sistema nervoso - alterazioni che i medici giudicarono ormai croniche. Con il passare del tempo egli diminuì di peso, cominciò a provare un continuo senso di spossatezza e di debolezza fisica, cioè tutti i sintomi caratteristici dell'intossicazione da malathion. Le sue condizioni di salute erano tanto gravi che non gli permisero di continuare l'attività professionale. Oltre ai tubi dell'acqua, una volta così innocui, anche le mototosatrici d'erba sono state munite di particolari dispositivi per cospargere gli insetticidi: questi formano una nube di vapori tossici man mano che il proprietario del giardino procede nella sua opera di taglio. Tale forma di disinfestazione fa sì che le minutissime particelle di insetticida si volatilizzino e, all'insaputa di chi presceglie quel potente tossico, vadano ad aggiungersi ai gas di scarico emessi dai tubi di scappamento delle automobili, portando l'inquinamento dell'aria di certe zone periferiche ad un livello che solo poche grandi città raggiungono eccezionalmente. E ben poco si dice dei rischi di questa bella usanza di cospargere le nostre case di insetticidi ed i nostri giardini di veleni. Le precauzioni da prendere sono scritte sulle etichette a caratteri così piccoli, che pochi si prendono la briga di leggerle e di tener conto di quegli avvertimenti. Di recente una ditta ha voluto svolgere un'indagine per vedere quanti veramente fossero coloro che leggevano le prescrizioni: non più del 15% delle persone, che fanno uso di insetticidi a spruzzo o ad "aerosol", è almeno al corrente delle prescrizioni date sui recipienti. Frattanto gran parte dei comuni ha dichiarato guerra ad un'erba, il Panicum sanguinale, che deve andar distrutta a qualsiasi costo: in ogni villa e in ogni casa si vedono i sacchetti delle infinite specie di disinfestante da disseminare sui prati per liberarli da tanto disprezzata vegetazione. Questi erbicidi chimici vengono venduti sotto nomi di fabbrica che nascondono la vera natura del prodotto e, per sapere che contengono clordano o dieldrina, bisognerebbe leggere ciò che sta scritto a caratteri piccolissimi su un angolino del sacchetto; né è possibile attingere istruzioni più chiare nei negozi di utensileria agricola o di sementi che vendono gli antiparassitari: negozi tappezzati di cartelli pubblicitari che ci mostrano la solita scenetta familiare del babbo e del figlio più grandicello intenti a riempire l'irroratore, mentre un bambinello rincorre il suo cagnolino in mezzo alle aiuole. Un problema che oggi suscita accese discussioni è quello dei residui chimici contenuti nel nostro cibo. L'industria sostiene che la questione ha un'importanza trascurabile, e spesso arriva perfino a negarne l'esistenza. Contemporaneamente va crescendo il numero dei "fanatici" e degli "schifiltosi" che si lamentano se un po' di veleno insetticida condisce le loro pietanze. Tra queste due opposte tendenze, qual è la realtà dei fatti? Come anche il buon senso ci dice, è stato clinicamente stabilito che le persone nate e vissute prima dell'era del Ddt" (cioè prima del 1942) non presentavano alcuna traccia di questo tossico o di sostanze affini nel loro corpo. Come si è già detto nel capitolo Iii, i campioni di tessuto adiposo prelevati in individui scelti a caso, dal 1954 al 1956, contenevano una quantità di Ddt oscillante in media tra le 5,3 e le 7,4 p.p.m'. Vi sono prove che il livello medio di tale contaminazione ha subìto un notevole incremento da allora ad oggi; naturalmente le persone che per ragioni di lavoro od altro sono a contatto diretto con gli insetticidi subiscono un danno ancora maggiore. Si può ritenere quasi certo che la maggior parte delle persone non soggette ad intense esposizioni di Ddt ha accumulato il tossico nei tessuti adiposi attraverso gli alimenti. Per confermare questa ipotesi, un gruppo di ricercatori dello United States Public Health Service scelse, qualche tempo fa, un certo numero di ristoranti e di istituti e prelevò un campione del pasto normale che essi fornivano ai clienti o agli ospiti. Ebbene, risultò che ogni pietanza conteneva Ddt; e gli investigatori conclusero, logicamente, che "il Ddt è presente nella maggior parte, se non nella totalità, dei nostri cibi». La quantità dei residui che contaminano gli alimenti diventa, a volte, enorme. Un'altra particolare indagine del Public Health Service ha permesso di scoprire nella frutta cotta somministrata nelle nostre carceri una quantità di Ddt pari a 69,5 p.p.m. e, nel pane, ben 100,9 p.p.m'! Nella normale dieta casalinga la carne ed i prodotti derivati dai grassi animali contengono la più alta dose di residui di idrocarburi clorurati, perché tali sostanze si sciolgono molto facilmente negli strati adiposi. Nella frutta e nella verdura la quantità di residui è un po' inferiore; però resta pericolosa dato che non può venir rimossa da alcun lavaggio. L'unico modo di sfuggire al pericolo consiste nella completa asportazione della parte esterna; se si tratta di cespi d'insalata o di cavoli bisogna togliere e gettar via le prime foglie; quanto alla frutta, essa deve essere sempre sbucciata. Va tenuto presente che la cottura non elimina il pericolo. Il latte figura tra i pochi elementi soggetti alle norme della Food and Drug Administration, che ne proibiscono lo smercio qualora risultino infetti da tracce di insetticida. Però, nella realtà, ogni qualvolta si fa un'ispezione, ecco che se ne trovano residui. Il burro ed i prodotti caseari sono quelli che ne contengono in maggior quantità. Un controllo eseguito nel 1960 su 461 campioni di varie specie di latticini comprovò che un terzo di essi conteneva residui tossici, ciò che indusse la Food and Drug Administration a definire "scoraggiante" la situazione. Sembra proprio che, per procurarci cibi esenti dalla minaccia del Ddt e di prodotti chimici similari dovremmo trasferirci in una terra lontana e completamente selvaggia, rinunciando a tutte le comodità della vita moderna: ma, nell'intero territorio statunitense, un rifugio di questo genere esiste oggi forse soltanto sulle remote spiagge artiche dell'Alaska, ed anche quelle regioni stanno per essere invase da ombre sinistre. Ricerche effettuate sul regime alimentare degli eschimesi che abitano lassù non misero in evidenza alcuna traccia di tossicità nei loro cibi: il pesce fresco od essiccato, il grasso, l'olio e le carni di castoro, di beluga (balena bianca), di caribù, di alce, di oogruk, d'orso bianco, di tricheco e, tra le piante, le bacche di Vaccinium oxycoccos, (1) i sorosii del rovo ed il rabarbaro selvatico apparivano incontaminati (unica eccezione: un paio di barbagianni catturati a Point Hope, che avevano accumulato una modesta quantità di Ddt nei tessuti, forse durante una migrazione). Il controllo effettuato su campioni di tessuto adiposo prelevati dagli stessi eschimesi rivelò la presenza di lievissime tracce di Ddt (da 0 a 1,9 p.p.m.). La ragione di ciò parve chiara: quegli eschimesi avevano (1) Una specie di mirtillo. ?N'd'T'* dovuto lasciare i loro villaggi natii e trasferirsi ad Anchorage, nell'ospedale dello United States Public Health Service per sottoporsi a interventi chirurgici. Durante la degenza, la "civiltà" aveva prevalso: venne accertato che il cibo somministrato ai pazienti conteneva non meno Ddt di quello delle città più popolose. Fu così che, per quel loro breve soggiorno in mezzo alla gente civile, quei poveretti ricevettero in cambio una buona dose di veleno. Il fatto che ogni cibo da noi ingerito ci trasmetta il suo carico di idrocarburi clorurati è l'inevitabile conseguenza delle enormi quantità di antiparassitari cosparsi sulle colture agricole per mezzo di irrorazioni o di polverizzazioni. Se il coltivatore si attenesse scrupolosamente alle prescrizioni indicate sulle etichette dei recipienti, i suoi raccolti non presenterebbero tracce di prodotti chimici in quantità superiore a quella permessa dalla Food and Drug Administration. Lasciamo da parte per il momento la questione se queste dosi ammesse sono effettivamente così "innocue" come ci viene assicurato; rimane il fatto ben noto che gli agricoltori, molto spesso, si lasciano andare ad eccessi: cospargono una quantità esagerata di insetticidi e anche nel periodo che precede immediatamente il raccolto usano diversi prodotti, mentre uno solo di essi sarebbe sufficiente; e, d'altra parte, si sforzano ben poco la vista per leggere le avvertenze scritte a caratteri piccolissimi. Perfino i dirigenti dell'industria chimica ammettono gli abusi frequenti che vengono commessi, e riconoscono la necessità di impartire adeguate istruzioni ai coltivatori. "Molti agricoltori", ha sottolineato di recente un'autorevole rivista tecnica, "non si rendono conto che, cospargendo gli insetticidi in quantità superiore a quella raccomandata, rischiano di superare il limite della tollerabilità; l'impiego sconsiderato degli insetticidi può essere attribuito ad un semplice capriccio degli agricoltori". Negli archivi della Food and Drug Administration figura un numero preoccupante di tali arbitri. Bastino pochi esempi ad illustrare come le vigenti disposizioni vengano tranquillamente trasgredite: un orticoltore ha irrorato la sua lattuga non con uno, ma con ben otto tipi differenti di insetticida, e pochissimo tempo prima del raccolto; uno spedizioniere si è permesso di cospargere il sedano con il micidiale parathion in quantità ben cinque volte maggiore di quella prescritta come dose massima; certi coltivatori hanno impiegato l'endrina - il più tossico tra tutti gli idrocarburi clorurati - per disinfestare l'insalata, pur sapendo che, per legge, la verdura non ne deve contenere neppure la più piccola traccia; altri non si sono trattenuti dal disseminare Ddt sugli spinaci appena una settimana prima di raccoglierli. Né mancano i casi di contaminazione accidentale. Ingenti quantitativi di caffè non ancora tostato, messi in sacchi di juta, sono rimasti contaminati durante il trasporto marittimo, perché nella stessa stiva si trovava un carico di insetticidi. Spesso, nei depositi di commestibili, i cibi imballati vengono sottoposti a ripetuti trattamenti "aerosol" di Ddt, di lindano e di altri composti analoghi, che possono filtrare oltre l'involucro e depositarsi in quantità rilevanti sulle derrate; e più a lungo questi alimenti restano nei magazzini, più aumenta il pericolo della loro contaminazione. A chi ci domanda: "Ma il governo non ci protegge, dunque, contro un tale stato di cose?", dobbiamo rispondere che esso lo fa, ma in misura del tutto inadeguata. L'attività della Food and Drug Administration per la tutela del consumatore contro gli insetticidi va incontro a due ostacoli: il primo è determinato dal fatto che essa ha mano libera soltanto sui generi alimentari trasportati da uno stato all'altro; tutto ciò che viene prodotto e smerciato entro i confini di ogni singolo territorio statale sfugge alla sfera della sua autorità, qualunque sia l'eventuale infrazione commessa. Il secondo impedimento, ancor più limitante del primo, è il numero assolutamente irrisorio degli ispettori di cui questo ente dispone (meno di 600), per svolgere un compito infinitamente vario. Secondo un funzionario di tale amministrazione, soltanto una minima parte della produzione agricola destinata al commercio interstatale - molto meno dell'1% - può venir controllata, data l'insufficienza dei mezzi e dell'organico; e ciò non basta per essere statisticamente importante. Quanto alle scorte alimentari prodotte e consumate all'interno dei singoli stati, la situazione è ancora peggiore, poiché quasi dappertutto la legislazione locale che regola la materia palesa un'incredibile precarietà. Del resto anche il metodo che serve alla Food and Drug Administration per stabilire i limiti massimi ammissibili di contaminazione - ossia, come suol dirsi, la "tollerabilità" - appare alquanto difettoso. Nella maggior parte dei casi, esso ci dà la garanzia di sicurezza solo sulla carta e serve a diffondere l'opinione del tutto ingiustificata che siano stati fissati limiti di tollerabilità che nessuno tenterà di oltrepassare. Di fronte a queste misure di "sicurezza" che consentono una spruzzatina di veleno sui nostri cibi - un po' sulla minestra, un po' sulla carne ed ancora un pizzico sul contorno e sulla frutta - molta gente contesta, opponendo ragioni altamente persuasive, che nessun veleno è innocuo o piacevole sui cibi. Per stabilire il livello di "tollerabilità", la Food and Drug Administration si vale di prove di avvelenamento effettuate su animali di laboratorio e fissa un massimo ammissibile di contaminazione molto inferiore alla dose necessaria per produrre in essi sintomi di intossicazione. Tale procedimento, che viene ritenuto sufficiente per assicurare la nostra immunità, trascura però alcuni fatti importanti: un animale di laboratorio, che vive in condizioni controllate ed innaturali, ed ingerisce un quantitativo noto di sostanze tossiche, si trova in una situazione del tutto diversa da quella dell'uomo che è esposto innumerevoli volte agli insetticidi, spesso in maniera ignota, incontrollabile ed incommensurabile. Anche se le 7 p.p.m' di Ddt contenute nella lattuga da noi consumata durante il pranzo rappresentano un quantitativo "innocuo", bisogna considerare che pure gli altri cibi compresi nel nostro pasto possiedono la loro parte "ammessa" di tossico, e per di più, come abbiamo visto, le tracce rimaste sugli alimenti costituiscono una parte, e probabilmente una piccola parte, della esposizione complessiva agli insetticidi cui siamo sottoposti. Questo continuo accumulo di sostanze chimiche provenienti da varie fonti determina una contaminazione globale difficile da valutare, ma nondimeno sufficiente per permetterci di considerare un non senso la presunta "innocuità" delle dosi di veleno presenti in ogni singola pietanza. Esistono poi altri motivi di perplessità. Gli indici di "tollerabilità" sono stati stabiliti, a volte, senza tener conto del giudizio emesso dagli scienziati della Food and Drug Administration (come si vedrà nell'esempio citato nel cap. Xiv), oppure basandosi su una conoscenza inadeguata delle sostanze chimiche prese in esame. In qualche caso il miglioramento delle cognizioni ha permesso un'opportuna rettifica o addirittura l'abolizione della "tollerabilità"; però, fino a quel momento, la gente era rimasta esposta per mesi e per anni a dosi di cui in seguito venne ammessa la pericolosità. Per l'eptacloro, ad esempio, venne dapprima stabilito un livello di tollerabilità che più tardi fu necessario revocare. Inoltre, per qualche composto, non esiste alcun metodo sperimentale di analisi prima che esso sia registrato nell'elenco dei prodotti per uso comune, e pertanto gli ispettori della Food and Drug Administration si trovano nell'impossibilità di compiere le loro ricerche (caratteristiche, a questo proposito, le difficoltà che si dovettero superare quando entrò in uso l'amminotriazolo, destinato alla repressione del vaccino delle paludi). Mancano pure metodi analitici per alcuni fungicidi di comune impiego nel trattamento delle sementi - sementi che, quando non sono adoperate per le piantagioni, vengono spesso immesse nel consumo alimentare. Insomma, ammettere la tollerabilità di un prodotto è autorizzare la contaminazione di ciò che mangiamo, a tutto vantaggio degli agricoltori e dei grossisti, i quali hanno così una produzione meno costosa, e penalizzare i consumatori che, come contribuenti, pagano quindi di propria tasca il mantenimento di un servizio pubblico incapace di allontanare dalle nostre mense i cibi contenenti dosi mortali di veleno. Tuttavia, data la quantità e la tossicità degli antiparassitari cosparsi oggigiorno sui campi, un controllo efficiente risulterebbe così oneroso ed esigerebbe tale inasprimento fiscale che il legislatore lascia le cose come stanno, ed il cittadino finisce per pagare le tasse e ricevere inconsciamente il veleno. Quale soluzione si può, allora, prospettare? Il primo passo da compiere è l'eliminazione dei permessi di impiego degli idrocarburi clorurati, del gruppo degli insetticidi organici a base di fosforo e di altri composti ugualmente tossici. Si obietterà che ciò creerebbe un imbarazzo insostenibile nei coltivatori. Ma se si pensa (come pare si stia facendo) di disciplinare l'impiego delle sostanze chimiche in modo tale che esse lascino un residuo di 7 p.p.m. (dose tollerata per il Ddt) o di 1 p.p.m. (dose tollerata per il parathion) o addirittura di sole 0,1 p.p.m. per la dieldrina presente su molta frutta e verdura, perché non dovrebbe essere possibile, con qualche ulteriore accorgimento, eliminare del tutto ogni traccia di residuo? Del resto già adesso vige questa prescrizione per certi prodotti usati in agricoltura come l'eptacloro, l'endrina o la dieldrina. Se essa è considerata utile in questi casi, perché allora non in tutti? Ma questa è soltanto la parte formale della soluzione, perché consiste in una norma scritta su un pezzo di carta, ed abbiamo già visto che il 99% del commercio interstatale di prodotti alimentari sfugge a qualsiasi ispezione di controllo. Occorre pertanto che il numero degli ispettori della Food and Drug Administration venga notevolmente aumentato, in modo da permettere una vigilanza efficace e tempestiva. Tuttavia questo sistema di avvelenare deliberatamente il nostro cibo e poi vigilarne le conseguenze ci ricorda da vicino i tentativi del White Knight ?Il cavaliere bianco* di Lewis Carroll, il quale "voleva dipingere a qualcuno i baffi di verde ma adoperava un pennello così grande che non riusciva più a vederli". La soluzione estrema è quella di ricorrere a sostanze chimiche molto meno tossiche e di ridurre, così, ad un'entità trascurabile il rischio cui oggi siamo esposti per il cattivo uso che di esse facciamo. Queste sostanze esistono già: piretrine, rotenone, "ryania", o altri derivati di origine vegetale. La produzione delle piretrine sintetiche è stata sviluppata di recente così da poter soddisfare il fabbisogno del mercato; occorre, dunque, istruire la gente perché impari a conoscere la natura dei prodotti chimici che usa. Oggi l'acquirente è completamente disorientato in mezzo alla congerie di insetticidi, fungicidi ed erbicidi che trova in commercio, e non possiede le cognizioni necessarie per poter scegliere tra quelli che sono mortali e quelli meno pericolosi. Ma, insieme con l'adozione di antiparassitari agricoli meno tossici, dobbiamo anche studiare con attenzione le possibilità che offrono i mezzi di controllo naturale. In California è stato già applicato con successo il metodo di combattere certi tipi di insetti ricorrendo a batteri specifici, che diffondono tra essi malattie sterminatrici; ed altri tentativi dello stesso genere vengono sperimentati di continuo. Numerose altre possibilità di controllare efficacemente le infestazioni dei parassiti mediante un sistema che non lascia alcun residuo sui prodotti alimentari (vedi cap. Xvii) esistono pure. Il giorno in cui tale sistema verrà applicato su larga scala ci sarà finalmente concesso di trarci fuori da una situazione che, come dice il buon senso, è intollerabile per ogni verso. Ma per il momento dovremo adattarci a vivere in una condizione non molto migliore di quella in cui si trovavano gli ospiti dei Borgia. Capitolo dodicesimo - Paghiamo a caro prezzo la nostra mania insetticida A mano a mano che la valanga dei prodotti chimici di questa nostra "Era industriale" ha sepolto l'ambiente in cui viviamo, si è verificato un radicale cambiamento nella natura dei problemi più gravi che riguardano la salute pubblica. Fino a ieri, si può dire, il genere umano viveva nella costante paura di flagelli come il vaiolo, il colera o la peste che un tempo sterminavano intere popolazioni. Ormai le nostre preoccupazioni non sono più rivolte verso gli agenti di malattie che erano onnipresenti in passato: l'igiene, il miglioramento delle condizioni di vita e la produzione di nuovi medicinali ci consentono un'efficace protezione contro le malattie infettive. Oggi le nostre apprensioni sono determinate da un rischio di tutt'altro genere, un rischio che ci sovrasta e che noi stessi abbiamo creato, ed è aumentato di pari passo con l'evolversi del nostro modo di vivere. I nuovi problemi sanitari, relativi all'ambiente che ci circonda, sono molteplici: essi sono creati dalla radioattività in tutte le sue forme e, non meno, dall'infinito flusso di prodotti chimici (ivi compresi gli insetticidi) che inonda la terra su cui viviamo e ci colpisce in modo diretto od indiretto, cumulativamente o separatamente. La loro presenza incombe su noi come uno spettro che non è meno sinistro perché è informe ed oscuro, non meno terrificante perché semplicemente non possiamo prevedere con certezza quali effetti provochi in noi, dalla nascita alla morte, l'esposizione ad agenti chimici e fisici che non fanno parte della nostra esperienza biologica. "Noi tutti viviamo", afferma il dott. Price dello United States Public Health Service, "sotto l'ossessionante paura che qualcosa possa guastare il nostro ambiente fino al punto in cui l'uomo scomparirà come scomparvero a loro tempo i dinosauri; e ciò che rende questa prospettiva ancor più angosciosa è il sapere che il nostro destino potrebbe essere segnato già venti e più anni prima del manifestarsi di qualsiasi sintomo". Dove vanno collocati gli insetticidi nel quadro delle malattie ambientali? Abbiamo visto che essi contaminano ora il suolo, le acque ed i cibi, e che uccidono i pesci dei nostri fiumi e privano i giardini ed i boschi del canto degli uccelli. L'uomo non può aspettarsi una sorte diversa da quella che ha colpito gli altri animali, perché anch'esso fa parte della natura. Come possiamo, infatti, sfuggire ad un inquinamento che si diffonde su tutta la Terra? Sappiamo che anche una singola esposizione a certe sostanze chimiche, purché la loro tossicità sia abbastanza elevata, può provocare una forma acuta di avvelenamento. Ma non è questo il problema più importante. Le improvvise malattie ed i decessi di persone come agricoltori, piloti di aerei usati per la disinfestazione e di altri che sono esposti a notevoli concentrazioni di insetticida sono tragiche e non dovrebbero succedere. Per quanto riguarda la popolazione nel suo insieme, dovremmo considerare, invece, l'altro aspetto, ben più preoccupante, della questione: gli effetti a lunga distanza della quotidiana intossicazione cui siamo soggetti, attraverso l'assorbimento di piccoli quantitativi di antiparassitari che, invisibilmente, contaminano il nostro mondo. Alcuni ufficiali sanitari responsabili della salute pubblica hanno sottolineato che gli effetti biologici dei prodotti chimici si accumulano per lunghi periodi di tempo, e che il rischio per ogni singolo individuo è proporzionale alla quantità di esposizioni subìte durante la vita. Perciò la gravità del pericolo viene sottovalutata; è infatti un tratto caratteristico della natura umana quello di sottovalutare tutto ciò che costituisce una minaccia per il lontano futuro. "Gli uomini", afferma il dott. Dubos, un medico di chiara fama, "si preoccupano più delle malattie che si manifestano chiaramente, mentre qualcuno dei loro peggiori nemici continua, indisturbato, a strisciare su di essi. Per ciascuno di noi, come per i pettirossi del Michigan o per i salmoni del Miramichi, il problema resta sempre uno: un problema di ecologia, di correlazione e di interdipendenza. Avveleniamo le larve dei Tricotteri che galleggiano sull'acqua d'una corrente ed i salmoni diminuiscono e muoiono; avveleniamo le zanzare di un lago ed il tossico, passando da un anello all'altro della catena alimentare, contamina alla fine gli uccelli che vivono sulle sue sponde. Irroriamo i nostri olmi e, la primavera seguente, più nessun pettirosso canterà tra le fronde, e non perché l'insetticida abbia intossicato direttamente gli uccelli, ma perché si è trasmesso, passo passo, attraverso l'ormai noto ciclo foglie-lombrico-pettirosso. Si tratta d'una vicenda che ognuno di noi può osservare perché fa parte d'una realtà ben visibile dei mondo fenomenico: la realtà di quel complesso intreccio di vita - o di morte - che gli scienziati chiamano ecologia. Ma esiste anche un'ecologia del mondo che è racchiuso in noi. In questo mondo invisibile piccole cause possono produrre clamorosi effetti - effetti di cui, spesso, non riusciamo a rintracciare la causa perché si manifestano in una parte del corpo molto distante dalla zona che è stata direttamente colpita. "Un cambiamento in un sol punto", si legge in un recente compendio sullo stato attuale della ricerca medica, "e perfino in una singola molecola, può riflettersi attraverso l'intero sistema e comportare mutamenti in organi e tessuti, in apparenza privi di qualsiasi relazione con esso. Chi si occupa del misterioso e mirabile funzionamento del corpo umano, sa che le relazioni tra causa ed effetto sono raramente semplici e facilmente dimostrabili. Esse possono anzi essere ampiamente separate come spazio e tempo. Per scoprire il fattore che ha determinato la malattia o la morte del paziente, occorre mettere insieme un complesso di fatti, apparentemente diversi e slegati fra loro, attraverso una ricerca molteplice in campi ben distinti. Siamo abituati a considerare gli effetti appariscenti ed immediati e trascuriamo tutto il resto; neghiamo l'esistenza del rischio a meno che esso non si manifesti in una forma così grave e palese da non poter essere ignorata. I ricercatori stessi sono handicappati dalla precarietà dei metodi in loro possesso per scoprire le origini di una determinata lesione. La mancanza di mezzi d'indagine sufficientemente raffinati per individuare un danno prima che se ne manifestino i sintomi è uno dei problemi più importanti e non risolti della medicina. "Eppure", qualcuno obietterà, "ho cosparso più volte le mie aiuole con la dieldrina, senza mai essere stato preso da quelle convulsioni che hanno colpito, invece, gli uomini della World Health Organization: quindi non mi deve aver fatto male". Ciò non vuol dire: tutti coloro che maneggiano sostanze del genere accumulano incontestabilmente residui tossici nel loro corpo, anche se non si registrano sintomi subitanei e drammatici. Gli idrocarburi clorurati, come abbiamo visto, si depositano cumulativamente fin dalla prima minima contaminazione. Tutti i materiali tossici si stanziano stabilmente negli strati adiposi e, quando questi vengono consumati, il veleno si libera e colpisce istantaneamente. Un esempio ci è stato recentemente fornito da una rivista medica neozelandese: un uomo che stava facendo una cura contro l'obesità rivelò improvvisamente gravi sintomi di intossicazione; le analisi chimiche dei tessuti adiposi di quell'individuo accertarono la presenza d'un deposito di dieldrina, che la perdita di peso (cioè di grassi) aveva messo in circolo. Casi analoghi a questo si possono verificare durante le malattie che comportano un certo dimagramento. D'altronde, le conseguenze di questo accumulo di sostanze tossiche possono anche essere meno evidenti. Parecchi anni fa il Journal dell'American Medical Association mise in guardia i suoi lettori contro i pericoli insiti nell'accumulo di insetticidi nei tessuti adiposi, sottolineando la necessità di adottare le maggiori cautele nell'impiego dei medicinali e dei prodotti chimici che hanno tendenza ad accumularsi nel corpo umano. Il tessuto adiposo, come sappiamo, non è una semplice sede destinata ad accogliere il deposito di grasso (il quale costituisce, in media, il 18% del peso corporeo), ma assolve importanti funzioni che possono venire alterate dalla presenza di sostanze tossiche. Inoltre, i grassi hanno una larga diffusione negli organi e nei tessuti dell'intero corpo, e si trovano nelle membrane delle cellule. Non dobbiamo, quindi, dimenticare che gli insetticidi solubili nei grassi vengono immagazzinati in ogni singola cellula, dove possono interferire direttamente sulle funzioni più vitali e necessarie, quali l'ossidazione e la produzione di energia. Parleremo nel prossimo capitolo di questo fondamentale aspetto del problema. Uno degli effetti più notevoli degli idrocarburi clorurati è quello prodotto sul fegato. Nessun organo del corpo regge il confronto con il fegato per la versatilità e la natura indispensabile delle funzioni che compie. Esso presiede ad un tal numero dì attività vitali che anche il più lieve danno inferto ad esso si ripercuote con gravi conseguenze. Quest'organo non solo produce la bile necessaria per la digestione dei grassi ma, grazie alla sua posizione e al particolare sistema vascolare che vi converge, riceve direttamente il sangue dall'apparato digerente ed è profondamente coinvolto nel metabolismo di tutte le principali sostanze alimentari. In esso, inoltre, gli zuccheri si depositano sotto forma di glicogeno, e vengono liberati come glucosio in quantità esattamente commisurata con il mantenimento al giusto livello del tasso di zucchero nel sangue. Il fegato, poi, sintetizza le proteine corporee, tra cui alcuni elementi del plasma importanti per la coagulazione sanguigna. Sempre nel sangue, esso ha anche il compito di mantenere ad un livello normale il colesterolo e di inattivare gli ormoni maschili e femminili quando essi sono in sovrabbondanza. Rappresenta, infine, una riserva ideale di molte vitamine, alcune delle quali, a loro volta, contribuiscono al suo funzionamento. Se il fegato non funziona regolarmente, il corpo resta inerme ed indifeso contro un grande numero di sostanze tossiche che continuamente lo aggrediscono. Alcuni di questi veleni sono normali sottoprodotti del metabolismo che tale organo, rapidamente ed efficacemente, rende innocui privandoli del loro pericoloso contenuto di azoto. Ma anche altre sostanze tossiche, che non si trovano normalmente nel corpo, possono pure essere neutralizzate; certi insetticidi "innocui", come il malathion ed il metossicloro, sono meno velenosi dei loro confratelli soltanto perché un enzima del fegato reagisce su essi, alterandone le molecole in modo tale da ridurne la pericolosità. Un'azione analoga viene svolta dal fegato nei confronti della maggior parte delle materie tossiche cui siamo esposti quotidianamente. Questa nostra barriera difensiva contro i veleni esterni e contro quelli che si formano nell'interno del nostro corpo sta ora vacillando e, forse, è prossima a crollare. Un fegato danneggiato dalla presenza di insetticidi diventa non soltanto incapace di proteggerci dalle intossicazioni, ma inadatto ad assolvere le altre sue molteplici attività. Gli effetti non solo si ripercuotono a grande distanza di tempo ma, per la loro grande varietà e per il fatto che possono non comparire immediatamente, vengono talvolta attribuiti ad una causa errata. E' interessante notare, in connessione con l'ormai quasi universale impiego di insetticidi insidiosi per il fegato, il brusco aumento dei casi di epatite che ha avuto inizio verso il 1950 e sta proseguendo in una irregolare ascesa. Le cirrosi, a quanto sembra, sono diventate esse pure più frequenti. Anche se si può difficilmente provare sull'uomo - come invece si fa sugli animali di laboratorio - che una certa causa A produce un determinato effetto B, il senso comune ci induce a considerare non casuale la coincidenza d'un così elevato numero di malattie del fegato con l'aumento dei prodotti tossici per esso nell'ambiente che ci circonda. E' difficile stabilire se la responsabilità diretta d'un tale incremento di morbilità si debba attribuire agli idrocarburi clorurati; in ogni caso, nelle attuali condizioni, sembra davvero una cosa insensata esporre continuamente il nostro corpo a sostanze tossiche che hanno sicuramente conseguenze nefaste sul fegato e rendere così questo organo meno resistente alle malattie. Entrambi i tipi più importanti di insetticidi - i fosfati organici e gli idrocarburi clorurati - attaccano, seppure in forme un po' diverse, il sistema nervoso, come è stato provato da migliaia di esperimenti su animali ed anche su alcune osservazioni compiute sull'uomo. Il Ddt, il primo antiparassitario organico impiegato su larga scala, colpisce soprattutto il sistema nervoso centrale dell'uomo; si ritiene che le zone maggiormente colpite siano il cervelletto e l'area corticale motrice. Secondo i normali trattati di tossicologia, l'esposizione ad un quantitativo abbastanza elevato di questo insetticida provoca una sensazione di trafittura, arsura e prurito, come pure tremiti o, perfino, convulsioni. Le prime conoscenze sui sintomi dell'avvelenamento acuto da Ddt ci vennero fornite da vari ricercatori inglesi che si assoggettarono volontariamente ad alcune esposizioni per studiarne le conseguenze. Due scienziati del British Royal Navy Physiological Laboratory facilitarono l'assorbimento di Ddt attraverso la pelle, per diretto contatto con le pareti di una stanza che erano state verniciate con una tinta ad acqua contenente il 2% di Ddt e ricoperta da una sottile pellicola oleosa. Ecco l'eloquente descrizione dei sintomi che ciascuno riscontrò su se stesso, a riprova degli effetti subìti dal sistema nervoso: "la spossatezza, la pesantezza ed il dolore delle membra erano considerevoli e lo stato mentale altrettanto penoso... ?abbiamo constatato* un'estrema irritabilità... ed una grande svogliatezza per il lavoro di qualsiasi genere... nonché una sensazione d'incapacità ad affrontare il più semplice quesito. Il dolore alle giunture in certi momenti diventava intollerabile". Un altro ricercatore inglese, che applicò sul proprio corpo Ddt diluito in acetone, dichiarò di averne riportato una sensazione di grande stanchezza, dolori agli arti, debolezza muscolare e "spasmi di estrema tensione nervosa". Egli si concesse un periodo di riposo, e parve rimettersi in salute ma, non appena riprese a lavorare, le sue condizioni peggiorarono di nuovo e lo costrinsero ancora a letto per tre settimane in condizioni pietose per le costanti trafitture alle membra, l'insonnia, la tensione nervosa ed un senso di continua ansietà. Di quando in quando, tremiti violenti gli scuotevano tutto il corpo, tremiti simili a quelli che oggi si osservano frequentemente negli uccelli intossicati da Ddt. Dopo due mesi egli poté riprendere la propria attività, ma la sua guarigione non appariva completa neppure un anno più tardi, quando il caso venne riferito da una rivista medica britannica. (Nonostante tali prove evidenti, numerosi ricercatori statunitensi, che effettuarono un esperimento con Ddt su persone offertesi volontariamente, si ostinarono a ravvisare "origini chiaramente psiconeurotiche" nel mal di testa e nel "dolore in tutte le ossa", lamentati dai pazienti.) Possediamo ora un'abbondante casistica, secondo cui gli stessi sintomi e l'intero corso della malattia accusano gli insetticidi come vera causa. Quando un individuo, rimasto vittima di una esposizione ad un determinato insetticida, viene curato, la prima cosa da farsi è quella di tenerlo lontano da quel genere di prodotto; si vede allora che i sintomi tendono a scomparire, e si vede che tornano a presentarsi appena egli entra di nuovo in contatto con le sostanze chimiche responsabili dei suoi disturbi. Questa prova - da sola - costituisce la base di un vasto numero di cure mediche anche per numerosi altri disturbi. Non c'è dunque alcuna ragione perché essa non debba servire anche come ammonimento onde cessi questa specie di "rischio calcolato" che consente la immissione di tante sostanze velenose nell'ambiente che ci circonda. Perché tutti coloro che maneggiano od usano gli insetticidi non provano gli stessi disturbi? V'è anzitutto una ragione di minore o maggiore sensibilità individuale: vi sono alcune prove che depongono per una maggior suscettibilità delle donne nei riguardi degli uomini, dei giovani rispetto agli adulti, di coloro che conducono una vita sedentaria e al chiuso, rispetto a quelli che fanno una vita movimentata di lavoro, o stanno all'aria aperta. Ma, oltre a queste differenze, se ne danno anche altre che non sono meno reali per il semplice fatto che sono intangibili. Quali cause rendono allergico un individuo alla polvere o al polline, o particolarmente sensibile ad un veleno, o suscettibile ad un'infezione, mentre altri restano refrattari? E' un mistero che la medicina non è riuscita fino ad oggi a svelare. Questo problema, tuttavia, esiste e coinvolge un gran numero di persone. Molti medici affermano che un terzo o anche più dei loro clienti manifesta sintomi di qualche malessere, ed il numero tende ad aumentare. Purtroppo, anche gli individui che fino ad un certo momento hanno mostrato una scarsa sensibilità possono, ad un tratto, reagire bruscamente. Alcuni specialisti ritengono, infatti, che l'esposizione intermittente agli effetti delle sostanze chimiche determini una sensibilizzazione del genere. Se ciò è vero, si spiega perché, in generale, le persone continuamente esposte per ragioni di lavoro all'azione di composti velenosi non rivelino all'analisi grandi effetti tossici; esse, grazie al loro costante contatto con i prodotti velenosi, si sono desensibilizzate, alla stessa stregua di un paziente affetto da una forma allergica, che viene guarito attraverso l'iniezione di piccoli e ripetuti quantitativi dell'antigene. L'intero problema dell'avvelenamento da insetticidi è poi complicato dal fatto che noi - a differenza degli animali di laboratorio, sottoposti a condizioni rigidamente controllate - non subiamo mai il contatto di un solo tipo di tossico. Tra i più importanti antiparassitari (e tra essi ed altre sostanze chimiche) si sviluppano interazioni di vasta portata. Questi differenti prodotti, quando sono riversati nel suolo, nell'acqua o nel sangue umano, non restano separati, ma sviluppano misteriosi ed invisibili mutamenti, attraverso cui moltiplicano la loro pericolosità. Vi è interazione anche tra i due maggiori gruppi di insetticidi - i quali, a quanto si ritiene, hanno una modalità di azione nettamente distinta. La potenza dei fosfati organici - questi nefasti distruttori della colinesterasi, l'enzima protettivo dei nervi - diventa ancor più pericolosa se il nostro corpo è stato esposto in precedenza ad uno di quei terribili idrocarburi clorurati che, come abbiamo visto, colpiscono il fegato: e ciò perché, quando le funzioni di quest'organo vengono alterate, il livello della colinesterasi scende al disotto del limite normale. In tale evenienza gli effetti depressivi causati dai fosfati organici possono essere sufficienti a provocare sintomi acuti. Come abbiamo visto, due insetticidi, entrambi appartenenti a questo gruppo, interagiscono in modo tale da centuplicare la loro tossicità singola. Ed, infine, può accadere che un fosfato organico interagisca con vari prodotti farmaceutici, oppure con prodotti sintetici, additivi alimentari - e chi può mai dire con quali altri preparati tra le infinite sostanze che l'uomo crea e cosparge nel mondo? Anche gli effetti d'un prodotto chimico ritenuto innocuo possono mutare radicalmente sotto l'azione d'un altro composto; e l'esempio migliore ci viene fornito dal metossicloro, parente stretto del Ddt (anche se, in verità, non pare poi così privo di pericolosità come si pretenderebbe, poiché certi studi recenti compiuti sugli animali hanno dimostrato che colpisce direttamente l'utero e blocca alcuni energici ormoni ipofisari - ricordandoci ancora una volta come queste sostanze abbiano un'enorme attività biologica; altri esperimenti rivelano che il metossicloro è potenzialmente dannoso per i reni). Siccome esso scarsamente si accumula nei tessuti, quando non viene cosparso insieme con altri prodotti, si dice che è un composto innocuo, ma ciò non è necessariamente vero: se il nostro fegato ha già subìto qualche contaminazione d'un tossico diverso, il metossicloro vi si accumula in una quantità ben 100 volte maggiore di quella normale, ed in tal caso provocherà sul sistema nervoso gli stessi effetti a lunga scadenza del Ddt; e la lesione epatica che provoca un tale danno può anche essere stata di così lieve entità da passare inosservata. Innumerevoli appaiono le eventualità di trovarsi in queste condizioni: basta aver cosparso un altro insetticida, oppure adoperato uno smacchiatore contenente tetracloruro di carbonio o, perfino, aver ingerito un tranquillante (che spesso - ma non sempre - è un idrocarburo clorurato e, pertanto, rappresenta una minaccia per il fegato). I danni riportati dal sistema nervoso non si limitano all'avvelenamento acuto; ve ne sono anche di quelli che si manifestano a lunga scadenza. Il metossicloro ed altri composti hanno rivelato in più casi effetti a distanza sia sul cervello che sui nervi; la dieldrina, oltre agli effetti immediati, può determinare, anche dopo un lungo intervallo, disturbi che vanno da perdita di memoria, insonnia, incubi a pazzia vera e propria". Il lindano - a quanto si rileva da alcune ricerche mediche - si deposita a sua volta in gran quantità nel cervello e nei tessuti più attivi del fegato, provocando "gravi e durature conseguenze sul sistema nervoso centrale"; e si noti che questo tossico (il quale è un esaclorobenzene) viene molto usato nelle vaporizzazioni e nelle nebulizzazioni che ricoprono ogni cosa di un velo insetticida nelle case, negli uffici e nei ristoranti. Ma anche i fosfati organici, che siamo abituati a prendere in considerazione soltanto per le loro violente manifestazioni di avvelenamento acuto, hanno il potere di causare danni fisici a lunga scadenza sui tessuti nervosi e, secondo le risultanze più recenti, determinano anche disordini mentali. Ad esempio, si sono registrati vari casi di paralisi a molti giorni di distanza dall'impiego di uno qualsiasi di questi insetticidi. Negli Stati Uniti, durante gli anni del proibizionismo (verso il 1930), accadde un fatto estremamente curioso e non privo di un sinistro presagio per il nostro futuro; non ne fu protagonista un disinfestante, ma pur sempre un prodotto appartenente anch'esso al gruppo dei fosfati organici. In quel periodo, diverse sostanze medicinali venivano manipolate in modo che potessero sostituire i liquori perché, a differenza di questi, non cadevano sotto i rigori del proibizionismo: tra le altre, si smerciava lo "zenzero della Giamaica". Certi fabbricanti clandestini, siccome i prodotti contemplati dalla Farmacopea degli Stati Uniti venivano a costar troppo, pensarono di sostituire lo "zenzero della Giamaica" con un surrogato, e vi riuscirono tanto bene che il loro prodotto artificiale rispose positivamente a tutte le prove chimiche e trasse così in inganno gl'ispettori del servizio chimico governativo. I manipolatori abusivi, per conferire al succedaneo il sapore asprigno del composto originale, avevano fatto ricorso ad una sostanza ben nota, il triortocresilfosfato che, come il parathion e i prodotti affini, distrugge un enzima protettivo, la colinesterasi. Gli effetti non tardarono a farsi sentire, ed alla fine risultò che ben 15 mila persone erano state storpiate da una forma di paralisi permanente ai muscoli delle gambe per aver bevuto la mistura preparata dai fabbricanti clandestini. Questa grave lesione è ora chiamata "ginger paralysis" (paralisi dello zenzero); essa si accompagna con la degenerazione delle cellule nei due corni anteriori del midollo spinale. Circa vent'anni più tardi vari altri fosfati organici, come abbiamo visto, entrarono nell'uso come insetticidi, e subito cominciarono a verificarsi casi che richiamarono alla memoria quanto era avvenuto al tempo del proibizionismo. Una delle vittime fu un giardiniere tedesco, che rimase paralizzato molti mesi dopo aver avuto solo lievi sintomi di intossicazione in seguito all'impiego del parathion. Si ebbe quindi il caso di tre operai d'uno stabilimento chimico, che vennero colpiti da una forma di avvelenamento acuto provocato dall'esposizione ad altri insetticidi dello stesso gruppo; furono sottoposti ad una cura immediata e guarirono. Ma, una decina di giorni più tardi, due di essi cominciarono a provare una sensazione di grande debolezza muscolare alle gambe. In uno il disturbo si protrasse per circa dieci mesi, mentre l'altro - una giovane chimica - fu più gravemente colpito, con paralisi degli arti inferiori e qualche complicazione anche alle braccia ed alle mani; due anni dopo, allorché questo fatto venne riferito da una rivista medica, quella donna non riusciva ancora a camminare. L'insetticida che aveva causato tali danni fu ritirato dal commercio, ma altri prodotti chimici di uguale pericolosità continuano ad essere oggetto della più larga diffusione. Ad esempio, il malathion (prediletto dai giardinieri) ha mostrato, nel corso di esperimenti effettuati su pulcini, di provocare notevoli atrofie muscolari che forse come nel caso della "paralisi dello zenzero" dipendono dalla distruzione della guaina del nervo sciatico e dei nervi spinali. Tutti questi gravi effetti prodotti dai fosfati organici, qualora non si prendano adeguati provvedimenti, comportano un'insidia fatale per il nostro futuro. Se si tiene conto dei danni considerevoli arrecati al sistema nervoso, si può ritenere quasi con certezza che tali insetticidi siano strettamente connessi con la diffusione delle malattie mentali; e sedici referti, emessi dagli investigatori dell'università e dell'ospedale "Prince Henry" di Melbourne, ne danno conferma. In tutti questi casi si era avuta una prolungata esposizione ai fosfati organici: si trattava di tre studiosi che avevano voluto controllare l'efficacia di alcuni disinfestanti, di otto giardinieri che lavoravano in serre e di cinque operai agricoli. I loro sintomi andavano da una semplice perdita di memoria ad altre manifestazioni più gravi, quali la schizofrenia e forme di profonda depressione psichica. Tutte le vittime avevano avuto un normale trascorso clinico prima che i tossici che stavano usando riversassero su di esse tutto il loro potere funesto e le buttassero definitivamente a terra. Echi di questo tipo di avvelenamento si ritrovano, come abbiamo visto, ampiamente diffusi qua e là nella letteratura medica, e sono da attribuire agli idrocarburi clorurati o ai fosfati organici. Confusione mentale, depressioni, perdita di memoria, pazzia ed altri gravi disturbi: ecco l'alto prezzo che dobbiamo pagare per la mania di distruggere provvisoriamente qualche insetto. Un prezzo che ci verrà richiesto finché continueremo ad usare sostanze chimiche funeste per il nostro sistema nervoso. Capitolo tredicesimo - Effetto sui meccanismi intimi della cellula Il biologo George Wald ha paragonato una volta il suo lavoro su un argomento estremamente specializzato - quale quello dei pigmenti visivi dell'occhio - ad "una feritoia attraverso la quale, da una certa distanza, si vede appena un filo di luce; però, man mano che ci si avvicina, il quadro si allarga, diventa sempre più ampio ed alla fine ci permette di scorgere un intero universo". Altrettanto avviene quando concentriamo il nostro sguardo dapprima sulle singole cellule del corpo, poi sulle minute strutture che le compongono ed infine sulle estremamente delicate reazioni molecolari che si svolgono all'interno di questi edifici: soltanto allora, dopo un esame del genere, possiamo comprendere quale serio e dilagante pericolo comporti la casuale introduzione di sostanze chimiche nel nostro interno. Le ricerche mediche si sono rivolte solo in epoca abbastanza recente all'esame delle funzioni delle singole cellule nella produzione dell'energia indispensabile alla vita. Il mirabile meccanismo che presiede al rifornimento dell'energia da noi consumata non è necessario soltanto per conservare la nostra salute, ma anche per poter vivere; esso ha un'importanza superiore a quella degli organi più vitali, perché nessuna delle funzioni del nostro corpo potrebbe essere compiuta senza il regolare e continuo realizzarsi del processo di ossidazione cui si deve il rifornimento energetico del nostro organismo. E proprio la natura di molti tra i composti chimici impiegati contro gli insetti, i roditori e le erbe infestanti è tale da colpire direttamente questo sistema, facendone derivare gravissime conseguenze per il funzionamento del suo perfetto congegno. Le ricerche che hanno condotto alle attuali conoscenze dell'ossidazione cellulare vanno considerate come una delle principali vittorie della biologia e della biochimica. La lista di coloro che vi hanno contribuito comprende molti scienziati insigniti del Premio Nobel. Un passo dopo l'altro, queste ricerche sono proseguite per un buon quarto di secolo, attingendo alcune nozioni fondamentali anche da indagini precedentemente compiute; tuttavia ancor oggi esse non sono complete in tutti i dettagli. Solo negli ultimi dieci anni i risultati raggiunti nei vari settori di ricerca hanno potuto essere riuniti in un quadro unico tale da offrire a qualsiasi studioso l'esatta nozione del processo dell'ossidazione biologica. Ciò che importa, tuttavia, è che tutti i medici usciti dalle nostre università prima del 1950 hanno avuto ben poche occasioni di rendersi conto dell'importanza critica di tale processo e dei pericoli insiti in una sua alterazione. Il lavoro basilare della produzione di energia necessaria al corpo non viene compiuto da qualche organo specializzato, ma dalla totalità delle cellule. Una cellula vivente è come una fiammata che brucia una certa quantità di combustibile per produrre l'energia che alimenta la vita. L'analogia è forse più pittoresca che precisa, perché questa combustione sprigiona solo un modesto calore, quello del corpo umano; ad ogni modo tutti questi miliardi di "fuocherelli" procurano il nostro fabbisogno energetico. Se essi si spegnessero, affermò una volta il chimico Eugenio Rabinowitch, "il cuore cesserebbe di battere, nessuna pianta potrebbe innalzarsi dal suolo contro le forze di gravità, neppure un'ameba riuscirebbe a muoversi nell'acqua, non sarebbe possibile la trasmissione delle sensazioni attraverso i nervi, ed il cervello non sarebbe più capace di formulare alcun pensiero". La trasformazione della materia in energia, all'interno della cellula, è un processo senza fine, è uno dei cicli di rigenerazione naturale che ruotano senza posa, come un congegno azionato da un moto perpetuo. Corpuscolo su corpuscolo, molecola su molecola, il combustibile (carboidrati sotto forma di glucosio) viene immesso in questo meccanismo e, durante i vari passaggi ciclici, ogni sua molecola subisce una frammentazione ed una serie di minime trasformazioni chimiche. Ed ognuno di tali cambiamenti si svolge secondo un piano ordinato, con fasi successive, dirette e controllate ciascuna da un enzima così specializzato che può compiere una funzione e quella sola. In ogni fase si ha produzione di energia e, mentre i prodotti di rifiuto (anidride carbonica ed acqua) vengono espulsi, le molecole del combustibile così trasformate passano allo stadio successivo. Al termine del ciclo, la molecola di combustibile è demolita ad un punto tale da essere pronta a ricombinarsi con una molecola subentrante per dar origine ad un nuovo ciclo identico al primo. Questo processo, in cui ogni cellula funziona come un perfetto impianto chimico in miniatura, è una delle unte meraviglie del mondo vivente; ed il fatto che tutte le parti funzionanti del meccanismo abbiano dimensioni infinitesime rende ancor più sorprendente il miracolo. Tranne rare eccezioni, le stesse cellule sono estremamente minuscole, e si possono vedere soltanto con l'aiuto del microscopio. Ora si pensi che la maggior parte del ciclo di ossidazione si svolge in uno spazio molto più piccolo, e cioè entro corpuscoli impercettibili contenuti nella cellula e chiamati mitocondri: corpuscoli noti da almeno 60 anni, ma che furono considerati come elementi cellulari di ignota e probabilmente di nessuna importanza; soltanto nel 1950 il loro studio è diventato un campo di ricerca appassionante e fecondo, ed essi hanno attirato tanta attenzione su di sé che ben mille pubblicazioni su questo solo argomento hanno visto la luce nel giro di cinque anni. E di nuovo proviamo un senso di attonito stupore di fronte all'ingegnosità davvero meravigliosa ed alla tenacia con le quali il mistero dei mitocondri è stato risolto. Immaginate una particella così piccola che a stento riuscite a vederla attraverso un microscopio a 300 ingrandimenti; pensate quindi all'abilità necessaria per isolarla, prelevarla, analizzare gli elementi che la compongono e determinarne il funzionamento estremamente complesso. Eppure tutto ciò è stato fatto grazie al microscopio elettronico ed alle moderne tecniche sperimentali della biochimica. Oggi sappiamo che i mitocondri consistono di piccoli "pacchetti" di enzimi comprendenti il completo assortimento necessario per l'intero ciclo di ossidazione, disposto in maniera precisa ed ordinata sulle pareti delimitanti, oltre che sui setti disposti internamente. I mitocondri costituiscono la "centrale termica» dove si compie la maggior parte delle reazioni che determinano la produzione di energia. Dopo che le prime fasi preliminari dell'ossidazione si sono compiute nel citoplasma, la molecola del combustibile si trasferisce nei mitocondri, dove il processo viene completato e si sprigiona un'enorme quantità di energia. Ma questi infiniti cicli di ossidazione che si svolgono all'interno dei mitocondri svolgerebbero una funzione alquanto modesta se la loro importanza non fosse di ordine generale. L'energia prodotta ad ogni stadio del processo ossidativo si trova in un composto che i biochimici chiamano comunemente Atp (trifosfato di adenosina): una molecola contenente tre gruppi fosforici. La funzione dell'Atp nel fornire energia deriva dal fatto che esso può trasferire uno dei suoi gruppi fosforici ad altre sostanze, insieme con l'energia di legame dei suoi elettroni che si agitano innanzi e indietro ad altissima velocità. Così, in una cellula muscolare, l'energia necessaria per il movimento di contrazione viene fornita allorché un gruppo fosforico terminale si trasferisce al muscolo che si sta contraendo. Un altro ciclo inizia in tal modo (un ciclo all'interno di un altro): una molecola di Atp cede uno dei suoi tre gruppi e ne trattiene due, diventando un difosfato, l'Adp; ma il ciclo continua ed allora un altro gruppo fosforico si lega ad una molecola di Adp, ricostituendone uno di Atp, a maggior contenuto energetico. Non senza motivo è stata sottolineata l'analogia di questo comportamento con quello degli accumulatori elettrici: l'Atp rappresenta la batteria carica e l'Adp la batteria scarica. L'Atp è una fonte generale di energia, presente in qualsiasi organismo, dai microbi all'uomo. Esso rifornisce le cellule dei muscoli di energia meccanica e quelle dei nervi di energia elettrica. Lo spermatozoo, l'uovo fecondato pronto a quell'enorme esplosione di attività che lo trasformerà in una rana, in un uccello o in un uomo, le cellule che devono creare gli ormoni, tutti contengono Atp. Una parte dell'energia dell'Atp viene consumata nei mitocondri stessi, ma tutto il resto è immediatamente inviato nella cellula per fornire l'energia necessaria ad altre attività. La posizione dei mitocondri all'interno di certe cellule è estremamente significativa per la funzione che essi svolgono: infatti essi sono sistemati in modo che l'energia sia liberata proprio dove occorre: così, nelle cellule muscolari, essi si raggruppano attorno alle fibre contrattili, mentre, nelle cellule nervose, si trovano vicino al punto di contatto tra cellula e cellula e provvedono l'energia necessaria alla trasmissione degli impulsi; infine, negli spermatozoi si concentrano nel punto in cui la coda si articola con il capo. La "carica della batteria", cioè il processo attraverso cui l'Adp si combina con un gruppo fosforico libero per ripristinare l'Atp, s'accoppia con il processo ossidativo: tale reazione prende il nome di "fosforilazione ossidativa". Senza di essa viene a mancare il mezzo per la produzione di energia utilizzabile: la respirazione continua, ma non si ha produzione di energia. La cellula somiglia allora ad una macchina che giri a vuoto e produca calore, ma non forza motrice. In tal caso, i muscoli non possono più contrarsi, né gli impulsi trasmettersi lungo le vie nervose, né gli spermatozoi giungere a destinazione, né le uova fecondate portare a termine le loro complesse divisioni ed elaborazioni. Le conseguenze di un tale mancato accoppiamento tra fosforilazione ed ossidazione sono pertanto disastrose per qualsiasi organismo, dall'embrione all'adulto; col tempo esso conduce alla morte del tessuto, ed anche dell'individuo. Quali sono le cause che impediscono l'accoppiamento delle due fondamentali reazioni energetiche? Anzitutto la radioattività: si ritiene infatti che la necrosi delle cellule esposte alle radiazioni derivi proprio da un fenomeno di questo genere. Sfortunatamente un buon numero di sostanze chimiche ha anch'esso la capacità di separare il processo dell'ossidazione da quello della produzione di energia; e, tra queste, molti insetticidi ed erbicidi. I fenoli - come già si è visto - influiscono in maniera notevole sul metabolismo, giacché provocano un aumento della temperatura spesse volte fatale: ed anche in questi casi ci si ripresenta l'immagine della "macchina che gira a vuoto", ossia dell'energia liberatasi nell'ossidazione e non accumulata nell'Atp. I dinitrofenoli ed i pentaclorofenoli appartengono a questo gruppo e vengono largamente usati, come pure il 2,4-D, per distruggere le erbe dannose. Tra gli idrocarburi clorurati, il Ddt ha certamente l'effetto di inibire l'accoppiamento tra i due processi, e con ogni probabilità ulteriori studi ci riveleranno che anche altri composti affini si comportano analogamente. Non è solo inibendo l'accoppiamento delle due reazioni, ossidativa e fosforilante, che si estinguono i «fuocherelli" in alcuni o tutti i miliardi di cellule di un organismo. Abbiamo visto che ogni tappa dell'ossidazione viene avviata e regolata da un enzima specifico; quando uno qualsiasi di questi enzimi - anche uno soltanto - viene distrutto o parzialmente inattivato, il ciclo ossidativo all'interno della cellula si arresta. Non importa quale sia l'enzima colpito, poiché l'ossidazione procede secondo un ciclo che possiamo paragonare ad una ruota in movimento: se noi mettiamo un bastone tra due raggi qualsiasi la ruota si ferma; allo stesso modo, se si distrugge un enzima la cui attività si svolge in un punto determinato del ciclo, qualunque esso sia, l'ossidazione si blocca. In tal caso non si avrà più alcuna produzione di energia e il risultato finale sarà simile a quello dovuto a mancanza di accoppiamento tra le due reazioni. Il bastone che arresta la ruota dell'ossidazione può essere un qualsivoglia prodotto chimico scelto tra i unti che vengono oggi usati come disinfestanti; il Ddt, il metossicloro, il malathion, la fenotiazina e vari dinitrocomposti figurano tra i numerosi insetticidi che - a quanto ci conferma l'esperienza - inibiscono uno o più enzimi che intervengono nel ciclo dell'ossidazione. Essi, dunque, vanno considerati come agenti potenzialmente capaci di bloccare l'intero processo della produzione di energia e di privare le cellule di ossigeno utilizzabile. Si tratta di un danno con gravissime conseguenze, che citeremo qui solo in piccola parte. Vari sperimentatori (come vedremo nel prossimo capitolo) sono riusciti a trasformare cellule normali in cellule cancerose, per semplice sottrazione sistematica di ossigeno. I gravissimi effetti determinati dalla sottrazione di ossigeno alle cellule sono stati d'altronde accertati in prove di laboratorio su embrioni di alcuni animali in via di sviluppo: quando l'ossigeno scarseggia, i normali processi, attraverso cui i tessuti si accrescono e gli organi si sviluppano, subiscono un arresto; è allora che si manifestano le malformazioni e altre anomalie. E' probabile che, privando di ossigeno un embrione umano in via di sviluppo, si formino in esso deformità congenite. Pare che casi di questo genere siano in aumento, anche se di rado spingiamo il nostro sguardo abbastanza lontano per scoprirne tutte le cause. L'Office of Vital Statistics, in uno dei più spiacevoli bilanci dei nostri giorni, nel 1961 cominciò a raccogliere i dati relativi alle malformazioni constatate all'atto della nascita nel territorio degli Stati Uniti, commentando che la statistica che se ne sarebbe potuta trarre avrebbe fornito utili nozioni circa l'incidenza delle malformazioni congenite e le circostanze in cui si sarebbero verificate. Non vi è alcun dubbio che tale indagine verrà rivolta essenzialmente alla valutazione degli effetti delle radiazioni, ma non dobbiamo trascurare il fatto che molti prodotti chimici sono efficaci coadiutori delle radiazioni e determinano esattamente le stesse conseguenze. Molte anomalie e malformazioni dei bambini di domani - secondo il terribile preannuncio che ce ne dà l'Office of Vital Statistics - avranno quasi certamente la loro causa prima nelle sostanze tossiche che permeano il nostro mondo esterno ed interno. Può anche darsi che alcuni dati riferentisi alla diminuita capacità riproduttiva siano essi pure da ricollegare ad una interferenza nella ossidazione biologica e ad un conseguente esaurimento delle indispensabili "batterie di Atp". L'uovo, anche prima della fecondazione, deve essere abbondantemente fornito di Atp, lì pronto in attesa del notevole sforzo, del vasto consumo di energia, necessario allorché sopraggiungerà lo spermatozoo ed avverrà la fecondazione. Parimenti l'arrivo dello spermatozoo sino all'uovo e la penetrazione in questo dipenderà dalla quantità di Atp generato nei mitocondri che si trovano strettamente ammassati a grappolo nel suo pezzo intermedio. Appena sarà avvenuta la fecondazione e cominciata la divisione cellulare, dipenderà dalla riserva di energia sotto forma di Atp se lo sviluppo dell'embrione potrà proseguire fino in fondo. Gli embriologi, attraverso studi compiuti sui soggetti che forniscono loro le migliori indicazioni (rane e ricci di mare), hanno accertato che, se il quantitativo di Atp scende al di sotto di un certo livello critico, l'uovo cessa di dividersi e muore in breve tempo. Il passo è breve tra il laboratorio di embriologia e l'albero di mele dov'è nascosto un nido di pettirosso, contenente qualche piccolo uovo verdazzurro ormai privo di quel "fuoco vitale" che ha brillato soltanto per pochi giorni e poi si è spento per sempre. Oppure tra il laboratorio e la cima d'uno dei grandi pini della Florida, dove una vasta trama di rami e fuscelli intrecciati con ordinato disordine trattiene tre grosse uova bianche, anch'esse gelide e inanimate. Perché nessun piccolo pettirosso, nessun aquilotto è nato? Forse che anche nelle uova di quegli uccelli - come in quelle delle rane di laboratorio - lo sviluppo si è arrestato ad un certo momento soltanto per mancanza di una quantità sufficiente di molecole di Atp, che forniscono normalmente l'energia per i processi connessi con esso? E questa mancanza di Atp è derivata forse dal fatto che nel corpo dei genitori e nelle stesse uova si sono accumulati insetticidi in quantità sufficiente per bloccare il meccanismo ossidativo, da cui dipende la produzione di energia? Non si hanno più dubbi circa l'accumulo di insetticidi nelle uova degli uccelli, che si prestano più facilmente a questo genere di osservazione dell'uovo di mammifero. E' stata accertata la presenza di abbondanti residui di Ddt e di altri idrocarburi ogni qualvolta queste sostanze sono state ricercate nelle uova di uccelli esposti alla loro azione, sia in laboratorio che in natura. In un esperimento compiuto in California, si rilevò che le uova di fagiano contenevano fino a 349 p.p.m. di Ddt. Nel Michigan, le uova estratte dagli ovidutti di pettirossi uccisi dal Ddt presentavano concentrazioni fino a 200 p.p.m'. Da altri nidi vennero prelevate uova non covate perché i genitori erano stati uccisi dal Ddt, ed esse pure contenevano quel veleno. Si è pure constatato che pollame intossicato dall'aldrina cosparsa in una fattoria limitrofa aveva trasmesso il tossico alle uova; certe galline, sperimentalmente nutrite con un becchime contenente Ddt, deposero uova contaminate da una dose di insetticida pari a 65 p.p.m'. Se si tiene conto che il Ddt ed altri idrocarburi clorurati (forse tutti) bloccano il ciclo della produzione energetica, inattivando un enzima specifico o infrangendo il legame che unisce la ossidazione alla fosforilazione nel meccanismo per la produzione di energia, è difficile pensare come un uovo, contenente un tale carico di residui, possa completare il complesso processo dello sviluppo: l'infinita serie di divisioni cellulari, l'elaborazione di tessuti e di organi, la sintesi di sostanze vitali che, alla fine, danno origine alla nuova creatura vivente. Tutto ciò richiede una gran quantità di energia, quei piccoli "pacchetti" contenenti Atp, che soltanto un perfetto funzionamento della incessante rotazione metabolica può produrre. Né c'è ragione di credere che questi risultati disastrosi restino confinati al mondo degli uccelli: l'Atp è una riserva universale d'energia, ed i cicli metabolici che lo producono hanno la stessa finalità nei volatili come nei batteri, negli uomini come nei topi. La constatazione che gli insetticidi si depositano nelle cellule germinali di qualsiasi specie vivente ci deve pertanto preoccupare ed indurre a prospettare la situazione in cui potrebbero venire a trovarsi anche gli esseri umani. Disponiamo oggi di prove secondo cui questi prodotti chimici si fissano nei tessuti interessati alla formazione delle cellule germinali, oltre che nelle cellule stesse: è stato accertato l'accumulo di insetticidi negli organi sessuali di molti uccelli e mammiferi (fagiani, topi e cavie in condizioni sperimentali, pettirossi che vivevano in zone disinfestate contro la malattia degli olmi, e cervi che vagavano nelle foreste cosparse di insetticidi contro un parassita degli abeti, la Choristoneura fumiferana). In un pettirosso, la concentrazione di Ddt appariva più elevata nei testicoli che in qualsiasi altra parte del corpo; ed elevate concentrazioni sono state trovate nei fagiani, che hanno rivelato persino una dose di 1500 p.p.m'. Con ogni probabilità anche l'atrofia dei testicoli, riscontrata in certi mammiferi di laboratorio, va attribuita a questo accumulo negli organi sessuali: giovani ratti esposti all'azione del metossicloro avevano testicoli straordinariamente piccoli. Nei galletti, nutriti con mangime contenente Ddt, i testicoli raggiunsero uno sviluppo pari solo al 18% di quello normale; la cresta ed i bargigli, la cui crescita dipende da una stretta correlazione con gli ormoni testicolari, raggiunsero a stento un terzo delle loro solite dimensioni. Ed infine anche gli spermatozoi subiscono gli effetti della mancanza di Atp: alcuni esperimenti mostrano che la mobilità degli spermatozoi di toro diminuisce per effetto del dinitrofenolo, il quale interferisce con il meccanismo di produzione di energia, procurando un'inevitabile debolezza. Probabilmente, anche altri composti chimici, qualora venissero messi alla prova, provocherebbero le stesse conseguenze. Una indicazione del possibile effetto di tali sostanze sugli esseri umani è data da alcuni referti medici di oligospermia, o produzione limitata di spermatozoi, in aviatori che hanno compiuto operazione di disinfestazione con Ddt. Per le sorti del genere umano, ciò che più importa non è la vita dei singoli individui, ma il retaggio genetico - questo vincolo che ci lega al passato ed al futuro. Plasmati attraverso millenni di evoluzione, i nostri geni non soltanto fanno di noi quello che siamo, ma racchiudono nella loro minuscola natura ogni prospettiva dell'avvenire - ricca di promesse o gravida di minacce. E proprio l'alterazione genetica, attraverso i prodotti chimici che noi stessi sintetizziamo, costituisce la maggiore insidia del nostro tempo, "il più recente e più grande pericolo per il consesso civile". Anche qui il raffronto tra effetti delle sostanze chimiche e della radioattività rivela precise ed indiscutibili analogie. La cellula vivente, aggredita dalle radiazioni, ne riporta fatali lesioni: la sua capacità di dividersi normalmente può essere annientata; può manifestarsi un'alterazione nella struttura dei suoi cromosomi; i suoi geni, portatori del patrimonio ereditario, possono subire quegli improvvisi cambiamenti, noti come mutazioni, che determinano nuovi caratteri nelle generazioni future. Qualora, poi, la cellula sia particolarmente suscettibile, essa può morire sul colpo, ovvero, dopo un certo numero di anni, diventa una cellula maligna. Tutti questi effetti delle radiazioni sono stati ripetuti in laboratorio usando un folto gruppo di sostanze chimiche che, pertanto, vengono chiamate radiomimetiche. Molti prodotti usati come disinfestanti (sia contro le piante che contro gli insetti) appartengono appunto al novero dei composti che hanno la proprietà di danneggiare i cromosomi, o di interferire con la normale divisione cellulare, o di causare mutazioni. Tali lesioni inferte al substrato genetico possono determinare gravi malattie nell'individuo che è stato esposto alla contaminazione, e possono palesare i loro effetti nelle generazioni future. Solo pochi decenni fa nessuno conosceva queste gravi conseguenze provocate dalla radioattività o dai composti chimici. A quel tempo l'atomo non era stato ancora disintegrato, e ben pochi prodotti sintetici che manifestano una pericolosità analoga a quella delle radiazioni avevano fatto la loro comparsa nelle provette dei chimici. Soltanto nel 1927, un professore di zoologia d'una università del Texas, il dott. Muller, riuscì a dimostrare che l'esposizione di un organismo ai raggi X produceva mutazioni nelle generazioni successive. Tale scoperta dischiuse nuovi ed ampi orizzonti alla conoscenza scientifica in generale, ed a quella medica in particolare. Il dott. Muller, in omaggio a questa sua conquista, venne insignito del Premio Nobel per la medicina e da allora, a mano a mano che i corpuscoli del fall --out andavano acquistando la loro triste notorietà, anche l'uomo della strada ha cominciato a rendersi conto del pericolo potenziale della radioattività. Una scoperta di analoga portata - anche se non altrettanto nota - è stata quella fatta da Charlotte Auerbach e William Robson dell'Università di Edimburgo all'inizio del 1940. Durante certi esperimenti, questi due ricercatori si accorsero che l'iprite produceva nei cromosomi alcune anomalie permanenti, identiche a quelle causate dalle radiazioni; sperimentata sulla drosofila, lo stesso organismo utilizzato da Muller per la sua prima ricerca sugli effetti dei raggi X, l'iprite produsse essa pure alcune mutazioni. Veniva così scoperta la prima sostanza chimica mutagena. Ormai una lunga lista di altri composti ha palesato un comportamento analogo a quello dell'iprite nell'alterare il materiale costitutivo dei geni sia negli animali che nelle piante. Ma per comprendere come le sostanze chimiche possano alterare il corso dell'eredità, dobbiamo innanzitutto guardare come si svolge il dramma fondamentale della vita a livello cellulare. Perché il corpo si sviluppi e il flusso vitale continui a scorrere di generazione in generazione occorre che le cellule costituenti organi e tessuti possano moltiplicarsi, e ciò si compie attraverso il processo della mitosi, o divisione nucleare. In una cellula che sta per dividersi avvengono cambiamenti della massima importanza, che interessano dapprima il nucleo e, ad un certo momento, l'intero complesso cellulare; i cromosomi all'interno del nucleo cominciano a spostarsi misteriosamente e a dividersi, disponendosi in configurazioni sempre identiche che servono a distribuire i fattori ereditari, o geni, nelle cellule figlie. Inizialmente essi assumono la forma di filamenti allungati, sopra i quali i geni sono allineati come perle in una collana; quindi ogni cromosoma si scinde nel senso della lunghezza, e così anche i geni rimangono divisi; infine, quando la cellula stessa si divide in due, ogni metà va ad ogni cellula figlia. In tal modo ogni nuova cellula conterrà una serie completa di cromosomi, con tutta l'informazione genetica codificata in essi; e può essere conservata così l'integrità della razza e della specie. In tal modo, insomma, ogni simile genera il proprio simile. Nella formazione delle cellule germinali questa suddivisione avviene in maniera speciale. Siccome il numero dei cromosomi di una data specie è costante, l'uovo e lo spermatozoo che devono unirsi per formare un nuovo individuo devono fornire entrambi solo la metà di tale quantitativo. Ciò si svolge con straordinaria precisione, grazie ad una tempestiva variazione del comportamento dei cromosomi, che avviene durante una delle divisioni in cui si formano quelle cellule. In questa occasione i cromosomi non si scindono, ma ogni cromosoma intero di ciascuna coppia passa in una cellula figlia. Di fronte a questa serie fondamentale di fenomeni, tutti i viventi sono uguali: le varie fasi del processo di divisione cellulare sono identiche in tutte le forme che esistono sulla Terra; né l'uomo, né l'ameba, né la gigantesca sequoia, né la semplice cellula del lievito possono sussistere senza questa perpetua riproduzione cellulare. Pertanto tutto ciò che danneggia la mitosi va considerato come una grave minaccia per il benessere dell'organismo colpito e per i suoi discendenti. "I principali aspetti dell'organizzazione cellulare come, ad esempio, la mitosi", scrivono George Gaylord ed i suoi colleghi Pittendrigh e Tiffany nella loro vasta opera intitolata Life, "risalgono sicuramente a molto più di 500 milioni di anni fa - piuttosto vicino al miliardo di anni fa. Da questo punto di vista il mondo della vita - pur così fragile e complesso - ci appare incredibilmente duraturo nel tempo, più delle stesse montagne. Ed il segreto di questa continuità sta proprio nella quasi incredibile perfezione con cui l'informazione genetica viene trasmessa, sempre allo stesso modo, da una generazione all'altra». Tuttavia, durante tutto quel miliardo di anni che tali autori hanno percorso nella loro indagine a ritroso, la "quasi incredibile perfezione" con cui si svolgono i fenomeni ereditari non è mai stata insidiata tanto gravemente ed in maniera così diretta come adesso, in pieno ventesimo secolo, per colpa delle radiazioni e delle sostanze chimiche create e disseminate dall'uomo. Sir Macfarlane Burnet, un ben noto medico australiano insignito del Premio Nobel, considera "uno dei caratteri più significativi" del nostro tempo, "da un punto di vista medico, il fatto che le barriere protettive naturali, erette per proteggere gli organi interni dall'azione degli agenti mutageni, siano state smantellate sempre più di frequente in seguito a terapie sempre più potenti ed alla produzione di sostanze chimiche estranee all'esperienza biologica". Lo studio di cromosomi umani è ancora ai suoi primordi; e solo di recente è stato possibile studiare l'effetto che i fattori ambientali determinano su essi. Fu solo nel 1956 che nuove tecniche permisero di determinare accuratamente il numero dei cromosomi contenuti nelle cellule umane (46), e di osservarli così particolareggiatamente da riuscire ad accertare la presenza o l'assenza di interi cromosomi o anche di loro porzioni. Il concetto completo di danno genetico prodotto da qualcosa presente nell'ambiente è pure relativamente recente ed è, in genere, poco compreso tranne che dai genetisti il cui parere, peraltro, viene raramente richiesto. Nondimeno i rischi provocati dalle radiazioni nelle loro varie forme sono oggi abbastanza noti, anche se ancora negati in alcuni casi veramente sorprendenti. Il dott. Muller ha dovuto più volte deplorare la "riluttanza manifestata da molti ad ammettere la validità dei principî genetici; e non solo tra i funzionari governativi, che fissano gli orientamenti della politica sanitaria, ma anche tra coloro che esercitano la professione medica". Quanto poi al fatto che le sostanze chimiche possano giocare un ruolo simile a quello delle radiazioni, bisogna dire che esso non è stato ancora giustamente compreso dall'opinione pubblica e neppure dalla maggior parte dei medici e degli uomini di scienza; pertanto il ruolo dei prodotti chimici utilizzati per scopi pratici (oltre che per esperimenti di laboratorio) non è stato ancora stabilito. E' quindi estremamente importante che ciò sia fatto al più presto. Ad additarci il pericolo che ci minaccia sotto sotto non troviamo soltanto Sir Macfarlane. Il dott. Alexander, autorevole scienziato inglese, ci avverte che i composti chimici radiomimetici "possono essere ben più pericolosi" delle radiazioni. Il dott' Muller, con la consapevolezza che gli deriva da decenni di apprezzati studi nel campo della genetica, fa presente a sua volta che numerose sostanze sintetiche (comprendenti i vari gruppi di disinfestanti) "possono incrementare la frequenza delle mutazioni tanto quanto le radiazioni... Ben poco sappiamo, finora, in quale misura i nostri geni, che si trovano oggi in presenza di sostanze chimiche poco note, siano sottoposti a tali effetti mutageni". Forse il diffuso disinteresse per il problema dei prodotti chimici mutageni deriva dal fatto che le prime scoperte in merito presentavano un interesse esclusivamente scientifico. Dopo tutto, l'iprite non poteva destare una soverchia preoccupazione: essa non viene cosparsa dal cielo su intere popolazioni, ma resta tra le mani di biologi che la impiegano nei loro esperimenti di laboratorio, o dei medici, i quali se ne valgono nella terapia del cancro (di recente si è parlato del caso di un paziente che, con questa cura, ha riportato lesioni cromosomiche). Ma oggi la situazione appare ben diversa, perché gli insetticidi e gli erbicidi entrano a contatto con un gran numero di persone. Nonostante la scarsa attenzione che si è prestata a tale questione, siamo tuttavia in possesso di informazioni specifiche e circostanziate, largamente sufficienti per dimostrarci come un buon numero di questi disinfestanti abbia la proprietà di alterare i processi vitali della cellula sia con una semplice lesione a livello dei cromosomi che con una mutazione genica, come avviene nel caso estremo, con la conseguenza ultima di provocare la formazione di tumori maligni. Certe zanzare, esposte al Ddt per varie generazioni, si sono tramutate in singolari organismi chiamati ginandromorfi - in parte maschi e in parte femmine. Piante trattate con vari tipi di fenoli hanno subito vaste lesioni cromosomiche, radicali cambiamenti nei geni, un numero enorme di mutazioni, e "trasformazioni ereditarie irreversibili". Mutazioni sono state riscontrate anche nelle drosofile - soggetti classici per gli esperimenti di genetica - sottoposte all'azione del fenolo: esse hanno rivelato mutazioni così dannose da soccombere di fronte ad uno dei normali erbicidi o all'uretano. L'uretano appartiene al gruppo chimico dei carbammati, dai quali vien fatto derivare un numero sempre crescente di insetticidi e di altri composti di uso agricolo. Due carbammati hanno oggi largo impiego per impedire che, dopo il raccolto, le patate germoglino: e ciò proprio per la loro capacità di arrestare la divisione cellulare. Uno di questi composti, la idrazide maleica, viene considerata un potentissimo mutageno. Piante trattate con esacloruro di benzene (Bhc) o con lindano diventarono mostruosamente deformi e presentarono nelle radici grossi rigonfiamenti simili a tumori; le loro cellule si ingrossarono per raddoppiamento del numero dei cromosomi che continuarono a moltiplicarsi nelle successive mitosi fino a rendere ogni ulteriore divisione meccanicamente impossibile. Anche l'erbicida 2,4-D produce effetti analoghi sulle piante: i cromosomi si accorciano, diventano spessi e ammassati; la divisione cellulare viene seriamente ritardata; l'effetto generale sembra essere strettamente parallelo a quello prodotto dai raggi X. E questi sono soltanto pochi esempi tra i tanti che potremmo citare. Fino ad oggi non sono stati ancora esaurientemente analizzati gli effetti mutageni in sé dei disinfestanti. I casi fin qui riferiti provengono da osservazioni secondarie compiute nel corso di ricerche sulla fisiologia o la genetica. Occorre invece che il problema sia affrontato direttamente e urgentemente. Alcuni scienziati, disposti a convenire sui pericoli che comportano, per l'uomo, le radiazioni ambientali, si chiedono nondimeno se i composti mutageni producano - ciò che potrebbe venir sfruttato praticamente - gli stessi effetti; essi citano il grande potere di penetrazione delle radiazioni, ma mettono in dubbio che le sostanze chimiche possano raggiungere le cellule germinali. Ancora una volta dobbiamo rammaricarci che le indagini dirette, effettuate sull'uomo a tale proposito, siano così scarse; ad ogni modo la scoperta di abbondanti residui di Ddt nelle gonadi e nelle cellule germinali degli uccelli e dei mammiferi ci offre una chiara prova che per lo meno gli idrocarburi clorurati non soltanto si diffondono in tutto il corpo, ma entrano in contatto con il materiale genetico. Il prof. Davis dell'Università di Stato della Pennsylvania ha accertato di recente che un potente inibitore chimico della divisione cellulare - impiegato in qualche caso nella terapia del cancro perché impedisce il moltiplicarsi delle cellule - può venire anche usato per provocare la sterilità negli uccelli; infatti dosi subletali di questo composto arrestano la divisione cellulare nelle gonadi. Le prove di campagna compiute dal prof. Davis si sono svolte con un certo successo. Quindi, ovviamente, resta ben poca speranza o scarso motivo di credere che le gonadi di un qualsiasi organismo in natura siano protette dall'azione delle sostanze chimiche. Recenti scoperte mediche nel campo delle anomalie cromosomiche appaiono di estremo interesse e significato. Nel 1959 vari gruppi di ricercatori inglesi e francesi s'accorsero che le loro indagini - indipendenti l'una dall'altra - convergevano verso una conclusione comune: molti disordini clinici nell'uomo erano determinati da un'alterazione numerica dei cromosomi. In certe malattie ed anomalie esaminate da quei ricercatori il numero dei cromosomi differiva, infatti, dal normale. Per fare un esempio, si sa oggi che tutti i mongoloidi tipici hanno un cromosoma in più: esso, talvolta, si congiunge con un altro, lasciando così il numero totale immutato (di 46); di regola, invece, resta separato ed i cromosomi sono allora 47. In questi individui l'origine della menomazione va ricercata nella generazione che precede quella in cui essa compare. In un buon numero di pazienti inglesi e americani affetti da una forma cronica di leucemia, questa sembra essere dovuta ad un meccanismo diverso. Essi hanno palesato, infatti, anomalie cromosomiche in alcuni globuli rossi, ad esempio la mancanza di qualche parte di cromosoma, mentre le cellule epidermiche avevano un corredo normale. La lesione non si è prodotta quindi nei cromosomi delle cellule germinali che hanno generato questi individui, ma si è manifestata durante la vita dell'individuo in particolari cellule (in questo caso i precursori delle cellule sanguigne). La parte mancante del cromosoma ha forse privato queste cellule delle "istruzioni" per un normale comportamento. L'elenco delle anomalie connesse con l'alterazione dei cromosomi si è allungato con sorprendente rapidità da quando hanno avuto inizio le indagini in questo campo, fino ad allora precluso alle ricerche mediche. Una disfunzione, nota un tempo solo come "sindrome di Klinefelter", viene ora attribuita alla duplicazione di uno dei cromosomi sessuali; l'individuo che ne deriva è un maschio ma, siccome possiede due cromosomi X (diventando così il corredo eterocromosomico maschile Xxy al posto di Xy) egli è in certo senso anormale; il gigantismo e diverse minorazioni mentali spesso si accompagnano con la sterilità, che è caratteristica di chi si trova in queste condizioni. Per converso, un individuo che riceve soltanto uno dei cromosomi sessuali (venendo così ad avere un corredo eterocromosomico Xo al posto di Xx o Xy) è sì di sesso femminile, ma è privo di molti caratteri sessuali secondari. Tale condizione si accompagna a varie deficienze fisiche (e talvolta mentali) perché, naturalmente, il cromosoma X porta geni responsabili di vari caratteri. Nota sotto nome di "sindrome di Turner", essa è stata descritta dalla letteratura medica - al pari di quella precedente - molto tempo prima che se ne conoscessero le cause. Un'immensa mole di lavoro a proposito delle anomalie cromosomiche ci viene offerta dagli scienziati di molti paesi. Presso l'Università del Wisconsin, un gruppo di studiosi, sotto la guida del dott. Patau, ha preso in esame molte anomalie congenite, che comprendono di solito un ritardo mentale e sembrano derivare dalla duplicazione di una parte soltanto di un cromosoma (come se in qualche punto, durante la formazione di una cellula germinale, un cromosoma si fosse spezzato ed i frammenti non si fossero ricostituiti adeguatamente). Tale sfortunato incidente interferisce, quasi certamente, con il normale sviluppo dell'embrione. Le attuali conoscenze ci dicono che la presenza di un cromosoma in soprannumero ha, per solito, conseguenze letali, poiché impedisce la sopravvivenza dell'embrione. Soltanto in tre casi non sopraggiunge la morte, ed uno di essi, naturalmente, è il mongolismo. La presenza del frammento soprannumerario pur arrecando gravi danni non provoca necessariamente il decesso. Ciò spiegherebbe pure, secondo il parere dei ricercatori del Wisconsin, la causa di una notevole parte di casi finora inspiegabili, in cui un bambino nasce con molteplici anomalie ivi compreso, generalmente, un ritardo mentale. Si tratta d'un campo di ricerche così nuovo, che finora gli specialisti sono stati più impegnati a identificare le anomalie cromosomiche, associate con la malattia e con uno sviluppo difettoso, che non a ricercarne le cause. Sarebbe una leggerezza pensare che un qualsiasi agente possa determinare una lesione dei cromosomi o essere responsabile del loro anormale comportamento durante la divisione cellulare. Ma possiamo permetterci di ignorare che stiamo saturando il nostro ambiente di sostanze chimiche dotate della proprietà specifica di ledere direttamente i cromosomi, colpendoli in maniera così precisa da causare le nefaste condizioni fin qui illustrate? Non è forse questo un prezzo troppo alto da pagare per avere una patata senza germogli o una casa senza zanzare? Potremmo, se volessimo, ridurre la gravità della minaccia che incombe sul nostro retaggio genetico - un patrimonio a noi trasmesso attraverso due miliardi di anni di evoluzione e di selezione del protoplasma vivente, un patrimonio di cui siamo solo i depositari, sino a che lo tramanderemo alle generazioni venture. Eppure facciamo ben poco per difenderne l'integrità. Infatti le industrie chimiche sono tenute, per legge, a provare la tossicità dei loro prodotti, ma non esiste alcuna legge, invece, che prescriva loro di accertarne preventivamente l'eventuale azione genetica. Ed esse si guardano bene dal farlo. Capitolo quattordicesimo - I moderni prodotti sintetici sono cancerogeni? La lotta ingaggiata dagli esseri viventi contro il cancro è cominciata tanto tempo fa che le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Ad ogni modo essa deve aver avuto inizio in un ambiente naturale, dove ogni essere vivente sul nostro pianeta era soggetto - sia in bene che in male - ad influenze originatesi nel sole, nelle intemperie e nelle forze primordiali della Terra. Alcuni fattori ambientali crearono rischi ai quali ogni individuo fu costretto ad adattarsi per non perire: le radiazioni ultraviolette della luce solare, come pure quelle emesse da certe rocce, determinarono l'insorgenza di tumori maligni; né diversamente si comportò l'arsenico, dilavato dal suolo o dalle rocce, che contaminò i cibi e le riserve idriche. Questi elementi nocivi si trovavano nell'ambiente quando ancora la vita non esisteva; poi essa apparve e, nello spazio di milioni di anni, si evolse in una sconfinata varietà di aspetti e di forme. Durante l'avvicendarsi delle varie ere in cui il tempo scorreva lento come avviene per le cose della natura, la vita si adattò alla presenza delle forze avverse attraverso una selezione che eliminò le forme meno resistenti e permise a quelle più forti di sopravvivere. Ancor oggi gli agenti cancerogeni naturali fanno sentire la loro presenza; però essi sono pochi ed appartengono al novero delle forze ostili cui la vita si è abituata fin dai suoi inizi. Con l'avvento dell'uomo la situazione subì un cambiamento, perché questi, solo fra tutti i viventi, seppe creare le cosiddette sostanze cancerogene, capaci di determinare l'insorgere del cancro. Da secoli, alcune di queste sostanze fanno parte del nostro ambiente: la fuliggine contenente idrocarburi aromatici ce ne offre un esempio. Ma è con l'inizio dell'epoca industriale che il nostro mondo diventa teatro di continui e sempre più celeri mutamenti: l'ambiente naturale viene rapidamente sostituito da un ambiente artificiale in cui compaiono nuovi agenti chimici e fisici che, in buona parte, possiedono una notevole capacità di determinare cambiamenti biologici. Contro questi cancerogeni usciti dalle sue mani, l'uomo non ha alcuna protezione perché, come il suo patrimonio genetico si è evoluto lentamente, altrettanto lento sarà il suo adattamento alle nuove condizioni; frattanto, essi continueranno a far breccia nelle inadeguate difese del suo corpo. Lunga è la storia del cancro, ma il riconoscimento da parte nostra delle cause che lo producono è stato lento a maturare. Il primo dubbio che agenti ambientali o esterni potessero produrre mutamenti di natura maligna apparve alla mente di un medico londinese circa due secoli fa: sir Percival Pott, nel 1775, dichiarò infatti che il cancro allo scroto, tanto frequente tra gli spazzacamini, doveva avere la sua origine nella fuliggine che si accumulava sul loro corpo durante il lavoro. Egli non fornì la "prova" che oggi noi esigeremmo in un caso analogo, ma i moderni metodi di ricerca ci hanno consentito di isolare il fattore chimico mortale contenuto nella fuliggine e di dimostrare la fondatezza di quella intuizione. Per un secolo o più dopo la scoperta di Pott sembra che pochi si siano resi conto del fatto che alcuni composti, nell'ambiente umano, possono provocare il cancro per ripetuto contatto cutaneo, per inalazione o per ingestione. Era stato notato, è vero, che tra gli operai esposti ai vapori d'arsenico nelle fonderie di rame e di stagno della Cornovaglia e del Galles si erano registrate spesso manifestazioni epidermiche di natura cancerosa; e si sapeva che i minatori addetti all'estrazione del cobalto e dell'uranio, rispettivamente in Sassonia ed a Joachimsthal, in Boemia, avevano presentato gravi disturbi polmonari, identificati in seguito come forme di cancro. Ma questi casi appartenevano ad un'epoca pre-industriale, quando ancora non era iniziato lo sviluppo della produzione di sostanze che avrebbero dovuto invadere praticamente ogni ambiente in cui esistono esseri viventi. Il primo segno di forme cancerose imputabili all'avvento dell'era industriale lo troviamo nell'ultimo quarto del Xix secolo. Mentre Pasteur stava dimostrando l'origine microbica di numerose malattie infettive, altri scienziati scoprivano la causa chimica del cancro, studiandone la forma cutanea manifestatasi tra gli operai impiegati nelle nuove industrie di lignite in Sassonia e della terracotta in Scozia, e prendendo in esame altri casi frequenti tra coloro che lavoravano con il catrame e la pece. Alla fine dell'Ottocento si conosceva una mezza dozzina di sostanze cancerogene di origine industriale; successivamente, il Xx secolo portò alla ribalta un numero infinito di prodotti del genere e mise tutta la popolazione a diretto contatto con essi, per cui, nei duecento anni scarsi che ci separano dal lavoro di Pott, la situazione ambientale ha subìto un radicale cambiamento. Ormai gli effetti delle sostanze cancerogene non minacciano più soltanto chi vi si espone per ragioni di lavoro, ma fanno sentire la loro insidiosa presenza in tutto l'ambiente che sta attorno a noi, ai nostri bambini e a quelli che nasceranno. Appare, per ciò, del tutto normale un preoccupante aumento delle malattie tumorali. La realtà di questo incremento trascende qualsiasi valutazione soggettiva. Il bollettino mensile dell'Office of Vital Statistics riportava, nel numero di luglio del 1959, che le iperplasie maligne (comprese quelle dei tessuti linfatici e sanguigni) si stanno accentuando, tanto è vero che nel 1958 esse costituivano il 15% dei decessi, mentre nel 1900 erano solo il 4%. L'American Cancer Society, tenendo conto dell'attuale incidenza del cancro, ritiene che 45 milioni di cittadini statunitensi verranno presto o tardi colpiti da tale malattia: ciò significa che due famiglie su tre vivono sotto la sua minaccia. Se poi si considera l'infanzia, la situazione appare ancora più allarmante. Più di vent'anni fa, in medicina si consideravano rare le forme tumorali nei fanciulli. Oggi, negli Stati Uniti, i fanciulli in età di andare a scuola muoiono più di cancro che di qualunque altra malattia. Il problema è divenuto così grave che la città di Boston ha deciso di istituire il primo ospedale, in territorio americano, destinato ad accogliere esclusivamente i ragazzi affetti da tale morbo. Il 12% dei casi di mortalità infantile, dal primo al quattordicesimo anno di età, è causato da cancro. I medici hanno riscontrato un gran numero di tumori maligni nei fanciulli al di sotto dei cinque anni, ma è un fatto ben più funesto che un numero significativo di casi del genere si verifichi già alla nascita o anche prima. Il dott. Hueper del National Cancer Institute, una vera autorità in campo oncologico, ha avanzato l'ipotesi che il cancro congenito e quello che colpisce l'infanzia derivino da qualche fattore cancerogeno che ha agito sulla madre al tempo della gravidanza e fatto breccia nella placenta per agire sui tessuti fetali in rapido sviluppo. Gli esperimenti effettuati dimostrano che quanto più giovane è un animale esposto agli effetti di un agente cancerogeno tanto più facilmente soggiace alla insorgenza della malattia. Il dott. Ray dell'Università della Florida ha avvertito che "la formazione di cancro può essere determinata nei bambini mediante l'aggiunta di sostanze chimiche ?agli alimenti*...: probabilmente, ne conosceremo gli effetti soltanto tra una generazione o due". Il problema che ci interessa ora è di vedere se qualcuna delle sostanze chimiche che oggi impieghiamo per il controllo degli agenti infestanti determina, direttamente o indirettamente, l'insorgere del cancro. Le prove di laboratorio compiute su animali ci dicono con chiara evidenza che cinque e forse anche sei disinfestanti devono con certezza essere elencati tra i cancerogeni. Ma questa lista si allunga considerevolmente se vi aggiungiamo i prodotti chimici, che numerosi medici considerano come causa delle leucemie riscontrate nei loro pazienti. In questi casi si hanno prove necessariamente indirette poiché non possiamo sottoporre gli uomini alle esperienze di laboratorio; nondimeno anche i risultati della semplice osservazione appaiono allarmanti. Vanno, infine, inclusi nell'elenco tutti i disinfestanti, la cui azione sui tessuti viventi o sulle cellule può essere considerata una causa indiretta di insorgenza di tumori maligni. Uno dei più antichi disinfestanti la cui azione è associata alla comparsa del cancro è l'arsenico, usato come arsenito di sodio per distruggere le erbe infestanti, oppure sotto forma di arseniato di calcio ed altri composti per sterminare gli insetti. Tale rapporto di causa ed effetto nell'uomo e negli animali è ormai classico e un interessante esempio delle conseguenze provocate dall'esposizione all'arsenico viene riferito dal dott. Hueper nella sua opera Occupational Tumors ?I tumori professionali*, una monografia classica sull'argomento. La città di Reichenstein, nella Slesia, era stata per quasi mille anni al centro di una zona mineraria ricca d'oro e argento e, per molti secoli, anche di arsenico. Per centinaia di anni le scorie dell'arsenico, ammonticchiate nei pressi dei pozzi della miniera, venivano asportate da corsi d'acqua che scendevano dalle montagne vicine. Anche la falda sotterranea ne fu contaminata, e l'arsenico penetrò nelle acque potabili. Per secoli e secoli molti abitanti di quella regione soffrirono di una strana malattia che avevano battezzato "morbo di Reichenstein", una forma di avvelenamento cronico da arsenico accompagnato da gravi disturbi al fegato, alla pelle, all'apparato gastrointestinale e al sistema nervoso; tumori maligni si accompagnavano spesso a questa sintomatologia. Oggi il "morbo di Reichenstein" ha soltanto un interesse storico perché la zona, venticinque anni fa, è stata provvista di nuove acque quasi esenti dalla contaminazione dell'arsenico. Nella provincia argentina di Cordoba, l'intossicazione cronica da arsenico, accompagnata dal manifestarsi di cancro cutaneo, assume un carattere endemico dovuto alla contaminazione dell'acqua potabile proveniente da sorgenti che nascono in mezzo a strati rocciosi contenenti quel minerale. Non ci sarà difficile creare condizioni simili a quelle di Reichenstein e di Cordoba se continuiamo a cospargere gli insetticidi a base di arsenico. Per restare negli Stati Uniti, le irrorazioni arsenicali effettuate nelle piantagioni di tabacco, nei frutteti del North West e nelle pianure orientali ricoperte da vaccinio, possono facilmente condurre all'inquinamento delle acque potabili. Un ambiente contaminato dall'arsenico rappresenta un grave pericolo non solo per l'uomo ma anche per gli animali, come ci viene comprovato da un fatto di grande interesse avvenuto in Germania, nel 1936. Presso Friburgo in Sassonia, dalle fonderie di argento e di piombo si levavano fumi di arsenico che si diffondevano per l'aria sulle campagne circostanti e ricadevano poi sulla vegetazione. A quanto afferma il dott' Hueper, i cavalli, i bovini, le capre ed i maiali che pascolavano su quel suolo perdevano il pelame e la loro pelle si scuriva; i cervi che abitavano nelle vicine foreste mostravano talvolta una irregolarità nella distribuzione del pigmento cutaneo ed escrescenze che preludevano a cancro: uno di essi mostrò addirittura una chiara lesione cancerosa. Sia gli animali domestici che quelli selvatici furono colpiti da "enterite arsenicale, ulcere gastriche e cirrosi epatiche". Le capre che avevano l'ovile nelle vicinanze delle fonderie presentarono tumori ai seni nasali e, alla loro morte, l'analisi rivelò la presenza di arsenico nel cervello, nel fegato e nei tumori stessi. Si osservò anche "una straordinaria mortalità tra gli insetti di quella regione, specialmente tra le api; e, dopo le piogge che asportarono la polvere arsenicale dalle foglie e la convogliarono nelle acque dei ruscelli e degli stagni, gran parte dei pesci morì". Un tipico cancerogeno appartenente al gruppo dei nuovi disinfestanti organici è un prodotto chimico largamente usato contro gli acari e le zecche. La sua storia fornisce la prova irrefutabile che, nonostante la presunta salvaguardia fornitaci dalla vigente legislazione, la popolazione può essere esposta per molti anni alle insidie di un accertato cancerogeno grazie all'estrema lentezza dei procedimenti legali atti a controllare la situazione; questa vicenda appare interessante anche da un altro punto di vista: essa, infatti, ci mostra come un composto oggi pubblicamente dichiarato "innocuo", possa venire domani additato come una fonte di grave pericolo. Allorché, nel 1955, ebbe inizio la produzione di questo insetticida, il fabbricante domandò alle autorità un permesso che autorizzasse la presenza di piccoli residui sui raccolti delle campagne sottoposte al trattamento. Secondo quando veniva richiesto dalla legge, egli fornì assieme alla domanda i risultati delle prove effettuate in laboratorio su animali, ma gli esperti della Food and Drug Administration ravvisarono in quegli esperimenti una probabile azione cancerogena del prodotto per cui il commissario governativo, pur concedendo il benestare per la vendita, accordò di conseguenza solo una tollerabilità zero, cioè, in altre parole, permise lo smercio interstatale dei soli generi alimentari esenti da qualsiasi traccia di composto. Ma il fabbricante aveva il diritto di appellarsi contro questa decisione, e pertanto il caso venne affidato, per mutuo consenso, ad un'apposita commissione, che si trasse d'impaccio con un compromesso: sarebbe stata concessa la presenza di 1 p.p.m' di quel composto; il prodotto avrebbe ottenuto il permesso di vendita per due anni mentre si sarebbero continuate le prove di laboratorio per stabilire definitivamente se la sostanza fosse davvero cancerogena. Sebbene la commissione non lo avesse detto apertamente, tale verdetto significava che tra le cavie dei nuovi esperimenti non si dovevano annoverare soltanto i cani ed i ratti di laboratorio, ma anche i comuni consumatori. Per fortuna, le ricerche dettero risultati abbastanza solleciti e, dopo due anni, quel prodotto contro le zecche risultò essere chiaramente cancerogeno. E pensare che anche allora, nel 1957, la Food and Drug Adminis -tration non riuscì a far rescindere istantaneamente il permesso di vendita che concedeva la presenza di residui di un cancerogeno comprovato negli alimenti destinati al pubblico; un altro anno trascorse nelle more dei procedimenti legali e, finalmente, nel dicembre del 1958, la "tollerabilità zero", impartita nel 1955 dal commissario governativo, divenne effettiva. Tali prodotti non sono i soli cancerogeni tra il folto stuolo dei disinfestanti. Le prove effettuate su animali di laboratorio hanno indicato nel Ddt una sospetta causa di tumori epatici; gli esperti della Food and Drug Administration, nel darne notizia, furono incerti sul modo di classificare queste neoplasie, ma pensarono che vi fossero ragioni sufficienti per considerarli come lievi forme di carcinoma delle cellule del fegato" Oggi, il dott. Hueper definisce il Ddt un prodotto sicuramente cancerogeno". E' stato dimostrato che due erbicidi appartenenti al gruppo dei carbammati - il Cipc e l'Icp - hanno la proprietà di provocare tumori cutanei (anche maligni talvolta) sui topi. Pare che quei composti determinino l'avvio del processo maligno che poi altri prodotti chimici, tra quelli che prevalgono nell'ambiente, portano a termine. Dal canto suo, l'erbicida amminotriazolo ha provocato il cancro alla tiroide in vari animali di laboratorio. Alcuni coltivatori di mirtilli, nel 1959, abusarono di questo disinfestante tanto che sulla merce venduta ne furono rilevati residui. Nella controversia che nacque dopo il sequestro operato dalla Food and Drug Administration, il fatto che il prodotto potesse essere veramente un cancerogeno venne messo in dubbio da molti, tra cui anche numerosi medici. I risultati delle ricerche compiute in proposito vennero resi pubblici dalla Food and Drug Administration, e indicarono chiaramente la natura cancerogena dell'amminotriazolo su ratti di laboratorio. Dopo aver somministrato a questi animali per 68 settimane 100 p.p.m. di erbicida nell'acqua da bere (cioè un cucchiaino di prodotto su diecimila cucchiaini d'acqua), cominciarono a svilupparsi i primi segni di un tumore tiroideo; due anni più tardi, queste forme tumorali, diagnosticate come benigne o maligne, furono palesi su metà dei ratti sottoposti all'esperimento. I tumori si manifestarono anche se la dose veniva ridotta, anzi non si riuscì a determinare alcuna concentrazione, per quanto bassa, che risultasse innocua. Nessuno, evidentemente, sa a quale livello l'amminotriazolo diventi cancerogeno per l'uomo ma, come ha fatto rilevare il dott. Rutstein, professore di medicina presso l'Università di Harvard, esso, probabilmente, può essere di egual misura più o meno dannoso all'uomo. Quanto ai recentissimi idrocarburi clorurati che trovano largo impiego come insetticidi, o agli erbicidi, è ancora troppo presto per conoscere il loro effetto completo. La maggior parte delle manifestazioni maligne si sviluppano con tale lentezza che un buon numero di anni deve trascorrere prima che si abbiano evidenti sintomi clinici. Le operaie di certe fabbriche di orologi, che all'inizio del 1920 dipingevano con sostanza luminescente i numeri delle ore disegnati sui quadranti, ingerivano piccolissime particelle di radio, umettando con le labbra la punta del pennello; in alcune di queste donne, dopo un periodo di 15 o più anni, si sviluppò un cancro alle ossa. E' stato dimostrato un periodo di latenza da 15 a 30 anni, o anche più, per alcune forme professionali di cancro causate da esposizione a sostanze cancerogene. In contrapposto a queste esposizioni a prodotti industriali, i primi contatti con il Ddt datano dal 1942 per i militari, e dal 1945 per i civili; e fu solo all'inizio del 1950 che entrò nell'uso un gran numero di disinfestanti chimici. Pertanto la completa maturazione di un qualunque seme maligno gettato da questi insetticidi deve ancora avvenire. Esiste, ad ogni modo, un'eccezione alla regola per ciò che concerne il lungo periodo di latenza proprio della maggior parte delle forme maligne: la leucemia. I superstiti di Hiroshima cominciarono a mostrare i primi sintomi di leucemia appena tre anni dopo lo scoppio della bomba atomica, e vi sono oggi ragioni valide per credere che il periodo di latenza possa essere anche considerevolmente più breve. Forse col tempo si potrà dimostrare per altri tipi di cancro un periodo di latenza relativamente corto, ma fino ad oggi la leucemia appare come l'unico caso che sfugga alla norma generale di uno sviluppo a lunga scadenza. Nel periodo trascorso dall'inizio della produzione dei moderni disinfestanti ad oggi, l'incidenza della leucemia ha registrato un costante incremento. Le cifre fornite dal National Office of Vital Statistics denunciano un preoccupante aumento delle malattie di natura maligna nei tessuti emopoietici. Nel 1960 la leucemia ha mietuto da sola 12.290 vittime; e questa cifra sale ad un totale di 25.400 se vi si includono i decessi causati da altri tipi di tumori maligni del sangue e della linfa (con un brusco aumento rispetto ai 16.690 casi registrati nel 1950). Se si indica la mortalità in numero di decessi su 100.000 individui, l'aumento corrisponde ad una variazione dall'11,1 del 1950 al 14,1 del 1960. Né tale allarmante situazione riguarda soltanto gli Stati Uniti; infatti da ogni paese si ricevono notizie le quali segnalano un aumento annuo oscillante tra il 4 ed il 5% delle forme di leucemia, a tutte le età. Cosa significa ciò? A quale o a quali agenti letali, nuovi per il nostro ambiente, veniamo ora esposti con crescente frequenza? In certi istituti di fama mondiale, come ad esempio la Mayo Clinic, sono ricoverate centinaia di vittime colpite da queste caratteristiche malattie degli organi emopoietici. Il dott. Hargraves ed i suoi collaboratori del reparto ematologico della Mayo Clinic riferiscono che i loro pazienti, quasi senza eccezione, hanno subìto in passato esposizioni a vari tossici, comprese irrorazioni con Ddt, clordano, benzene, lindano ed alcuni derivati della distillazione del petrolio. Il dott. Hargraves afferma poi che malattie ambientali connesse con l'impiego di numerosi composti tossici sono diventate sempre più diffuse "soprattutto durante gli ultimi dieci anni". Sulla scorta della sua notevole esperienza professionale egli si sente autorizzato ad asserire che quasi tutti i pazienti affetti da discrasia del sangue e da malattie linfoidi sono stati esposti in passato agli effetti di vari idrocarburi, tra i quali buona parte di quelli impiegati al giorno d'oggi come disinfestanti. Una qualunque sintomatologia ben fatta non potrà che confermare pressoché invariabilmente tale relazione. Questo specialista ha raccolto un gran numero di casi clinici ben circostanziati riferentisi a pazienti colpiti da leucemia, anemie aplastiche, morbo di Hodg -kin ed altre malattie del sangue e dei tessuti emopoietici. "Si tratta di persone", egli dichiara, "sottoposte all'azione di questi agenti ambientali, e con esposizioni di notevole entità". Cosa ci mostra questa casistica? Uno degli esempi citati riguarda una massaia che viveva nel terrore dei ragni; un giorno, verso la metà d'agosto, essa si fornì d'uno spruzzatore ad aerosol contenente una miscela di Ddt e di distillato di petrolio, e si mise ad irrorare l'intera cantina senza trascurare gli scalini d'accesso, la dispensa della frutta e tutti gli angoli nascosti sul soffitto e fra le travi. Appena ebbe finito l'operazione, essa cominciò a sentirsi male: provava forti nausee ed un senso di ansietà estrema e di nervosismo. Tuttavia dopo pochi giorni si era apparentemente rimessa in salute; senza riflettere sulle possibili cause di quei disturbi, essa ripeté l'irrorazione ai primi di settembre, ne riportò le medesime conseguenze, si ristabilì e, nello stesso mese, effettuò una terza disinfestazione. Stavolta gli effetti dell'aerosol furono più gravi: febbre, dolori alle giunture, malessere generale e una flebite acuta ad una gamba. Quando il dott. Hargraves la visitò si trovò di fronte ad una donna colpita da una forma di leucemia galoppante e, infatti, essa morì il mese successivo. Un altro paziente del dott. Hargraves, un professionista, aveva il proprio ufficio in un vecchio edificio infestato da blatte. Infastidito dalla presenza di quegli insetti, egli decise di liberarsene con le proprie mani, ed impiegò buona parte di una domenica a disinfestare la cantina e tutti i ripostigli con una soluzione a base di metilnaftalina contenente il 25% di Ddt. In breve si coprì su tutto il corpo di tumefazioni a carattere emorragico, cosicché fu necessario il suo ricovero in clinica; il paziente vi giunse quasi dissanguato dalle frequenti emorragie, e l'esame del suo sangue rivelò una grave regressione del midollo osseo (cioè una anemia aplastica). Durante i cinque mesi e mezzo di degenza che seguirono gli vennero praticate ben 59 trasfusioni oltre, s'intende, ad altre cure; in seguito fu dimesso, ma la sua guarigione fu parziale, tanto è vero che nove anni più tardi morì per il sopraggiungere di una grave forma di leucemia. Quando la causa di un tumore è da ricercare negli insetticidi, compaiono tra essi, in primo piano, il Ddt, il lindano, l'esacloruro di benzene, i nitrofenoli, il paradiclorobenzene il clordano e, naturalmente, i loro solventi. Come il dott. Hargraves ebbe modo di sottolineare, è eccezionale che un individuo sia esposto ad un singolo prodotto chimico. Infatti gli antiparassitari che si trovano in commercio contengono, di solito, una combinazione di diverse sostanze sciolte in un distillato del petrolio cui viene aggiunto qualche agente che ne faciliti la dispersione; d'altro canto questo solvente contiene alcuni idrocarburi aromatici ciclici e non saturi che possono essere altamente lesivi per gli organi emopoietici. Tuttavia, da un punto di vista pratico, piuttosto che strettamente medico, questa distinzione ha poca importanza perché tali solventi a base di petrolio sono un componente inseparabile dei più comuni liquidi disinfestanti da spruzzare. La letteratura medica non solo statunitense ma anche di diversi altri paesi ci offre molti altri casi che confermano la ipotesi del dott. Hargraves sulla relazione di causa ed effetto tra gli insetticidi sopra elencati e la leucemia od altre malattie del sangue. Essi riguardano gente d'ogni sorta: agricoltori investiti dal fall --out del disinfestante che essi stessi avevano cosparso con i loro irroratori portatili, o dall'alto per mezzo di aeroplani; uno studente universitario che si era attardato a studiare nella sua stanza dopo avervi spruzzato un insetticida per reprimere un'infiltrazione di formiche; una donna che aveva installato nella propria casa un vaporizzatore portatile di lindano; un operaio agricolo di una piantagione di cotone trattata con clordano e toxafene. E troviamo in questa casistica, pur espresse con la spoglia terminologia scientifica, anche vicende drammatiche, come quella di due giovani cugini cecoslovacchi - due ragazzi che vivevano nella stessa città e che erano sempre stati compagni di lavoro e di svago. Trovarono il loro ultimo e fatale impiego in una cooperativa agricola dove erano adibiti allo scarico dei sacchi d'un insetticida (esaclorobenzene). Nel giro di pochi mesi uno di essi venne colpito da una leucemia acuta e morì dopo nove giorni. Fu in questo periodo che anche l'altro cugino cominciò a sentirsi indisposto; provava un'estrema spossatezza e continui brividi di febbre. Nello spazio di tre mesi i sintomi si aggravarono e si dovette provvedere per l'immediato ricovero in ospedale. Di nuovo la diagnosi rivelò una leucemia acuta, e di nuovo la malattia seguì il suo inevitabile corso letale. Citeremo infine il caso occorso ad un coltivatore svedese - caso che ci ricorda da vicino quello capitato al pescatore di tonno Kuboyama imbarcato sul motopeschereccio giapponese Drago Felice. Come Kuboyama, quell'agricoltore era un uomo pieno di salute, e traeva dalla terra il suo nutrimento, così come il pescatore nipponico lo traeva dal mare. Ma un giorno scese per entrambi, dal cielo, una sentenza di morte: per l'uno si trattò di ceneri radioattive, per l'altro di pulviscolo chimico. Il contadino aveva cosparso un miscuglio di Ddt e di esaclorobenzene in polvere sopra una trentina di ettari di suolo e, mentre era intento al suo lavoro, colpi di vento gli avevano fatto volteggiare attorno nuvolette di quella polvere micidiale. "La sera stessa", si legge nel referto della clinica medica di Lund dove venne ricoverato, "egli si sentì più stanco del solito, ed i giorni successivi quel senso di spossatezza si accentuò, accompagnato da dolori alla schiena e alle gambe e da brividi continui. Fu così costretto a mettersi a letto, ma le sue condizioni continuarono a peggiorare, finché il 19 maggio ?una settimana dopo la disinfestazione* si decise a chiedere il ricovero nell'ospedale del luogo". Il suo corpo era divorato da una febbre altissima ed il conteggio del sangue rivelava una sensibile anormalità, tanto che si dovette trasferire il paziente alla stessa clinica medica, dove egli decedette dopo una degenza di due mesi e mezzo. L'autopsia accertò che il midollo osseo era stato completamente distrutto. Come può un processo normale e necessario, del genere di quello della divisione cellulare, alterarsi fino a diventare così diverso e distruttivo? E' questo un problema che ha richiamato su di sé l'attenzione di numerosissimi scienziati e richiesto un enorme onere finanziario. Cosa è che sospinge una cellula a mutare la sua ordinata moltiplicazione nella disordinata ed incontrollata proliferazione del cancro? Quando verrà data la spiegazione di tale quesito, le risposte quasi certamente saranno molte. Infatti il cancro è una malattia che appare sotto diverse forme, varie come origine, come decorso e per i fattori che ne influenzano la crescita o la regressione: alla stessa stregua, le cause che lo producono devono essere multiple. Però al disotto di esse possono risiedere solo alcuni tipi fondamentali di lesione cellulare. Ricerche compiute su vari argomenti non concernenti neppure, talvolta, lo studio specifico del cancro, hanno già dischiuso in qualche punto uno spiraglio della luce che un giorno illuminerà l'intero problema. Esse ci dicono ancora una volta che soltanto l'indagine compiuta sulle più minuscole entità viventi - la cellula ed i suoi cromosomi - ci darà quella visione più ampia che fornirà la chiave del mistero. E' qui, in questo microcosmo, che dobbiamo ricercare quei fattori capaci di alterare il mirabile funzionamento dei meccanismi cellulari e di imprimere loro un indirizzo anormale. Una delle più suggestive teorie sull'origine delle cellule cancerose ci viene offerta da un biochimico tedesco, il prof. Otto Warburg dell'istituto di fisiologia cellulare "Max Planck". Quest'uomo ha dedicato tutta la propria esistenza allo studio del complicato processo dell'ossidazione cellulare; ed è stato appunto grazie alle sue ampie cognizioni in materia che ha potuto fornire un'affascinante e chiara spiegazione del modo in cui una cellula sana si trasforma in maligna. Warburg ritiene che sia le radiazioni sia le sostanze cancerogene soffochino la normale respirazione delle cellule, privandole così della loro energia: tale effetto può conseguire anche per piccole dosi, spesso ripetute, e, una volta esplicatosi, è irreversibile. Le cellule che non restano uccise sul colpo dall'attacco di questo micidiale aggressore ingaggiano una lotta disperata per compensare il deficit energetico, ma non riescono più a portare avanti il ciclo straordinariamente perfetto ed efficiente attraverso cui avviene la produzione di una gran quantità di Atp; esse vengono allora sospinte verso un metodo più primitivo e molto meno efficiente - quello della fermentazione. La lotta per la vita, attraverso la fermentazione, continua per un lungo periodo di tempo, anche per successive divisioni cellulari, cosicché tutte le cellule discendenti hanno questo anormale sistema di respirazione. Insomma, quando una cellula ha perduto la capacità di respirare normalmente, non potrà più recuperarla - né in un anno, né in un decennio, né in un periodo anche maggiore. A poco a poco nel loro sforzo disperato per il ripristino della energia perduta, le cellule superstiti trovano una specie di compensazione nell'aumentato potere di fermentazione. Si tratta di una "lotta per l'esistenza" in senso darwiniano, poiché solo le cellule più atte o facilmente adattabili sopravvivono. Si arriva così ad un momento in cui la fermentazione produce tanta energia quanta ne avrebbe fornito l'ossidazione: a questo punto le cellule sane sono diventate cancerose. La teoria di Warburg spiega molti fatti ritenuti altrimenti inesplicabili: il lungo periodo di latenza della maggior parte di forme cancerose va, ad esempio, considerato come il tempo necessario per consentire le infinite divisioni cellulari durante le quali, dopo l'alterazione iniziale dei processi respiratori, quelli fermentativi aumentano gradualmente. Il periodo necessario perché la fermentazione diventi dominante varia nelle diverse specie e dipende dalla differente velocità di fermentazione; si tratta di un tempo breve nei ratti, in cui il cancro compare rapidamente; e di un tempo lungo (perfino di diecine di anni) nell'uomo, in cui lo sviluppo dei tumori maligni è un processo lento. Si giustifica anche la ragione per cui dosi piccole e ripetute di una sostanza cancerogena, in determinate circostanze, possono diventare più pericolose di una singola concentrazione elevata. Infatti quest'ultima può uccidere le cellule sul colpo, mentre le piccole dosi consentono a qualcuna di esse di sopravvivere, ma in cattive condizioni, tanto che possono trasformarsi in cellule cancerose. Non esistono quindi dosi "innocue» di cancerogeni. Nella teoria di Warburg troviamo infine la spiegazione d'un altro fatto altrimenti incomprensibile: che lo stesso agente possa, ad un tempo, causare un tumore e venir usato per il suo trattamento terapeutico. Questo vale, come si sa, per le radiazioni le quali, applicate in medicina per uccidere le cellule cancerose provocano talvolta l'insorgenza del cancro. E vale anche per molti composti chimici che vengono impiegati nella lotta contro i tumori. Perché è presto detto: entrambi questi agenti danneggiano la respirazione, e le cellule cancerose che già hanno una respirazione anormale, aumentando il danno, muoiono; le cellule ancora sane, invece, che risentono per la prima volta disturbi respiratori, non vengono uccise ma messe su una strada che può condurle ad un certo momento verso uno stato tumorale. Le idee di Warburg ricevettero una chiara conferma nel 1953, quando altri ricercatori riuscirono ad ottenere il mutamento di cellule normali in cellule cancerose privandole, successivamente e per lunghi periodi, di ossigeno. Vennero poi ribadite nel 1961, e stavolta da risultati ottenuti non più su culture di tessuti ma addirittura su animali viventi. Si iniettarono in topi affetti da cancro sostanze radioattive e poi, mediante accurate misure respirometriche, si vide che la velocità di fermentazione era notevolmente al di sopra del normale, proprio come Warburg aveva previsto. Quasi tutti i disinfestanti, misurati secondo gli standard di valutazione stabiliti da Warburg, si rivelano perfetti cancerogeni, ciò che appare molto scoraggiante. Come abbiamo visto nel capitolo precedente molti idrocarburi clorurati, i fenoli e alcuni erbicidi interferiscono con l'ossidazione e la produzione di energia nell'interno delle cellule; in tal modo essi possono determinare una specie di assopimento delle cellule cancerose: in esse, infatti, il morbo maligno sonnecchia inavvertito per lungo tempo finché - senza che se ne sospetti la causa o avendola da molto tempo dimenticata - esplode in una forma palese e ben riconoscibile. Un'altra via per giungere al cancro può essere attraverso i cromosomi. Numerosi ricercatori di chiara fama in questo campo nutrono sospetti su qualsiasi agente che danneggi i cromosomi, interferisca con la divisione cellulare o determini mutazioni genetiche: a loro giudizio ogni mutazione è una causa potenziale di cancro. Sebbene, quando si parla di mutazioni, si alluda per solito a quelle che avvengono nelle cellule germinali e sono destinate a far sentire i loro effetti sulle generazioni successive, anche nelle cellule somatiche possono determinarsi mutazioni. Se vogliamo spiegare l'origine del cancro come una mutazione, dobbiamo ammettere che una cellula, forse sotto l'influenza delle radiazioni o di una sostanza chimica, subisca una mutazione che le consenta di sfuggire al controllo che il corpo generalmente esercita sulle divisioni cellulari, e cominci a moltiplicarsi in maniera del tutto irregolare. Le nuove cellule che ne risultano hanno esse pure un comportamento incontrollato e, in un tempo sufficientemente lungo, si ammassano fino a costituire una forma tumorale vera e propria. Altri ricercatori affermano che i cromosomi presenti nel tessuto canceroso non sono stabili, ma hanno la tendenza a spezzarsi e a deteriorarsi; il loro numero è variabile e può perfino raddoppiarsi. Albert Levan e John J. Biesele dello Sloan-Kettering Institute di New York furono i primi a tracciare l'intero percorso dalle anomalie cromosomiche alla comparsa del tumore vero e proprio. Alla domanda "quale di questi due fenomeni compare prima?" i due scienziati rispondono senza esitazione che "le irregolarità dei cromosomi precedono il manifestarsi del processo maligno". Forse essi pensano che dopo il danno iniziale ai cromosomi e la loro conseguente instabilità, abbia inizio un lungo periodo di tentativi e di errori (cioè il lungo periodo di latenza dei tumori maligni), che perdura per molte generazioni di cellule e permette un accumulo tale di mutazioni, per cui le cellule possono sfuggire al controllo e imbarcarsi in quella forma di moltiplicazione sregolata che porta al cancro. Ojvind Winge, che fu tra i primi a proporre la teoria della instabilità cromosomica, intuì che il raddoppiamento dei cromosomi doveva avere una fondamentale importanza agli effetti del cancro. Ed allora dobbiamo considerare una mera coincidenza i due fatti che l'esaclorobenzene ed il lindano, che gli è affine, siano entrambi capaci di determinare il raddoppiamento dei cromosomi nelle piante, come è stato osservato in numerosi esperimenti, e che queste sostanze siano state implicate in molti casi mortali di anemia chiaramente documentati? E che dire dei molti altri disinfestanti che interferiscono con la divisione cellulare, spezzando i cromosomi e provocando mutazioni genetiche? E' facile capire, quindi, perché la leucemia dovrebbe essere una tra le più comuni malattie riscontrabili in coloro che si espongono ai raggi o alle sostanze radiomimetiche. Il bersaglio principale degli agenti mutageni di natura chimica e fisica è costituito dalle cellule che si suddividono più attivamente e fanno parte di vari tessuti, tra cui - più importanti di tutti - quelli emopoietici. Il midollo osseo va considerato per tutta la vita come il produttore basilare di globuli rossi, poiché ne immette un quantitativo pari a circa 10 milioni al secondo nella circolazione sanguigna dell'uomo. I globuli bianchi vengono invece prodotti in gran parte dalle ghiandole linfatiche (ma anche da un certo numero di cellule del midollo) con un gettito fluttuante, ma pur sempre in quantità enorme. Certi prodotti chimici - che ancora una volta ci richiamano alla memoria gli elementi radioattivi come lo stronzio 90 - s'insediano molto facilmente nel midollo osseo; il benzene, un comune costituente dei solventi per insetticidi, vi si deposita e rimane a lungo, anche per un periodo di una ventina di mesi. Si tratta di una sostanza che già da molti anni la letteratura medica indica come causa di leucemia. Il rapido accrescimento dei tessuti di un fanciullo presenta una condizione ideale per lo sviluppo delle cellule di natura maligna. Sir Macfarlane Burnet ha sottolineato che non si nota soltanto un generico aumento dei casi di leucemia, ma l'incidenza maggiore si registra nei bambini dai tre ai quattro anni - incidenza per età che non è stata dimostrata per altre malattie. "La punta massima, riscontrata in questa età", egli afferma in proposito, "può avere difficilmente una spiegazione diversa da quella di un'esposizione del giovane organismo ad uno stimolo mutageno al momento della nascita". Un altro prodotto mutageno noto come agente di cancro è l'uretano. Femmine di topo gravide, soggette all'azione di questo composto, non solo vengono colpite da cancro polmonare, ma lo trasmettono anche ai nascituri; si è visto, infatti, per questi ultimi, che la sola esposizione all'uretano risaliva, in questi esperimenti, al periodo prenatale, ed era dunque avvenuta attraverso la placenta. Non senza un valido motivo il dott. Hueper ha ammonito che l'esposizione della popolazione umana all'uretano e ai composti affini può provocare l'insorgenza di tumori nei bambini, per causa di un'esposizione prenatale. L'uretano, che è un carbammato, ha perciò una parentela stretta con gli erbicidi Ipc e Cipc. Nonostante i moniti degli studiosi di oncologia, i carbammati vengono oggi largamente impiegati non soltanto come insetticidi, erbicidi e fungicidi, ma anche in una grande varietà di prodotti, tra cui i plastificanti, i medicinali, gli articoli di vestiario ed i materiali isolanti. Ma la via che conduce al cancro può anche essere indiretta: può accadere che sostanze non specificamente cancerogene alterino il funzionamento di qualche parte del corpo in maniera tale da favorire l'insorgere di forme tumorali. Ne sono un chiaro esempio i tumori (specialmente quelli dell'apparato riproduttivo) connessi con certe turbe dell'equilibrio ormonale, specificatamente quello sessuale; tali perturbazioni, a loro volta, possono, in alcuni casi, derivare da cause che inibiscono la capacità del fegato di mantenere la concentrazione degli ormoni a un certo livello. Gli idrocarburi clorurati sono precisamente gli agenti tipici di questa specie di carcinogenesi indiretta, giacché tutti sono in un certo grado tossici per il fegato. Naturalmente gli ormoni sessuali sono sempre normalmente presenti nel corpo ed adempiono ad una necessaria funzione di stimolo dell'accrescimento in rapporto ai vari organi della riproduzione. Ma il corpo possiede una naturale difesa contro il loro eccessivo accumularsi, ed è precisamente il fegato che ha il compito di regolare l'equilibrio tra gli ormoni maschili e quelli femminili e di prevenire l'eccesso di ambedue (gli uni e gli altri vengono prodotti in entrambi i sessi, se pur in proporzioni differenti). Qualora quest'organo subisca danni per opera di sostanze chimiche o malattie, oppure se il rifornimento di vitamine del complesso B diventa troppo scarso, non può più svolgere tale funzione, e gli estrogeni raggiungono allora un livello eccezionalmente elevato. Quali effetti ne derivano? Perlomeno per gli animali, gli esperimenti compiuti offrono una dovizia di prove. Una ricerca compiuta al Rockefeller Institute for Medical Research ha comprovato che conigli affetti da malattie che avevano danneggiato il fegato presentavano una forte incidenza di tumori uterini: tumori che, a quanto si ritiene, trovano il terreno favorevole perché il fegato non riesce più a neutralizzare gli estrogeni nel sangue "i quali, pertanto, salgono ad un livello cancerogeno". Numerosi esperimenti su topi, ratti, cavie e scimmie mostrano che la prolungata somministrazione di estrogeni (non necessariamente a dosi elevate) determina alcuni cambiamenti nei tessuti degli organi riproduttivi "oscillanti tra le neoplasie benigne e manifestazioni di natura sicuramente maligna". Nei criceti, la somministrazione di sostanze estrogene ha determinato tumori ai reni. Anche se negli ambienti medici circolano opinioni contrastanti a questo proposito, vi sono fondati motivi per ritenere che le stesse considerazioni siano valide anche per i tessuti umani. I ricercatori del Royal Victoria Hospital presso la Mcgill University sono giunti all'importante constatazione che, su 150 casi di cancro uterino, i due terzi si accompagnavano ad una concentrazione eccezionalmente elevata di estrogeni e, in una serie successiva di 20 casi, la percentuale saliva fino al 90%. Si dà poi il caso che il fegato abbia riportato un danno tale da impedirgli la sua funzione anti-estrogena, senza che esso sia così palese da poter essere identificato con gli attuali mezzi diagnostici. Si tratta di un'eventualità tutt'altro che rara, perché può venir determinata da uno qualsiasi degli idrocarburi clorurati, i quali - come abbiamo visto - danno origine a mutamenti nelle cellule del fegato anche quando sono presenti in piccolissime dosi; essi provocano altresì una perdita di vitamine B che, come l'esperienza dimostra con chiara evidenza, assolvono ad un importante compito protettivo contro il cancro. Il prof. Rhoads, un tempo direttore dello Sloan-Kettering Institute for Cancer Research, trovò che i suoi animali di laboratorio, sottoposti all'azione di un energico cancerogeno, restavano immuni da cancro se venivano nutriti con una sostanza ricca di vitamine naturali B come, per esempio, il lievito. Manifestazioni cancerose nella bocca ed in altri tratti del tubo digerente si accompagnano - a quanto si è riscontrato - con la carenza di queste vitamine; e la casistica appare particolarmente abbondante non solo negli Stati Uniti, ma anche nelle regioni più settentrionali della Svezia e della Finlandia, dove l'alimentazione umana è generalmente oligo- o avitaminica. Popolazioni particolarmente suscettibili di tumori primari al fegato, per esempio le tribù africane dei Bantu, sono generalmente malnutrite. Il cancro della mammella ricorre con notevole frequenza nei maschi di alcune regioni africane e si associa sempre a malattie del fegato e a scarsa e cattiva nutrizione; e la stessa cosa si è registrata in Grecia, dove una maggiore frequenza dell'ingrossamento della mammella negli uomini, in periodo postbellico, era sempre da mettere in relazione con quel periodo di gravi ristrettezze alimentari. In conclusione, l'influenza indiretta esercitata dai disinfestanti sullo sviluppo del cancro è suffragata dalla loro comprovata capacità di danneggiare il fegato e di ridurre la scorta di vitamine B, provocando così un aumento degli estrogeni "endogeni" e di quelli prodotti dal corpo stesso; ad essi vanno aggiunti anche numerosi altri estrogeni di natura sintetica cui siamo esposti con frequenza sempre maggiore attraverso l'ingestione di prodotti farmaceutici o di cibi integrati con additivi, oppure mediante l'uso di cosmetici, o infine per motivi di lavoro. Tale effetto combinato è una questione che merita il più attento esame. L'uomo è esposto alle sostanze cancerogene (tra cui gli antiparassitari) in maniera incontrollata e molteplice, e può subire più volte e in diverso modo l'effetto d'uno stesso prodotto. Prendiamo ad esempio l'arsenico: esso esiste sotto vari aspetti nell'ambiente che ci circonda, come inquinante dell'aria o dell'acqua, come residuo di insetticidi nei nostri cibi, come componente di prodotti farmaceutici o cosmetici; viene utilizzato inoltre nei trattamenti per la conservazione del legno e, come colorante, nelle vernici e negli inchiostri. Probabilmente un'esposizione all'arsenico in una qualsiasi di queste forme non riuscirebbe mai, da sola, a determinare la comparsa di tumori maligni; ognuna delle singole dosi ritenuta "innocua" può essere però sufficiente a far sentire il proprio peso quando già altre dosi del genere si sono accumulate nell'organismo. Oppure di nuovo si può avere il caso di due o più cancerogeni diversi che interagiscono in modo che i loro effetti si sommino. Ad esempio, un individuo esposto al Ddt quasi certamente subirà anche l'azione di altri idrocarburi dannosi per il fegato, che vengono usati con tanta frequenza come solventi per vernici, sgrassanti, smacchiatori a secco e anestetici. Quale può essere considerata dunque, una dose "innocua" di Ddt? Il quadro diventa ancor più complesso se consideriamo che una sostanza chimica può agire su un'altra ed alterarne gli effetti. Perché il cancro compaia è talvolta necessaria la cooperazione di due diversi composti chimici: uno di essi serve a sensibilizzare la cellula o il tessuto cosicché, in seguito, sotto l'azione di un'altra sostanza, che funge da determinante, può evolversi in un tumore. I due erbicidi Ipc e Cipc assolvono appunto al compito iniziale, depositando nella pelle i semi dei tumori cutanei che verranno poi fatti germogliare da qualche altra sostanza come, per esempio, un comune detergente. E vi può essere, infine, un'interazione tra un agente fisico ed un agente chimico. Accade infatti che la leucemia, a volte, si sviluppi in due tempi: i raggi X operano nella fase preparatoria e, successivamente, interviene un composto chimico (che può essere l'uretano) per portare a termine il processo. La crescente esposizione dell'umanità agli effetti di radiazioni di vario genere, accompagnata dal contatto quotidiano con una schiera infinita di prodotti chimici, crea un nuovo grave problema per il mondo moderno. Un'altra preoccupante incognita è quella dell'inquinamento dell'acqua potabile per opera dei residui radioattivi. Questi, contaminando le risorse idriche che contengono anche altre sostanze chimiche, possono mediante le loro radiazioni ionizzanti modificare la natura di queste ultime, ridistribuirne gli atomi in maniera imprevedibile, dando così luogo a nuovi prodotti. In tutti gli Stati Uniti gli esperti di polluzione delle acque sono preoccupati oggi dal fatto che i detergenti rappresentino ormai un dannoso e praticamente onnipresente agente di contaminazione delle acque pubbliche: non esiste, infatti, alcun trattamento che possa rimuoverli. Per la verità pochi sono i detergenti noti come cancerogeni; tutti, però, favoriscono indirettamente l'insorgenza del cancro, intaccando le pareti del tubo digerente, e modificando i tessuti in modo tale che essi possano assorbire facilmente le sostanze tossiche, restandone gravemente contaminati. Ma chi può prevedere e scongiurare tale azione? In questo caleidoscopio di continui mutamenti, quale dose può essere considerata davvero "innocua" se non una "dose zero"? A nostro rischio e pericolo continuiamo a tollerare la presenza di agenti cancerogeni nell'ambiente che ci circonda. Basta un recente episodio per dimostrarlo: nella primavera del 1961, una vera epidemia di cancro al fegato venne riscontrata nelle trote arcobaleno di molti vivai federali, statali e privati. Da un capo all'altro del paese questi pesci mostravano i segni della malattia e, in qualche zona, il 100% degli individui al disopra dei 3 anni risultava colpito: fu facile accorgersene perché proprio poco tempo prima l'Environmental Cancer Section del National Cancer Institute aveva richiesto al Fish and Wildlife Service che gli segnalasse ogni eventuale caso di pesci affetti da tumori per poter stabilire quali acque fossero contaminate, e prendere adeguati provvedimenti atti a scongiurare ogni pericolo per l'uomo. Mentre stanno ancora continuando le indagini per determinare con esattezza le cause di una epidemia diffusa su una superficie così vasta, una delle prove migliori sembra puntare su qualche elemento presente nei mangimi preparati nei vivai. Ed infatti questi contengono un'incredibile varietà di additivi chimici e medicinali oltre agli elementi fondamentali. Questo episodio è importante per molte ragioni, ma soprattutto perché ci offre un chiaro esempio di ciò che può capitare quando un cancerogeno viene introdotto nell'ambiente abitato da una specie qualsiasi. Il dott. Hueper ha ravvisato nell'aspetto epidemico di tale malattia un serio ammonimento che dovrebbe indurci a controllare sempre più il numero e la qualità dei cancerogeni ambientali. "Se non si prendono misure adeguate", egli afferma, "con sempre maggiore rapidità si giungerà ad una simile funesta situazione anche per l'uomo". La constatazione che, come ha detto uno studioso, stiamo vivendo in un "mare di cancerogeni" può apparire scoraggiante e sospingerci verso la disperazione ed il fatalismo. Sempre più di frequente ci chiediamo: "Esiste un rimedio a questa situazione? Sono davvero inutili i tentativi per cercare di eliminare questi agenti cancerogeni dal nostro mondo? Non dovremmo piuttosto convogliare i nostri sforzi nella ricerca di una cura efficace del cancro, anziché attardarci nella ricerca di impossibili soluzioni preventive?" A questi interrogativi il dott. Hueper - un uomo che dovremmo ascoltare per l'autorità che gli deriva dalla sua preparazione scientifica in questo campo - risponde con la consapevolezza di chi ha meditato lungamente su di essi durante un'intera esistenza spesa nello studio e nelle ricerche. Egli ritiene che la nostra situazione, per quanto riguarda il cancro, sia simile oggi a quella che il genere umano dovette fronteggiare verso la fine del Xix secolo per combattere le malattie infettive. La relazione di causa ed effetto tra gli organismi patogeni e molte forme morbose venne stabilita grazie all'opera geniale di Pas -teur e di Koch: i medici ed anche l'opinione pubblica seppero così che il loro ambiente pullulava di microrganismi apportatori di malattie, così come noi oggi sappiamo che i cancerogeni ci insidiano da ogni parte. Molti di quei morbi infettivi sono ormai sottoposti ad un efficiente controllo, e di alcuni non esiste più traccia; questa mirabile vittoria della scienza medica appare il frutto di un duplice attacco: sul piano preventivo e su quello terapeutico. Bisogna aggiungere che, nonostante l'eccessiva fiducia riposta dall'uomo della strada nelle "pillole magiche" e nei "farmaci miracolosi", la maggior parte delle battaglie veramente decisive nella lotta contro le malattie infettive venne vinta grazie alle misure adottate per eliminare gli agenti patogeni dell'ambiente. Un esempio inconfutabile ci viene offerto dalla spaventosa ed ormai storica epidemia di colera scoppiata a Londra più di cent'anni fa. Un medico londinese, John Snow, registrò in quale quartiere si erano verificati i vari casi e s'accorse che il focolaio era localizzato in una sola zona, i cui abitanti attingevano l'acqua da una fontana situata in Bond Street. Il dott. Snow ricorse ad un sistema radicale e speditivo: asportò il manico della pompa. Immediatamente l'epidemia diminuì di intensità e non per una magica pillola capace di uccidere gli agenti (allora sconosciuti) del colera, ma semplicemente eliminando tali organismi dall'ambiente. Anche le misure terapeutiche non soltanto curano il paziente, ma cercano anche di ridurre i focolai di infezione; non bisogna dimenticare, per esempio, che oggi i casi di tubercolosi sono relativamente scarsi perché la generalità della popolazione entra più raramente in contatto con i bacilli tubercolari. Oggi dobbiamo constatare che, purtroppo, il nostro mondo pullula di agenti cancerogeni. Secondo il dott. Hueper, una lotta contro il cancro, condotta unicamente o in prevalenza attraverso misure terapeutiche (dato e non concesso che si possa scoprire un metodo di cura radicale), è destinata all'insuccesso perché lascerebbe intatte le grandi riserve di agenti cancerogeni. Questi continuerebbero a mietere nuove vittime e ad una rapidità tale che quell'eventuale "cura", purtroppo non ancora in nostra mano, non riuscirebbe a star loro dietro per lenire la malattia. Perché, allora, abbiamo impiegato tutto questo tempo ad accettare l'unica soluzione dettata dal buon senso per la cura del cancro? "Forse", rileva il dott. Hueper, "l'obiettivo di curare direttamente le vittime del cancro è più invitante, tangibile, affascinante e soddisfacente che non quello della profilassi". Resta però il fatto che la prevenzione risponde ad un fine "molto più umano", ed è in grado di contribuire con ben maggior efficacia alla soluzione dell'angoscioso problema. Il dott. Hueper non nasconde la propria disapprovazione per chi vagheggia la scoperta di una "taumaturgica pillola anticancro da prendersi ogni mattina prima della colazione". In parte, l'interesse pubblico a tale eventuale scoperta deriva dalla fallace convinzione che il cancro sia una singola (anche se misteriosa) malattia, con una sola causa e, si spera, con un'unica cura. Il che è ben lontano dal vero, giacché le forme maligne sono determinate dall'infinita varietà degli agenti chimici e fisici sparsi nell'ambiente, e pertanto esse si manifestano in modi diversi biologicamente, e distinti. Non possiamo dunque aspettarci che tale vittoria, se e quando verrà, sia un rimedio valido per tutti i tumori maligni. Anche se è giusto continuare nella ricerca di terapie che rechino sollievo, e possibilmente la guarigione, a chi ha già subìto l'attacco del morbo, si rende un pessimo servizio all'umanità alimentando le speranze in una rapida e completa vittoria che stroncherà da sola questo mortale nemico. Il successo bisognerà invece conquistarselo pazientemente, compiendo un passo per volta. Oggi stanziamo milioni e milioni per le ricerche ed affidiamo ogni nostra speranza ai vasti programmi destinati alla messa a punto di nuove cure efficaci nei casi di cancro già conclamato, ma trascuriamo completamente ogni occasione favorevole per impedirne la comparsa (continuando, s'intende, a migliore le pratiche terapeutiche). E, tuttavia, il compito che ci sta di fronte è tutt'altro che irrealizzabile; anzi, da un certo punto di vista, la situazione è meno scoraggiante di quella che si dovette affrontare un secolo fa per combattere le malattie infettive. Il mondo era pieno allora di germi mortali come oggi lo è di agenti cancerogeni; ma quei germi avevano invaso l'ambiente non per opera dell'uomo, e si erano diffusi indipendentemente dalla sua volontà, mentre oggi siamo proprio noi che disseminiamo la maggior parte di tali sostanze nell'ambiente e quindi possiamo, se lo vogliamo, eliminarne almeno una parte. I cancerogeni chimici si sono insediati nel nostro mondo in due modi: innanzitutto, ironia della sorte, perché l'uomo voleva avere un'esistenza più facile e migliore; secondariamente perché la produzione e la vendita di questi prodotti è diventata parte integrante della nostra economia e del nostro modo di vivere. Mancheremmo di senso realistico se pensassimo che si possano e si vogliano eliminare tutti questi composti dal nostro mondo moderno; è pur vero, però, che una buona parte di essi ci è tutt'altro che indispensabile. Basterebbe abolirne l'uso, e la quantità complessiva dei cancerogeni subirebbe una considerevole riduzione: la minaccia che un individuo su quattro venga colpito da cancro sarebbe così notevolmente attenuata. Lo sforzo principale dovrebbe essere fatto per eliminare i cancerogeni dai nostri alimenti, dalle acque potabili e dall'atmosfera, perché proprio essi ci sottopongono al tipo più pericoloso di contatto: minime dosi alle quali siamo esposti continuamente per anni ed anni. Molti eminenti studiosi di oncologia - concordi con il dott. Hueper - condividono l'opinione che il cancro possa essere scongiurato, almeno parzialmente, se si riesce ad accertarne le cause ambientali, ad eliminarle o temperarne gli effetti. S'intende che, nel frattempo, non dovrà essere lesinato alcuno sforzo per la ricerca delle cure migliori da prodigare a chi è già vittima di un cancro manifesto o latente. Ma per coloro che non hanno ancora subìto l'attacco di questo micidiale nemico e per le generazioni non ancora nate v'è un solo imperativo: la prevenzione. Capitolo quindicesimo - La natura si ribella alla violazione dell'uomo Sarebbe una vera ironia della sorte se, alla fine, dopo aver rischiato tanto nel tentativo di plasmare la natura secondo i nostri desideri, non fossimo riusciti ad ottenere il nostro scopo. Questa è, per ora, la nostra situazione. La verità, di cui raramente si parla anche se l'abbiamo sempre sotto gli occhi, è che la natura non si lascia sopraffare così facilmente: in altre parole, gli insetti stanno trovando il modo di sventare l'attacco che noi, con i nostri prodotti chimici, stiamo scagliando su di loro. "Il mondo degli insetti", ha detto il biologo olandese Briejèr, "è il fenomeno più stupefacente della natura. Nulla è irrealizzabile per esso; le cose meno probabili vi avvengono nel modo più naturale. Chi cerca di penetrare i suoi misteri trova sempre nuovi motivi di meraviglia; si accorge che qualsiasi cosa può accadere; ciò che appare impossibile si muta in realtà". E davvero, oggi, l'impossibile sta diventando una realtà su due vasti fronti. Attraverso un processo di selezione genetica, gli insetti stanno sviluppando ceppi resistenti alle sostanze chimiche: di ciò parleremo nel prossimo capitolo. Ma il problema più importante che esamineremo ora è che le difese proprie dell'ambiente, le quali servono a tenere sotto controllo le varie specie, sono sempre più indebolite dall'azione dei composti chimici che noi vi immettiamo. Ogni volta che facciamo breccia in queste difese, milioni di insetti riescono a penetrarvi. Da tutto il mondo giungono notizie che mettono in chiaro la grave situazione che si va determinando. Dopo dieci o più anni di controllo chimico intensivo, gli entomologi si ritrovarono di fronte a problemi che ritenevano di avere definitivamente risolto alcuni anni prima; anzi la soluzione parve allora assai più difficile perché nuovi insetti, un tempo poco numerosi, si erano moltiplicati fino a diventare un vero e proprio flagello. I controlli chimici, programmati e realizzati senza tener conto dei complessi sistemi biologici contro cui vengono ciecamente scatenati, non possono non avere, per la loro stessa natura, un effetto controproducente. Essi, infatti, sono in grado di agire efficacemente tutt'al più contro poche e singole specie di organismi, ma non contro ogni forma vivente. Al giorno d'oggi, si manifesta da più parti la tendenza a considerare l'equilibrio della natura una condizione che fu valida in passato, in un mondo più semplice - una condizione che oggi invece è stata completamente sconvolta, tanto che non val più neanche la pena di prenderla in considerazione. C'è chi è soddisfatto di questa affermazione, ma, all'atto pratico, essa presenta molti rischi. Ovviamente, l'equilibrio della natura appare oggi molto diverso da quello del periodo pleistocenico; è cambiato, ma sussiste: si tratta di un complesso, preciso ed unitario sistema di correlazione tra tutti gli esseri viventi che non possiamo impunemente ignorare, così come non possiamo sfidare la legge di gravità quando ci protendiamo dall'orlo di un burrone per guardare l'abisso sottostante. L'equilibrio della natura, ripetiamo, non è uno status quo, ma è un processo in perpetuo divenire, in costante stato di adattamento. E l'uomo ne fa parte; talora ne è avvantaggiato, altre volte - sempre o troppo spesso a causa delle proprie attività - ne è danneggiato. Nel definire i moderni programmi di controllo degli insetti sono stati trascurati due fatti fondamentalmente importanti: il primo è che il controllo veramente efficace degli insetti viene esercitato dalla natura stessa e non già dall'uomo. L'eccessivo espandersi di una popolazione qualsiasi è tenuto a freno da quella che gli ecologi chiamano la "resistenza dell'ambiente" (e ciò accadde fin da quando nacque la prima forma di vita). La quantità di cibo disponibile, le condizioni atmosferiche e climatiche, la presenza di specie concorrenti o predatrici sono tutti fattori essenziali. "Il più potente fattore che impedisce agli insetti di sommergere il nostro mondo", affermò l'entomologo Robert Metcalf, "consiste nella micidiale guerra ingaggiata dagli uni contro gli altri". Ed invece la maggior parte dei composti chimici impiegati oggi uccide indiscriminatamente gli insetti utili e quelli dannosi. Il secondo fatto di cui non teniamo conto è quella straordinaria capacità di riprodursi che una specie acquista allorché la resistenza dell'ambiente viene indebolita. La fecondità di molte forme viventi sorpassa i limiti della nostra immaginazione, anche se qua e là riusciamo a scorgere cenni indicativi. Ricordo che, quand'ero ancora una giovane studentessa, restavo strabiliata di fronte al miracolo di una vaschetta contenente un po' di fieno in acqua, alla quale veniva aggiunta qualche goccia di materiale prelevato da una coltura ben sviluppata di protozoi: in pochi giorni la bacinella pullulava, per così dire, di un'intera galassia di guizzanti e velocissime forme viventi - trilioni di microscopici parameci, piccoli come granelli di polvere e proliferanti senza alcun freno in quel paradiso terrestre ricco di nutrimento, alla giusta temperatura e privo di nemici. Oppure rammento le scogliere bianche come la neve perché interamente ricoperte di balanidi; o, infine, lo spettacolo offerto da una teoria di chilometri di meduse pulsanti, impalpabili e inconsistenti come l'acqua che le trasportava. Un esempio prodigioso di controllo naturale è quello del merluzzo che migra d'inverno per portarsi nei mari in cui la femmina depositerà milioni d'uova. Ma il mare non diventa una massa unica di merluzzi, come avverrebbe sicuramente se l'intera progenie dei riproduttori sopravvivesse; il controllo della natura interviene con tale imperiosità che, dei milioni di giovani merluzzi generati da una sola coppia, ne resta in vita, fino all'età adulta, solo quel tanto che basta per mantenere in equilibrio la popolazione. I biologi cercarono spesso di immaginare che cosa succederebbe se, per qualche impensabile catastrofe, il controllo naturale venisse a mancare e tutta la discendenza di un singolo individuo sopravvivesse. Thomas Huxley, ad esempio, ha calcolato un secolo fa, che un solo afide femmina (dotato della singolare capacità di riprodursi senza il concorso del maschio) potrebbe procreare nello spazio di un anno una progenie il cui peso complessivo uguaglierebbe quello dell'intera popolazione cinese. Per nostra fortuna si tratta soltanto di valutazioni astratte; ma chi studia le popolazioni animali ben conosce le disastrose conseguenze cui si va incontro quando si tenta di sconvolgere gli ordinamenti della natura. Tutti sanno, per esempio, che il fanatico zelo posto dagli allevatori di bestiame nella eliminazione dei coyote ha causato una vera infestazione di topi campagnoli prima sotto il loro controllo. Un altro esempio caratteristico e molto noto è quello del cervo Kaibab dell'Arizona: in passato, tra la popolazione di questo animale e l'ambiente esisteva una perfetta armonia, poiché un certo numero di animali da preda - puma, lupi e coyote - impedivano a quella specie erbivora di crescere in soprannumero rispetto alle possibilità di pascolo che offriva la vegetazione della zona. Quand'ecco che l'uomo intraprese una vasta campagna per "proteggere" i cervi dai loro nemici; ed essi vennero "protetti" così efficacemente che, appena il territorio fu liberato dalla presenza dei carnivori, si moltiplicarono a tal segno da non riuscire più a trovare la quantità di cibo necessaria al sostentamento. I cervi brucarono, sempre più in alto, i germogli e le foglie degli alberi; malgrado ciò, cominciarono a morire ed in numero maggiore di quello che, nel passato, finiva nelle fauci degli animali da preda. Inoltre, tutta la vegetazione ambientale rimase danneggiata dagli sforzi disperati di queste bestie fameliche per procurarsi il cibo. Gli insetti predatori dei campi e delle foreste adempiono ad una funzione analoga a quella dei lupi e dei coyote nei confronti del Kaibab. Se li sterminiamo, la popolazione degli altri insetti si accrescerà rapidamente. Nessuno sa con precisione quante specie di insetti esistono sulla Terra, poiché molte di esse non sono state ancora identificate; ad ogni modo ne sono già state descritte più di 700.000, e ciò significa che il 70-- 80% delle specie viventi sul nostro pianeta è costituito da insetti. La quasi totalità di essi viene tenuta a freno non già dall'intervento dell'uomo, ma dalle forze della natura; se così non fosse, neppure la più smisurata quantità di insetticidi chimici - o qualsiasi altro mezzo umano - consentirebbe di stabilire un efficace controllo. Purtroppo, spesso ci accorgiamo dell'esistenza di queste difese naturali soltanto dopo che esse vengono a mancare. La maggior parte di noi cammina con gli occhi bendati su questa terra senza vederne le bellezze e le meraviglie, né osservare la straordinaria e talvolta terribile intensità di vita che pulsa intorno a noi. Ecco perché solo pochi conoscono le attività degli insetti predatori e parassiti. Forse avremo scorto qualche volta, su un arbusto del nostro giardino, un insetto dalla strana forma e dall'aspetto feroce, ma non sapevamo o quasi che questa mantide religiosa vive soltanto a spese di altri insetti. Per conoscere qualcosa di più sul suo conto abbiamo dovuto sorprenderla di notte alla luce d'una lampadina portatile, mentre s'avventa per ghermire la sua vittima. Allora abbiamo cominciato a comprendere qualcosa della drammatica vicenda che si svolge tra predatore e preda; allora abbiamo cominciato ad acquistare la consapevolezza delle incessanti e potenti forze che la natura sprigiona per controllare se stessa. Gli insetti predatori - cioè quelli che uccidono e divorano gli altri insetti - appartengono a molti tipi: alcuni sono veloci quanto le rondini e, come esse, afferrano la preda al volo; altri esplorano metodicamente la superficie dei rami, catturando e divorando gli insetti sedentari - per lo più afidi - che vi si trovano. Le vespe catturano insetti dal corpo molle e danno i loro succhi ai piccoli. Altri Imenotteri del genere Pelopaeus costruiscono nidi di fango rappreso a forma di colonna sotto le grondaie delle case e vi depositano gli insetti uccisi, che serviranno di nutrimento alla loro prole; altri ancora, infine, cacciano insetti (Ditteri) che suggono il sangue del bestiame. Un Sirfide che ronza rumorosamente è spesso confuso con un'ape; depone le sue uova sulle foglie delle piante infestate dagli Afidi, i quali diventano poi il cibo prevalente per le larve che si schiudono. Anche le Coccinelle sono notevoli sterminatrici di questi insetti, di Coceidi e di altri che danneggiano le piante; centinaia di Afidi vengono letteralmente consumati da un'unica Coccinella per portare a maturazione le uova. Ancor più sorprendente è il comportamento degli insetti parassiti: essi non uccidono i loro nemici subito ma, con diversi accorgimenti utilizzano le vittime per il nutrimento della loro prole. Qualcuno di essi, per esempio, deposita le uova nelle larve o nelle uova della preda, in modo che i nuovi insetti, quando nascono, si nutrano a spese dell'ospite. Altri, servendosi d'una secrezione adesiva, attaccano le loro uova sul corpo d'un bruco e le larve, quando vengono fuori dal guscio, trafiggono la pelle del nemico; certuni, infine, con un istinto che pare preveggenza, depongono semplicemente le uova sulla superficie fogliare, cosicché un bruco di passaggio le ingerirà inavvertitamente. Dappertutto, nei campi, sulle siepi, nei giardini e nelle foreste, gli insetti predatori e parassiti sono incessantemente all'opera. Qui, sopra uno stagno, sfrecciano le libellule, e le ali risplendono sotto i raggi del sole; altrettanto facevano i loro remoti antenati nelle paludi abitate dagli enormi rettili; oggi, come allora, esse si servono della loro acutissima vista per catturare al volo le zanzare, aiutandosi con le zampe a forma di paniere, mentre nelle acque sottostanti le generazioni più giovani, ninfe o naiadi, predano a loro volta le larve acquatiche delle zanzare e altri insetti. Oppure laggiù, sopra una foglia, sta appiattita, quasi invisibile, la Crisopa dalle verdi ali trasparenti e dagli occhi dorati, schiva e sfuggente, discendente da antenati che vissero nel Permiano. La Crisopa adulta si nutre principalmente del nettare delle piante o della melata degli Afidi; depone le uova, che sono attaccate alle foglie per mezzo di un lungo peduncolo; le larve che ne nascono - strane creature munite di setole - catturano gli Afidi, i Coccidi, gli Acari e ne succhiano il sangue. Ciascuna di esse può divorarne parecchie centinaia prima che l'incessante ruota del ciclo vitale la porti a tessere un bianco bozzolo serico che l'accoglierà durante lo stadio di pupa. In altri luoghi ancora, vi sono vespe e mosche la cui esistenza dipende in tutto e per tutto dalla presenza di larve od uova di altri insetti da poter parassitizzare. Alcuni parassiti delle uova sono vespe estremamente piccole, ma il loro numero e la loro instancabile attività riescono a tenere sotto controllo le specie devastatrici dei raccolti agricoli. Tutte queste minuscole creature lavorano senza posa sotto il sole e sotto la pioggia, anche durante le ore notturne e anche quando la morsa del gelo ha smorzato le fiamme vitali riducendole a minuscoli tizzoni. In questo periodo la loro forza vitale cova sotto la cenere, aspettando il momento di esplodere in una nuova attività quando la primavera giungerà a risvegliare il mondo degli insetti. Nel frattempo, sotto il bianco mantello della neve, sotto la superficie indurita dal gelo, nelle fessure delle cortecce degli alberi ed in grotte protette, parassiti e predatori hanno trovato il modo di superare la fredda stagione. Le uova della mantide religiosa - questa strana creatura che vive una sola estate - sono protette da astucci costituiti da una sostanza pergamenacea, emessa dalla femmina che li appende, prima di morire, ai rami di un cespuglio. La femmina della vespa Polystes, l'unica a sopravvivere della sua famiglia, si rifugia in un angolo nascosto di qualche attico, portando dentro di sé le uova fecondate da cui dipende il destino della colonia; essa, di primavera, prepara un nido, fragile come carta, depone le uova in ognuno dei suoi minuscoli scompartimenti ed alleva con cura un piccolo numero di operaie che l'aiuteranno a ingrandire il nido e a sviluppare la colonia e, quando giungeranno le caldissime giornate estive, distruggeranno una quantità incalcolabile di bruchi. Così, attraverso le circostanze in cui si svolge la loro esistenza e per la natura stessa delle loro necessità, tutti questi insetti si sono alleati con noi per assicurare il mantenimento dell'equilibrio naturale a tutto nostro vantaggio. Ed ecco che noi abbiamo rivolto le nostre artiglierie contro questi amici. Il pericolo più grave è che abbiamo sottovalutato grossolanamente la loro importanza nel tenere a bada un'oscura moltitudine di nemici i quali, senza il loro aiuto, ci possono sopraffare. La prospettiva di un indebolimento generale e definitivo della resistenza ambientale si fa sempre più reale e preoccupante con il passare degli anni, a mano a mano che aumenta il numero, la varietà e la potenza tossica degli insetticidi. Dobbiamo perciò aspettarci un giorno o l'altro, invasioni sempre più poderose di insetti - sia infestanti che portatori di malattie - quali non abbiamo mai conosciuto. "Ma", si obietterà da qualche parte, "non è, questa, un'ipotesi puramente teorica? Io non ritengo possibile un tale disastro: non durante il tempo che mi resta da vivere, per lo meno". Eppure qualcosa del genere sta accadendo proprio da noi e proprio ora. Varie pubblicazioni scientifiche hanno segnalato circa 50 specie che, nel 1958, sono state coinvolte in brusche alterazioni dell'equilibrio naturale; e di anno in anno aumentano i casi del genere. Una recente rassegna su questo argomento riportava fonti bibliografiche riferentesi a ben 215 lavori che discutevano o illustravano casi di squilibrio, risultato dannoso, in popolazioni di insetti per effetto di antiparassitari. Talvolta le disinfestazioni non hanno provocato che un enorme accrescimento numerico proprio di quegli insetti che si cercava di tenere sotto controllo. Così, per esempio, nell'Ontario, i Simulium (1) raggiunsero una diffusione 17 volte superiore a quella che esisteva prima della disinfestazione. Ed in Inghilterra si è registrato un aumento senza precedenti degli afidi del cavolo dopo la disinfestazione compiuta con (1) Insetti dell'ordine dei Ditteri che presentano un comportamento molto simile a quello delle zanzare. ?N'd'T'* insetticidi organici a base di fosforo. Altre volte la disinfestazione, pur essendo ragionevolmente efficace contro l'insetto che si voleva colpire ha schiuso un intero vaso di Pandora, da cui sono fuoruscite le specie più dannose che precedentemente non erano mai state tanto numerose da costituire un pericolo. Il "ragnetto rosso", per citare un caso, si è trasformato in un fastidioso parassita, estremamente diffuso, soltanto dopo che il Ddt ed altri composti chimici hanno sterminato i suoi nemici. (2) Non si tratta di un insetto, ma di un Acaro che presenta un apparato boccale atto (2) Lo stesso fenomeno si è verificato anche in Italia dopo i trattamenti a base di Ddt iniziati a suo tempo per la difesa dei garofani. ?N'd'T'* a pungere e succhiare. Basta una modesta invasione perché il fogliame degli alberi e dei cespugli diventi chiazzato; quando invece l'infestazione si fa più massiva, le foglie ingialliscono e cadono. Ecco quanto è accaduto in alcune foreste degli stati occidentali del nostro paese pochi anni fa quando, nel 1956, l'United States Forest Service irrorò circa 400.000 ettari di territorio boschivo con il Ddt. Lo scopo era stato quello di controllare la Choristoneura fumiferana, il solito parassita dell'abete ma, nell'estate seguente, si presentò un pericolo ben maggiore: ispezionando le foreste dall'alto ci si accorse che, in una vasta area, i magnifici abeti Doug -las erano diventati bruni e perdevano gli aghi. La Helena National Forest, le foreste delle pendici occidentali delle Big Belt Mountains, quelle di altre zone del Montana e, più a sud, fino all'Idaho, recavano segni di devastazione come se fossero state brucate. Apparve subito chiaro che quell'estate del 1957 aveva portato con sé la peggior infestazione di ragni rossi che mai si fosse verificata come estensione e gravità; praticamente l'intera area disinfestata ne aveva subìto le conseguenze mentre da nessun'altra parte si era visto un danno simile. Gli esperti forestali richiamarono alla memoria altri casi del genere, se pur di minor entità: uno occorso nel 1929 lungo il corso del Madison River, nel Yellowstone Park; un altro, vent'anni dopo, nel Colorado; ed infine un terzo, l'anno prima, nel New Mexico. Ebbene, si constatò che ognuna di quelle tre infestazioni era stata preceduta da irrorazioni forestali con insetticidi (nel 1929 il Ddt non esisteva ancora, ma i disinfestatori avevano impiegato l'arseniato di piombo). Perché mai il ragno rosso diventa così prospero nelle zone cosparse di insetticidi? Oltre all'ovvio motivo della sua relativa refrattarietà ad essi, vi sono altre due ragioni. Anzitutto, in natura, esso viene tenuto a freno da vari predatori come le Coccinelle, i Cecidomiidi, gli Acari predatori ed altri insetti tutti estremamente sensibili all'azione degli insetticidi. Inoltre v'è un terzo motivo di natura, per così dire, demografica: in condizioni normali, le colonie di questo aracnide vivono in densi conglomerati, nascosti in un ambiente adatto che esse proteggono con una tela dall'insidia dei nemici. Quando sopraggiunge una disinfestazione, esse si disperdono, perché i singoli individui, disturbati ma non uccisi dalle sostanze tossiche, cercano scampo in ogni direzione alla ricerca di un luogo sicuro. Così facendo, essi trovano nuove zone più vaste e più ricche di nutrimento di quelle di prima, su cui si stanziano. I loro vecchi nemici, ormai sterminati dagli insetticidi, non danno più fastidio, e non occorre allora sprecare più energie per secernere il liquido destinato alla tessitura delle ragnatele di protezione: tutta l'energia di cui dispongono viene ora spesa per la riproduzione, e non è infrequente il caso in cui - grazie al benefico influsso delle irrorazioni antiparassitarie - la loro produzione di uova risulti triplicata. Nella Shenandoah Valley - una regione della Virginia famosa per le sue piantagioni di meli - legioni di piccoli insetti (Tortricidi) diventarono un vero flagello non appena i coltivatori smisero di cospargere l'arseniato di piombo e lo sostituirono con il Ddt. Non erano mai stati nocivi, in precedenza ma ben presto diventarono uno dei più pericolosi nemici dei meli e distrussero ben metà del raccolto, non soltanto nella Shenandoah Valley, ma anche in altre zone dell'Est e del Midwest, man mano che l'uso del Ddt si diffondeva. (3) Né mancano altre beffarde situazioni. Nei pometi della Nuova Scozia le peggiori infestazioni di Carpocapsa pomonella, il comune baco delle mele, si ebbero proprio là dove le irrorazioni erano state effettuate regolarmente; dove invece i frutticoltori non avevano usato alcun insetticida tale insetto non era presente in numero sufficiente da causare un vero danno. Anche nel Sudan orientale la solerzia posta dai piantatori di cotone nel cospargere di Ddt le colture venne compensata da un risultato altrettanto deludente. Più di 20.000 ettari di coltivazione irrigua nel delta del Gash erano stati trattati preliminarmente con Ddt a scopo sperimentale, ed i proprietari, (3) La stessa cosa si sta verificando nei frutteti italiani. ?N'd'T'* avendo riscontrato un esito in apparenza soddisfacente, decisero di intensificare le irrorazioni. Uno degli infestanti più nocivi del cotone è il punteruolo (Anthonomus grandis). Purtroppo si vide che, più le piantagioni venivano cosparse di Ddt, più numeroso si faceva questo parassita; invece le piante che non avevano subìto il trattamento apparivano meno danneggiate nei frutti prima, e più tardi, nelle capsule mature; nei campi spruzzati due volte con Ddt il rendimento del raccolto registrò una diminuzione significativa. Sebbene con tale sistema venissero eliminati alcuni insetti divoratori di foglie, qualsiasi beneficio che si fosse potuto trarre in questo modo era più che annullato dai danni prodotti dai punteruoli. Alla fine i coltivatori si trovarono di fronte alla spiacevole verità che, se non si fossero presi la briga e l'impegno finanziario di irrorare i loro campi, il raccolto sarebbe stato più copioso. Nel Congo Belga e nell'Uganda le massicce applicazioni di Ddt contro un parassita degli arbusti del caffè ebbero conseguenze quasi "catastrofiche", giacché quell'insetto nocivo apparve completamente refrattario all'azione del tossico, mentre i suoi nemici predatori ne erano estremamente sensibili. Anche in America gli agricoltori si sono accorti spesso di essere caduti dalla padella nella brace poiché distruggendo una certa specie di insetti ne hanno favorita un'altra; infatti le irrorazioni sconvolgono la dinamica delle popolazioni nel mondo di quegli animali. Due massicci programmi di controllo svolti di recente hanno avuto questo preciso effetto: alludiamo alla campagna per lo "sradicamento" della "formica di fuoco" nel sud, e a quella ingaggiata contro la Popillia japonica nel Midwest (v. capp. X e Vii). Allorché, nel 1957, le piantagioni della Louisiana vennero interamente cosparse di eptacloro, si notò un preoccupante aumento di uno dei peggiori parassiti della canna da zucchero, il Lepidottero Diatraca saccharalis. Il trattamento chimico era da poco terminato e già le colture apparivano devastate: il tossico destinato alle "formiche di fuoco" aveva sterminato tutti i nemici di quel coleottero. Il raccolto fu così danneggiato che i coltivatori cercarono di promuovere una causa giudiziaria contro lo stato responsabile, secondo loro, di non averli avvertiti, per negligenza, delle conseguenze cui sarebbero andati incontro. Un'esperienza altrettanto dolorosa fu quella degli agricoltori dell'Illinois. Dopo l'abbondante e devastatrice irrorazione di dieldrina subìta recentemente dalle campagne orientali per l'annientamento della Popillia japonica, i coltivatori si accorsero che il numero delle larve della Pyrausta nubilalis (piralide del granoturco) era notevolmente aumentato dappertutto. In effetti, il mais cresciuto nell'area che aveva subìto il trattamento conteneva quasi il doppio delle larve di quell'insetto devastatore rispetto alle piante delle zone non controllate. Gli agricoltori non conoscevano il principio biologico di ciò che era avvenuto, ma non avevano bisogno di tanta scienza per comprendere che i raccolti erano stati disastrosi, e per convincersi che, nel tentativo di liberarsi di un insetto, avevano favorito l'infestazione d'un altro parassita ben più pericoloso. Secondo i calcoli del Dipartimento dell'Agricoltura i danni provocati dalla Popillia japonica sul suolo degli Stati Uniti ammontano in totale a circa 10 milioni di dollari l'anno, mentre quelli causati dalle larve della piralide del granoturco che infestano i cereali raggiungono gli 80 milioni di dollari. Val la pena di sottolineare che si sono fatti notevoli sforzi per stabilire il controllo naturale delle larve della piralide del granoturco. Appena due anni dopo l'accidentale penetrazione di questi insetti provenienti dall'Europa, il governo degli Stati Uniti intraprese uno dei suoi più impegnativi programmi di importazione ed impiego di parassiti per sterminare un insetto. Da allora, 24 specie di nemici della piralide del granoturco sono state importate dall'Europa o dall'Oriente con notevole spesa. Di esse, cinque si sono mostrate di notevole efficacia nel controllo di quei parassiti del mais. E' inutile aggiungere che i frutti di tutto questo paziente lavoro sono ora messi a repentaglio: infatti l'impiego degli antiparassitari chimici finirà con l'uccidere tutti i nemici naturali del parassita del granoturco. Se ciò vi sembra assurdo, considerate un po' la situazione degli agrumeti della California dove, intorno al 1880, venne effettuato uno dei più famosi e positivi esperimenti di controllo biologico. Nel 1872 aveva fatto la sua comparsa in quello stato una Cocciniglia speciale che si nutre suggendo la linfa dagli alberi di agrumi; essa, nel giro di 15 anni, era diventata così dannosa che in molti agrumeti i raccolti andarono completamente perduti e una completa rovina si profilò per questa giovane industria agricola. Molti coltivatori, ormai delusi, avevano già cominciato ad abbattere gli alberi, quando qualcuno pensò di importare dall'Australia una piccola coccinella - la Rodolia - parassita di quel coccide. Bastarono un paio d'anni perché essa ristabilisse un efficace controllo in tutto il territorio californiano coltivato ad agrumi. Da quel momento in poi si poté camminare per intere giornate in mezzo alle piantagioni senza scorgere una sola cocciniglia. Sfortunatamente, i coltivatori di agrumi, verso il 1940, si lasciarono sedurre dalla prestigiosa propaganda fatta ai nuovi preparati chimici e vollero sperimentarli contro altri insetti. Con la comparsa del Ddt e di altri prodotti ancora più tossici, adottati successivamente in molti territori californiani, le popolazioni della Rodolia vennero sterminate. E pensare che l'importazione di questa coccinella era costata al governo la modesta cifra di 5.000 dollari, mentre il vantaggio che l'agricoltura ne aveva tratto ammontava a molti milioni di dollari l'anno. Eppure, in un momento di negligenza, tutto quel beneficio andò perduto. Ben presto riapparvero le infestazioni delle cocciniglie e stavolta furono più disastrose di quanto si fosse mai visto nello spazio di cinquant'anni. "E' probabile che ciò abbia segnato la fine di un periodo di prosperità", ha dichiarato il dott. De Bach della Citrus Experiment Station di Riverside. Infatti, oggi, il controllo delle cocciniglie appare estremamente difficile. La Rodolia può essere tenuta in vita solo a costo di infiniti sforzi: occorre ripopolare di continuo la zona ed evitare il contatto con gli insetticidi, facendo molta attenzione alle date in cui essi vengono irrorati. Ma anche con queste misure la situazione del coltivatore di agrumi rimane precaria, perché spesso i singoli proprietari dei terreni adiacenti continuano a cospargere i loro campi di insetticidi che, trasportati dal vento, invadono gli agrumeti ed uccidono quegli insetti benefici. Finora abbiamo parlato degli insetti che insidiano i raccolti. Qual è invece la nostra situazione nei confronti di quelli che trasmettono le malattie? Anche qui non mancano i moniti. Durante la seconda guerra mondiale, per esempio, l'isola di Nissan, nel Pacifico meridionale, fu sottoposta ad intense disinfestazioni chimiche; poi, quando cessarono le ostilità, esse vennero interrotte. Quasi subito l'isola venne nuovamente invasa dalle zanzare vettrici della malaria. Tutti i loro predatori erano stati uccisi dagli insetticidi e non vi era stato tempo sufficiente perché nuove popolazioni si ristabilissero. Le zanzare poterono allora moltiplicarsi liberamente con grandiosa fecondità. Marshall Laird, che ha descritto questo episodio, paragona il controllo chimico ad uno di quei mulini a trazione umana che esistevano un tempo nei penitenziari: anche noi, come quei carcerati, appena il congegno si mette in moto, non possiamo più fermarci per la paura delle conseguenze che ci toccherebbero. In varie parti del mondo, tra le malattie infettive e gli insetticidi esiste un legame di tutt'altro genere. Per alcune ragioni sembra che molluschi gasteropodi siano quasi immuni all'azione degli insetticidi. Se ne hanno molti esempi, tra cui quello già da noi citato (v. cap. Ix) della ecatombe causata dalla disinfestazione delle paludi salmastre lungo la costa orientale della Florida, in cui solo i polmonati acquatici sopravvissero. Chi ha assistito a quel macabro spettacolo, quando ne parla, ci presenta un quadro che pare uscito dal pennello di un pittore surrealista: quei molluschi strisciavano sui corpi dei pesci morti e dei granchi ormai morenti, e divoravano le vittime di quella funesta pioggia di veleno. Perché questo episodio è importante? Per il semplice motivo che i polmonati acquatici ospitano certi pericolosi vermi parassiti il cui ciclo vitale si svolge per una parte nel corpo di un mollusco e per il resto in quello dell'uomo: ne è un esempio la Bilharzia o Schistosoma haematobium, un trematode che provoca una grave malattia nell'uomo quando penetra nel suo corpo con l'acqua da bere o, attraverso la pelle, quando egli si bagna in acque infestate. La Bilharzia viene liberata nell'acqua dal Bulinus, una chiocciolina d'acqua dolce. La malattia è molto diffusa in varie regioni dell'Asia e dell'Africa. In queste zone, insetticidi che favoriscono un grande aumento numerico del mollusco ospite intermedio provocano, probabilmente, gravi conseguenze. Naturalmente la malattia non colpisce soltanto l'uomo. Disturbi al fegato possono comparire nei bovini, nelle pecore, nelle capre, nei cervi, negli alci, nei conigli e in molti altri animali a sangue caldo, ad opera della Fasciola hepatica, un altro trematode, che trascorre una parte del suo ciclo vitale in una chiocciolina d'acqua dolce, la Limnaea Truncatula. Il fegato del bestiame infetto non è commestibile e viene normalmente gettato via; ciò arreca gravi danni agli allevatori statunitensi (circa 3 milioni e mezzo di dollari ogni anno). Qualunque cosa favorisca, dunque, un aumento del numero di quei molluschi renderà il danno sempre più grave. Questi problemi hanno gettato grandi ombre sull'ultimo decennio, ma ce n'è voluto del tempo perché ce ne accorgessimo. La maggior parte degli uomini più qualificati per lo studio e la realizzazione pratica di nuovi metodi di controllo naturale è stata troppo indaffarata a vendemmiare nella pingue vigna del controllo chimico. Risulta che, nel 1960, soltanto il 2% degli esperti di entomologia economica ha lavorato nel settore dei controlli biologici, mentre il restante 98%, o poco meno, è stato impegnato nella ricerca di insetticidi chimici. La causa di ciò appare chiara. Le maggiori industrie chimiche concedono larghe sovvenzioni alle università per ricerche sugli insetticidi; tutto ciò rappresenta naturalmente un'interessante possibilità di borse di studio per i laureandi, e di impiego ben remunerato in un secondo tempo. Invece gli studi sul controllo biologico vengono trascurati per la semplice ragione che non aprono la strada verso i lauti guadagni che l'industria chimica assicura, ma permettono soltanto un'occupazione modesta e meno retribuita in qualche commissione statale o governativa. Questa situazione spiega anche un fatto singolare che altrimenti risulterebbe incomprensibile, e cioè la presenza di qualche illustre entomologo nella schiera dei più strenui assertori dei metodi di controllo chimico. Basta indagare un po' da vicino e si vedrà che l'attività scientifica svolta da costoro è interamente finanziata dall'industria chimica. Ormai il loro prestigio professionale, e perfino la possibilità di continuare a lavorare, dipendono dal prosperare di questi sistemi. Possiamo, dunque, immaginare che essi mordano la mano di chi li nutre? Ma, d'altro canto, sapendo per chi propendono, quale credito dobbiamo dare alle loro assicurazioni sulla "innocuità" degli insetticidi? In mezzo al coro generale che osanna ai prodotti chimici e vede in essi un sistema impareggiabile per il controllo degli insetti, un certo numero di rapporti sono stati pure presentati di tanto in tanto da quei pochi entomologi che si ricordano ancora di essere biologi e non già chimici e ingegneri. L'inglese Jacob ha dichiarato di recente che "l'attività di coloro che si interessano all'entomologia economica sembra ispirata dalla fiducia taumaturgica riposta nel beccuccio di uno spruzzatore... Essi credono che, quando avranno creato nuovi problemi di rinvigorimento, di resistenza o di tossicità nei mammiferi, sarà subito lì pronto ad intervenire il chimico con un'altra delle sue pillole. Noi non la pensiamo così... Alla fine, solo i biologi potranno risolvere i problemi fondamentali del controllo degli insetti". "Gli esperti di entomologia economica devono convincersi", ha scritto A.D. Pickett dalla Nuova Scozia, "che hanno di fronte un mondo di creature viventi... il loro lavoro non può limitarsi agli esperimenti effettuati per provare l'efficacia d'un insetticida o alla ricerca di sostanze chimiche sempre più micidiali". Il dott. Pickett va considerato come uno dei pionieri nel campo della ricerca di nuovi e sani principi di controllo degli insetti basati sull'impiego di specie predatrici e parassite. Il metodo che egli e i suoi colleghi hanno messo a punto resta ancor oggi un modello esemplare ma, purtroppo, adottato ben di rado. Nel nostro paese possiamo trovare qualcosa di simile soltanto nei programmi di integrazione realizzati da alcuni entomologi in California. Il dott. Pickett cominciò i suoi esperimenti circa 35 anni fa nei pometi d'una zona della Nuova Scozia - la Annapolis Valley - nota per essere stata, un tempo, la zona più frutticola di tutto il Canada. In quel tempo si credeva che gli insetticidi (allora soltanto inorganici) avrebbero risolto ogni problema di controllo, purché i coltivatori si attenessero scrupolosamente alle norme di prescrizione; ma le ottimistiche previsioni non si tradussero in realtà. In qualche modo gli insetti resistevano: vennero provati nuovi composti chimici, si migliorarono le attrezzature per l'irrorazione, crebbe lo zelo dei disinfestatori: tutto riuscì vano, il problema rimase insoluto. Fu allora che il Ddt fece la sua comparsa, promettendo di "cancellare per sempre l'incubo" dell'infestazione del baco delle mele. Il risultato fu un po' diverso: si ebbe un'invasione di acari come non si era mai avuta prima. "Passiamo", dichiarò allora il dott. Pickett, "da un insuccesso all'altro, semplicemente perché scambiamo un problema con un altro". A questo punto, pertanto, egli e i suoi colleghi si misero su un'altra strada, invece di continuare con gli altri entomologi ad inseguire la chimera di tossici sempre più potenti. Consapevoli di avere un formidabile alleato nella natura stessa, quegli innovatori progettarono un piano che prevedeva la massima utilizzazione dei controlli naturali ed il minimo impiego di insetticidi; quando usavano un antiparassitario, ricorrevano ad una dose modesta - appena quanto bastava per danneggiare l'insetto infestante senza colpire le specie benefiche. Anche la scelta del tempo aveva la sua importanza: per esempio, se il solfato di nicotina veniva applicato prima che i fiori dei meli diventassero rosa, e non dopo, uno dei principali predatori veniva risparmiato, probabilmente perché era ancora allo stadio di uovo. Il dott. Pickett seleziona ancor oggi con grande cura i composti chimici, cercando quelli meno dannosi sia agli insetti parassiti che a quelli predatori. Egli va ripetendo che "quando si giunge al punto di usare il Ddt, il parathion, il clordano ed altri insetticidi moderni nel controllo di routine, come si faceva al tempo degli antiparassitari inorganici, gli entomologi fautori del controllo biologico da quel momento possono dichiararsi sconfitti". La sua maggior fiducia non è riposta in questi insetticidi altamente tossici e di ampio effetto, ma soprattutto nella "ryania" (tratta dai rizomi d'una pianta tropicale), nel solfato di nicotina e nell'arseniato di piombo. In certi casi egli usa piccolissime quantità di Ddt o malathion (circa 30 o 60 grammi per 400 litri, invece dei normali 500 o 1000). Sebbene questi due insetticidi siano, tra quelli moderni, i meno tossici, il dott. Pickett confida che le ulteriori ricerche gli consentiranno di sostituirli con prodotti più selettivi e meno dannosi. Come ha funzionato questo programma? I frutticoltori della Nuova Scozia, che lo hanno adottato, raccolgono un quantitativo di frutta di prima qualità pari a quello che si registra nei pometi sottoposti ad intensivi trattamenti chimici; ed anche la qualità del prodotto è pregiata. Essi, inoltre, conseguono questi risultati con una spesa notevolmente inferiore: basti pensare che nei pometi della Nuova Scozia il controllo antiparassitario viene a costare soltanto un quinto e, a volte, un decimo di quanto si spende altrove. Ma ancora più importante di questi pur mirabili risultati è il fatto che il programma messo a punto dagli entomologi della Nuova Scozia non viola l'equilibrio naturale. Esso realizza in pieno l'auspicio formulato dieci anni fa dall'entomologo canadese Ullyett: "Dobbiamo modificare il nostro modo di pensare, abbandonare il nostro comportamento di altezzosa superiorità ed ammettere che, in molti casi, troviamo nell'ambiente naturale le vie ed i mezzi per porre un freno alle popolazioni degli organismi molto più a buon mercato di quanto non siamo in grado di fare con le nostre sole forze". Capitolo sedicesimo - La resistenza degli insetti al controllo chimico Se Darwin fosse vivo proverebbe un senso di legittima soddisfazione e, insieme, di stupore nel vedere come la sua teoria sulla "sopravvivenza del più atto" trovi oggi una impressionante conferma nel mondo degli insetti. Sotto l'ondata delle intensive irrorazioni chimiche, in una popolazione di insetti, le creature più deboli vengono spazzate via. Adesso in molte regioni, e tra le numerose specie, soltanto gli organismi più forti e più atti resistono e sventano tutti i nostri tentativi di controllo. Circa mezzo secolo fa A.L. Melander, professore di entomologia presso il Washington State College, pose questa domanda, che oggi sembra puramente retorica: "Possono gli insetti diventare refrattari alle disinfestazioni?" Se Melander non poteva trovare al quesito una risposta chiara, o questa non poteva ancora essere completamente formulata, ciò dipendeva dal fatto che il quesito era stato posto troppo presto - nel 1914 invece che quarant'anni dopo. Prima dell'avvento del Ddt, le sostanze chimiche inorganiche, cosparse in quantità che oggi ci sembrano straordinariamente modeste, determinavano qua e là l'insorgenza di ceppi capaci di sopravvivere alle irrorazioni ed alle polverizzazioni insetticide. Lo stesso Melander si era trovato in difficoltà con la Cocciniglia di San José - un insetto che per alcuni anni era stato tenuto a freno mediante un trattamento a base di solfuro di calcio. Ad un certo momento quel parassita cominciò a mostrarsi refrattario attorno a Clark -ston, nello Stato di Washington, mentre nei frutteti delle vallate di Wenatchee, di Yakima ed altrove veniva ancora controllato abbastanza agevolmente. Improvvisamente anche in altre parti del paese parve che quei coccidi avessero cambiato idea: forse era meglio resistere e cercare di sopravvivere all'attacco del solfuro di calcio cosparso con diligenza e abbondanza dai frutticoltori. In buona parte del Midwest, migliaia di ettari di preziosi frutteti vennero così devastati dai parassiti ormai immuni contro le disinfestazioni. Successivamente, in California, anche il vecchio ed efficace metodo di coprire gli alberi con un tendone e sottoporli ad una fumigazione di acido prussico cominciò a dare risultati così deludenti che la California Citrus Experiment Station intraprese, nel 1915, nuove ricerche e le proseguì per un buon quarto di secolo. Un altro insetto, verso il 1920, diventò refrattario alle disinfestazioni di arseniato di piombo (che nel quarantennio precedente avevano dato un esito eccellente): la Carpocapsa pomonella. Ma soltanto con la comparsa del Ddt e di tutti gli altri composti insetticidi si può dire che abbia avuto inizio la vera "Era della Resistenza". Non avrebbe dovuto sorprendere nessuno, neppure con la più superficiale conoscenza degli insetti o della dinamica delle popolazioni animali, il fatto che un problema talmente vasto e grave si fosse chiaramente delineato nello spazio di così pochi anni. Il fatto è che ci siamo accorti a poco a poco che gli insetti possiedono un efficace antidoto contro l'attacco delle sostanze chimiche; ed ancor oggi sembra che solo coloro che si interessano degli insetti vettori di malattie siano completamente coscienti dell'aspetto drammatico della situazione; invece gli agrari continuano a confidare ciecamente nella scoperta di nuove sostanze chimiche sempre più potenti, senza accorgersi che proprio questa è la ragione delle attuali difficoltà. Se abbiamo impiegato molto tempo a comprendere il fenomeno della resistenza degli insetti ai tossici, non altrettanto lentamente si è determinata la resistenza stessa. Prima del 1945, non più di una dozzina di specie avevano mostrato di saper resistere all'azione dei vecchi insetticidi inorganici. Quando presero il sopravvento i nuovi composti organici ed i metodi moderni di applicazione intensiva, il numero delle specie "resistenti" cominciò a salire con un ritmo così rapido che, nel 1960, se ne contavano già 137; e, da allora, l'ascesa è continuata e non si pensa di vederne la fine. La World Health Organization che, per far fronte alla situazione, ha richiesto l'aiuto di 300 scienziati da tutte le parti del mondo, ravvisa nel fenomeno della resistenza "il più importante problema che i programmi di controllo dei vettori di malattie devono risolvere". Un eminente studioso di popolazioni animali, l'inglese Elton, ha detto: "Cominciamo a percepire il lontano boato di quella che potrebbe diventare domani una travolgente valanga". Alle volte la "resistenza" si manifesta con tale incredibile rapidità che l'inchiostro non fa a tempo ad asciugare sul foglio di una relazione, che segnala il successo raggiunto da una data sostanza nel controllo di una specie, prima che arrivi la smentita. Nel Sud Africa, per esempio, gli allevatori di bestiame subirono per molto tempo i danni provocati dal Boophilus decoloratus, un parassita veramente micidiale: basti dire che, in un anno, erano morti 600 capi di bestiame in un solo allevamento. Da vari anni questa zecca si era mostrata resistente al trattamento con i sali arsenicali, per cui si era deciso di ricorrere all'esacloro-benzene e, per qualche tempo, parve che la situazione fosse migliorata. All'inizio del 1949 venne riferito ufficialmente che il Boophilus, refrattario all'arsenico, aveva trovato nel nuovo prodotto un inesorabile sterminatore; senonché di lì a poco fu necessario rettificare quella ottimistica comunicazione ed ammettere che, tra i parassiti, si stava sviluppando una crescente resistenza all'azione dell'esacloruro. Nel 1950, il Leather Trades Review scrisse a tale proposito: "Notizie come queste, che trapelano al di fuori degli ambienti scientifici e compaiono in forma succinta sulla stampa d'oltremare, meriterebbero titoli a caratteri cubitali come quelli che annunziano la scoperta di una nuova bomba atomica se l'importanza della questione venisse giustamente compresa". Sebbene la resistenza degli insetti sia una questione che interessa prettamente l'agricoltura e la silvicoltura, è nel campo della salute pubblica che si nutrono le più gravi apprensioni. La relazione tra molte specie di insetti e numerose malattie che colpiscono l'uomo è nota da secoli. Tutti sanno che le zanzare del genere Anopheles iniettano nel sangue umano l'organismo unicellulare che provoca la malaria; altre zanzare trasmettono la febbre gialla; altre ancora l'encefalite. La mosca domestica, pur non morsicando l'uomo, è in grado di contaminare i nostri alimenti, per semplice contatto, con il bacillo della dissenteria; inoltre, in varie parti del mondo, essa contribuisce in larga misura alla diffusione di malattie degli occhi. L'elenco delle malattie e degli insetti che ne sono portatori - o vettori - non termina qui; dobbiamo aggiungervi il tifo ed il suo veicolo, il pidocchio dell'uomo (Pediculus humanus); la peste e le pulci dei ratti; la malattia del sonno e la mosca tsè-tsè; varie forme febbrili e le zecche; ed innumerevoli altri casi. Si tratta di problemi importanti che dobbiamo fronteggiare; nessuna persona responsabile di ciò che dice può sostenere che queste malattie debbano essere ignorate. Il quesito che si presenta oggi in tutta la sua urgenza è il seguente: è saggio o ponderato continuare ad affrontare il pericolo con armi destinate a renderlo in poco tempo più grave? Molto si è detto delle lotte che abbiamo ingaggiato contro numerose malattie, e concluso vittoriosamente grazie alla distruzione degli insetti portatori dell'infezione; ma ben poco si è saputo dell'altro lato della storia - le sconfitte, gli effimeri trionfi che sono lì a dimostrare palesemente come tutti i nostri tentativi non abbiano fatto altro che rinvigorire in maniera allarmante gli insetti nocivi. E, quel che è peggio, abbiamo anche probabilmente distrutto i mezzi che ci servono a combatterli. Un valente entomologo canadese, il dott. Brown, che fu incaricato dalla World Health Organization di compiere un'indagine sull'intero fenomeno della resistenza degli insetti, così affermava in una monografia pubblicata nel 1958: "A soli dieci anni dall'introduzione dei potenti insetticidi sintetici nei programmi riguardanti la salute pubblica, il problema tecnico più preoccupante è quello della crescente refrattarietà degli insetti che essi riuscivano prima a controllare". Pubblicando questa monografia, la World Health Organization avvertiva che "la vigorosa offensiva sferrata contro la malaria, la febbre tifoidea e la peste - malattie trasmesse all'uomo dagli artropodi - rischia di essere respinta fino alle posizioni di partenza se non padroneggiamo rapidamente questo nuovo problema". Qual è la misura di tale regresso? L'elenco delle specie resistenti include ormai quasi tutti i gruppi d'insetti aventi -- importanza medica. Forse i tisanotteri, i simulidi e le mosche tsè-tsè non sono ancora diventati refrattari alle sostanze chimiche, mentre, d'altro canto, la resistenza delle mosche domestiche e dei pidocchi ha raggiunto già il massimo. I nostri programmi per debellare la malaria vengono continuamente frustrati dalla refrattarietà che si manifesta tra le zanzare. Le pulci dei ratti, che sono il principale veicolo della peste nei paesi orientali, hanno dimostrato di recente un preoccupante grado di resistenza al Ddt, ciò che comporta un serio aggravarsi del problema del controllo di tale malattia. In ogni continente e nei principali arcipelaghi si è pure notata una uguale resistenza di numerose altre specie di insetti. Probabilmente i moderni insetticidi vennero usati per la prima volta a scopo sanitario, in Italia, dal Governo Alleato che, nel 1943, intraprese un'efficace campagna antitifica sottoponendo una gran parte della popolazione ad un trattamento di Ddt in polvere. Due anni dopo le scorte di quell'insetticida, rimaste inutilizzate, trovarono impiego in un programma di controllo antimalarico. Appena un anno più tardi si ebbero le prime avvisaglie allarmanti: le mosche comuni e le zanzare del genere Culex cominciavano a mostrare segni di resistenza. Nel 1948, si decise di integrare il Ddt con una nuova sostanza chimica, il clordano. Per un altro biennio la situazione tornò a migliorare ma, nell'agosto del 1950, le prime mosche resistenti al clordano fecero la loro comparsa e, alla fine di quello stesso anno, fu palese che tutte, come pure le zanzare Culex, avevano acquisito una completa immunizzazione. In tutta fretta vennero adottati nuovi altri composti ma, altrettanto rapidamente, si sviluppò la resistenza degli insetti. Alla fine del 1951 l'elenco degli insetticidi impiegati senza alcun frutto comprendeva, oltre al Ddt ed al clordano, il metossicloro, l'eptacloro e l'esaclorobenzene. Nel frattempo le mosche erano diventate "straordinariamente numerose". Una catena di eventi analoghi si ripeté in Sardegna verso la fine del 1940. In Danimarca prodotti a base di Ddt vennero adoperati per la prima volta nel 1944: tre anni più tardi si avevano già prove evidenti di insuccesso in numerose località. Anche in alcune regioni dell'Egitto, nel 1948 le mosche erano diventate refrattarie al Ddt; si provò allora a sostituire questo prodotto con il Bhc, ma anch'esso si mostrò efficace per un anno e forse meno. Un solo esempio basta per caratterizzare la situazione in cui venne a trovarsi quel paese: gli insetticidi cosparsi in un villaggio avevano dato eccellenti risultati, tanto è vero che la mortalità infantile aveva segnato, nel 1950, un regresso del 50%; purtroppo, l'anno successivo, le mosche cominciarono a resistere al Ddt ed al clordano, ed in breve tempo tornarono all'antico livello di infestazione, seminando la morte tra i bambini come prima e più di prima. Negli Stati Uniti, la refrattarietà delle mosche all'azione del Ddt cominciò a diffondersi nel 1948; lo si constatò dapprima nella Tennessee Valley e quindi in molte altre regioni. I tentativi di ripristinare un controllo efficiente mediante l'uso della dieldrina ebbero un successo effimero: in qualche località le mosche riuscirono a diventare immuni in soli due mesi. Dopo aver sperimentato tutti gli idrocarburi clorurati allora disponibili, le commissioni di controllo decisero di ricorrere all'impiego dei fosfati organici, ma il risultato fu lo stesso. Oggi gli esperti, a tanti anni di distanza, devono ammettere che "il controllo delle mosche domestiche sfugge a tutte le tecniche insetticide specifiche, cosicché restano a nostra disposizione, ancora una volta, soltanto le misure sanitarie di carattere generico. La disinfestazione del pidocchio dell'uomo, effettuata inizialmente a Napoli con esito positivo, viene considerato come il primo grande successo del Ddt. Quel promettente esordio ebbe conferma in altre località italiane e fu ribadito di lì a poco in Giappone ed in Corea dove, durante l'inverno 1945-46, la disinfestazione liberò due milioni di persone da quel pericoloso parassita. Per la verità qualche indizio premonitore non tardò a manifestarsi: infatti nel 1948, in Spagna, non si riuscì a scongiurare un'epidemia di tifo. Ma nonostante quel fallimento, le esperienze di laboratorio diedero risultati tanto incoraggianti da destare negli entomologi la certezza che i pidocchi non sarebbero mai diventati resistenti agli insetticidi. Ciò che accadde in Corea durante l'inverno 1950-51 apparve perciò quasi incredibile: si riscontrò infatti che un gruppo di soldati coreani sottoposti ad un trattamento di Ddt in polvere contro i pidocchi, presentavano sul loro corpo un notevole aumento del numero di quei parassiti. I pidocchi furono prelevati e sottoposti ad un controllo; si vide che con una dose di Ddt in polvere pari al 5% la loro mortalità non aumentava; una completa inefficacia del Ddt nel controllo dei pidocchi e del tifo venne riscontrata sui pidocchi di mendicanti di Tokio, di ricoverati d'un ospizio di Itabashi e di profughi dei campi di concentramento della Siria, della Giordania e dell'Egitto orientale. Nel 1957, quando l'elenco dei paesi in cui il pidocchio era diventato refrattario al Ddt comprendeva ormai anche l'Iran, la Turchia, l'Etiopia, tutta l'Africa occidentale e l'Africa del Sud, il Perù, il Cile, la Francia, la Jugoslavia, l'Afghanistan, l'Uganda, il Messico ed il Tanganika, il successo iniziale conseguito in Italia era rimasto soltanto un ricordo. Il primo caso di anofele resistente al Ddt si è avuto in Grecia. In quel paese, durante il 1946, vennero compiute vaste irrorazioni contro l'Anopheles sacharovi; (1) da (1) Zanzara della famiglia Culicini, che comprende le forme trasmettitrici dell'agente della malaria. ?N'd'T'* principio parve che il trattamento desse buoni risultati, ma nel 1949 gli esperti si accorsero che le zanzare adulte, sebbene fossero scomparse dalle case e dalle stalle cosparse di disinfestante, sopravvivevano in gran numero sotto i ponti delle strade. Ben presto esse rioccuparono anche le grotte, le rimesse, i sottopassaggi e, infine, il fogliame ed i tronchi degli aranceti. Evidentemente gli adulti erano diventati abbastanza resistenti per fuggire dalle case e riparare all'aperto; pochi mesi dopo, essi potevano rimanere anche al chiuso e vennero persino trovati posati sui muri aspersi con il Ddt Fu quello un presagio della situazione estremamente grave che si è venuta determinando oggi. Infatti la resistenza agli insetticidi delle zanzare appartenenti al gruppo degli anofelini crebbe ad una velocità impressionante, grazie all'estrema accuratezza con cui erano state svolte le operazioni di disinfestazione contro la malaria. Nel 1956, le specie che si mostravano refrattarie si limitavano a cinque ma, all'inizio del 1960, erano già salite a 28! E tra di esse si annoveravano pericolosissimi vettori di malaria infestanti l'Africa occidentale, il Medio Oriente, l'America centrale, l'Indonesia e l'Europa orientale. Anche le zanzare che erano i vettori di varie malattie seguirono l'esempio. Una zanzara tropicale, che è il veicolo di parassiti che provocano malattie come l'elefantiasi, è diventata resistentissima in molte parti del mondo. In alcune zone degli Stati Uniti la zanzara vettrice dell'encefalite, che colpisce i cavalli delle praterie occidentali; mostra oggi una notevole refrattarietà. Un problema ancora più grave è quello che riguarda il vettore della febbre gialla, un morbo considerato per secoli e secoli come uno dei peggiori flagelli del mondo: nell'Asia sud-orientale sono comparsi ceppi resistenti agli insetticidi, ed oggi essi sono comuni anche nella regione del Mar dei Caraibi. Le conseguenze della comparsa di questa resistenza sulla diffusione della malaria e di altre malattie compaiono nelle segnalazioni che si ricevono da tutti i paesi della Terra. Nell'isola di Trinidad, nel 1954, dopo il fallimento d'un programma di controllo per la resistenza acquisita dalla zanzara vettrice, si è verificata una violenta esplosione di febbre gialla; in Indonesia e nell'Iran, la malaria è divampata improvvisamente; in Grecia, nella Nigeria e nella Liberia le zanzare continuano a stazionare ed a trasmettere i parassiti di quella malattia. La diminuzione di una forma diarroica, osservata in Georgia in seguito alla disinfestazione contro le mosche, non durò che un anno. In Egitto, una riduzione nel numero dei casi di congiuntivite acuta, raggiunta mediante un temporaneo controllo sulla infestazione delle mosche, non durò oltre il 1950. La refrattarietà delle zanzare che popolano le paludi salmastre della Florida, anche se non rappresenta un pericolo per la salute umana, provoca un grave danno economico: infatti quegli insetti non sono veicoli di malattia, ma la loro grande quantità e la molestia delle loro punture avevano reso inabitabili vaste zone litoranee, finché non furono compiute le operazioni di controllo purtroppo di difficile attuazione ed effimera efficacia: oggi, infatti, non se ne ha più alcun vantaggio. Anche le zanzare che comunemente infestano le nostre case stanno diventando resistenti qua e là, un fatto questo che dovrebbe far esitare coloro che regolarmente stabiliscono massicci programmi di disinfestazione. Questa specie appare ormai resistente a numerosi insetticidi (tra i quali, in primo luogo, il diffusissimo Ddt) in Italia, Israele, Giappone e Francia, nonché in varie parti degli Stati Uniti - e specialmente nella California, nell'Ohio, nel New Jersey e nel Massachusetts. Un altro problema da esaminare è quello delle zecche. Il Dermacentor, che trasmette la febbre delle Montagne Rocciose, ha dimostrato recentemente di essere molto resistente ai trattamenti; d'altronde anche la resistenza del Rhipicephalus appendiculatus, parassita del cane, è ormai un fatto ampiamente e diffusamente accertato, e ciò rappresenta un grosso problema non solo per il cane, ma anche per l'uomo. Il Rhipicephalus appendiculatus è una specie semitropicale, e quando compare al nord, come ad esempio nel New Jersey, deve vivere in ambienti riscaldati, piuttosto che all'aperto, durante i mesi invernali. John C. Pallister dell'Americ -an Museum of Natural History riferì, nell'estate del 1959, che la sua sezione aveva ricevuto un gran numero di chiamate telefoniche provenienti dalle abitazioni circostanti il Central Park West. "Ogni tanto un intero palazzo", raccontò il signor Pallister, "è stato invaso da giovani zecche, e non si riesce a distruggerle. Forse qualche cane è stato infestato nel Central Park, le zecche hanno poi deposto le uova nel suo pelo e queste si sono dischiuse nell'appartamento. Esse sembrano refrattarie al Ddt, al clordano ed alla maggior parte dei moderni insetticidi. Una volta era molto raro trovare una zecca negli edifici di New York, ma oggi se ne vedono da ogni parte qui, in tutta Long Island, a Westchester e su fino al Connecticut. E ciò soprattutto da cinque o sei anni. In buona parte del Nord America lo scarafaggio è diventato resistente al clordano, un tempo ritenuto l'arma più potente contro di esso. I suoi sterminatori si sono successivamente rivolti ai fosfati organici, ma ormai anche questi sono diventati inefficaci e non si sa più dove sbattere la testa. Le commissioni incaricate di controllare i vettori di malattie infettive cercano di fronteggiare i loro problemi passando da un insetticida all'altro man mano che gli insetti diventano resistenti. Ma ciò non potrà andare avanti all'infinito nonostante l'ingegnosità dei chimici nell'escogitare nuovi composti. Il dott. Brown ha fatto notare come ci stiamo addentrando "in un vicolo cieco"; nessuno sa quanto esso sia lungo, ma non ignoriamo che, se arriveremo al punto in cui esso termina senza avere ancora trovato il modo di controllare gli insetti portatori di malattia, la nostra situazione diventerà drammatica. Quanto agli insetti che infestano i raccolti, bisogna dire che i nostri sforzi non hanno conseguito risultati migliori. Molte specie resistenti al Ddt, al Bhc, al lindano al toxafene, alla dieldrina, all'aldrina ed ai moderni fosfati, che noi ritenevamo irresistibili, si sono aggiunte alla dozzina di insetti importanti per l'agricoltura, che si erano mostrati refrattari agli antiparassitari inorganici di un tempo. Nel 1960, il numero complessivo di specie resistenti, tra gli insetti distruttori di raccolti, ammontava a 65. I primi casi di resistenza al Ddt da parte di insetti dannosi all'agricoltura apparvero, negli Stati Uniti, nel 1951, circa sei anni dopo il suo avvento. Forse la situazione più allarmante è quella determinata dal baco delle mele, un parassita che oggi resiste al Ddt in quasi tutte le zone frutticole della terra. Gli insetti che rovinano le coltivazioni di cavoli costituiscono un altro serio problema. D'altra parte i parassiti che attaccano le patate stanno sfuggendo ad ogni controllo chimico in numerose località degli Stati Uniti. Sei specie di insetti che infestano le piantagioni di cotone ed una grande quantità di Tisanotteri, Emitteri, Lepidotteri, Coleotteri, Acari, ecc. si fanno ormai beffe degli agricoltori che continuano a confidare negli insetticidi. L'industria chimica, comprensibilmente, è restia a prendere in considerazione lo spiacevole fenomeno dell'aumentata resistenza degli insetti. Ancora nel 1959, quando già più di un centinaio delle principali specie di insetti aveva dimostrato una chiara refrattarietà agli antiparassitari, un'autorevole rivista di chimica agraria parlava di resistenza "reale o immaginaria" degli insetti. Ma, anche se i produttori di insetticidi preferiscono voltare la faccia dall'altra parte, il problema rimane e presenta sgradevoli aspetti economici. Anzitutto si deve rilevare che le operazioni di controllo mediante insetticidi stanno diventando sempre più costose. Non è più possibile produrre e accantonare un grande quantitativo dello stesso insetticida perché, anche se oggi si dimostra efficace, domani può diventare del tutto superfluo; può darsi perfino che gli investimenti per creare e lanciare un nuovo prodotto si risolvano in una perdita totale, perché all'atto pratico i parassiti si incaricano di fornirci, fin dalle prime disinfestazioni, una prova di più della nostra ridicola presunzione di poter soggiogare la natura con la forza bruta. Dobbiamo pertanto aspettarci che, anche se il progresso scientifico e tecnologico continuerà ad offrirci sempre nuovi composti e nuovi metodi per applicarli, gli insetti riusciranno di volta in volta a sventare la minaccia. Lo stesso Darwin non avrebbe saputo trovare un esempio di come agisca la selezione naturale migliore di quello che ci viene mostrato dal meccanismo con cui opera la resistenza. Di una popolazione originaria, i cui membri differiscono notevolmente come caratteristiche strutturali, comportamento e fisiologia, soltanto gli insetti più "robusti" sopravvivono all'attacco chimico: quelli deboli vengono uccisi dalle disinfestazioni. Gli unici superstiti sono gli insetti che possiedono le qualità necessarie per sfuggire al danno: essi diventeranno i genitori di una nuova generazione che, per semplice eredità, avrà anch'essa tutte le qualità di "resistenza" proprie degli antenati. Ne deriva che, inevitabilmente, le irrorazioni intensive con sostanze chimiche potenti riescono soltanto ad aggravare il problema invece di risolverlo. Dopo poche generazioni la popolazione mista di insetti forti e deboli viene sostituita da una popolazione interamente composta da ceppi forti e resistenti. I mezzi che permettono agli insetti di resistere all'azione delle sostanze chimiche sono probabilmente vari e non completamente noti. Si ritiene che qualche parassita possa sfidare i programmi di controllo chimico grazie alla sua particolare struttura, ma non possediamo prove sufficienti per la conferma di tale congettura. E' tuttavia ormai certo che, in qualche ceppo, esiste una vera e propria immunità; a questo proposito il dott. Briejèr riferisce di aver visto in Danimarca, all'istituto per il Controllo degli Insetti di Springforbi, mosche che "piroettavano in mezzo al Ddt come le streghe delle favole sui carboni ardenti". Da molti altri paesi giungono segnalazioni dello stesso genere. In Malesia, a Kuala Lumpur, le zanzare dapprima reagivano al Ddt, fuggendo dai luoghi chiusi dove esso era stato cosparso ma, in seguito, acquistarono una tale refrattarietà da posarsi addirittura sulle superficie dove lo strato di Ddt deposto poteva essere facilmente messo in evidenza alla luce di una torcia. E, nell'isola di Formosa, sono state trovate in un accampamento militare, cimici contaminate da Ddt in polvere che, trasferite su indumenti sperimentalmente impregnati con lo stesso insetticida, sono sopravvissute per più di un mese, deponendo normalmente le loro uova dalle quali è nata una generazione di parassiti forti ed immunizzati. Del resto, il tipo di resistenza non dipende necessariamente dalla struttura fisica. Le mosche refrattarie al Ddt, per esempio, possiedono un enzima che permette loro di ridurre la tossicità dell'insetticida trasformandolo nel meno pericoloso Dde. Questo enzima si trova soltanto nelle mosche provviste di un fattore genetico - naturalmente ereditario - che consente la resistenza al Ddt. Non si riesce invece a comprendere con chiarezza come le mosche ed altri insetti riescano a disintossicare i fosfati organici. Anche il comportamento contribuisce talvolta a porre gli insetti fuori del raggio d'azione delle sostanze chimiche. Molti studiosi si sono accorti che le mosche resistenti hanno la tendenza a restarsene sulle superficie orizzontali risparmiate dalle irrorazioni e ad evitare, invece, le pareti cosparse di insetticida. Le mosche domestiche refrattarie possono assumere il comportamento che normalmente hanno altri muscidi, come la Stomoxys calcitrans, (2) che rimane più o meno ferma nello stesso punto riducendo quindi il contatto con i residui velenosi. Anche numerose zanzare portatrici di malaria ricorrono ad un accorgimento che riduce la loro esposizione al Ddt, sì da renderle virtualmente immuni: irritate dalle disinfestazioni, esse abbandonano i loro rifugi e vanno a vivere all'aperto. Di solito occorrono due o tre anni perché la resistenza si sviluppi completamente anche se, talvolta, questo risultato viene raggiunto in una sola stagione od anche meno; d'altro canto, pare che sia necessario talvolta un periodo di sei anni. Il (2) Mosca succhiatrice di sangue. ?N'd'T'* numero di generazioni prodotte da una popolazione di insetti in un anno ha grande importanza, e varia a seconda della specie e del clima. Le mosche canadesi, per esempio, hanno impiegato più tempo per sviluppare la loro resistenza che non quelle degli Stati Uniti meridionali, dove l'estate lunga e calda favorisce una rapida riproduzione. Spesso qualcuno si chiede con speranza: "Se gli insetti sono in grado di diventare refrattari alle sostanze chimiche, perché gli essere umani non potrebbero fare altrettanto?" Teoricamente essi lo potrebbero, ma occorrerebbero centinaia od anche migliaia di anni prima che ciò avvenga, e quindi questa prospettiva reca ben poco vantaggio all'umanità contemporanea. La resistenza non si sviluppa in un singolo organismo: se esso possiede fin dalla nascita certe qualità che lo rendono meno suscettibile di altri organismi all'azione dei veleni, avrà più probabilità di riuscire a sopravvivere e a procreare. La resistenza, quindi, si sviluppa in una popolazione in un tempo che abbraccia diverse (e a volte molte) generazioni. Il genere umano si riproduce alla media di circa tre generazioni per secolo, mentre agli insetti bastano pochi giorni o settimane per procreare. "E' più saggio", suggerisce l'olandese Briejèr, direttore del Servizio per la Protezione delle Piante, "optare, in certi casi, per un danno leggero piuttosto che non risentirne alcuno per un certo tempo e poi pagare cara, tutto ad un tratto, quell'effimera immunità, solo per aver perso ogni capacità di resistenza naturale. Il consiglio migliore sarebbe: "Disinfestate meno che potete, e non fino al limite delle vostre capacità."... La pressione esercitata contro le popolazioni parassite non deve mai essere troppo forte". Sfortunatamente gli analoghi servizi agricoli degli Stati Uniti la pensano in maniera diversa. L'Annuario del Dipartimento dell'Agricoltura per il 1952, dedicato interamente agli Insetti, riconosce che tutti i parassiti stanno diventando sempre più resistenti, ma ne trae la singolare conclusione "che, per una adeguata lotta, occorrono maggiori quantità di insetticidi ed applicazioni più frequenti". Ma tale dipartimento non dice cosa accadrà quando i prodotti non ancora provati saranno quelli che cancelleranno dalla faccia della terra oltre agli insetti, anche ogni altra forma di vita. Nel 1959, appena sette anni dopo quell'asserzione, il Journal of Agricultural and Food Chem -istry riportò quanto aveva riferito un entomologo del Connecticut: l'ultimo prodotto disponibile, tra quelli di nuova fabbricazione, si era rivelato efficace solo su una o due specie di insetti parassiti. Afferma il dott. Briejèr: "E' certo che stiamo percorrendo una strada pericolosa... Dovremmo orientare i nostri sforzi verso la ricerca di altre misure di controllo: misure biologiche e non chimiche. Dovremmo essere animati dal proposito di intervenire nei processi naturali, con la maggior cautela possibile, nella direzione desiderata, e non già con l'impiego della forza bruta... Abbiamo bisogno di un indirizzo migliore e di quella preveggenza che ben pochi dei nostri ricercatori mostrano di possedere. La vita è un miracolo che va oltre i limiti della comprensione umana ed esige rispetto anche quando ci troviamo costretti a combattere contro di essa... Il ricorso ad armi quali gli insetticidi, per controllarla, costituisce una prova dell'insufficienza delle nostre cognizioni e dell'incapacità di regolare i processi naturali in modo tale da rendere superflua la forza bruta. Donde la necessità di essere modesti; ogni presunzione appare fuor di luogo". Capitolo diciassettesimo - Di fronte ad un bivio Ci troviamo oggi ad un bivio: ma le due strade che ci si presentano non sono ambedue egualmente agevoli come quelle che Robert Frost ci descrive in una delle sue più note poesie: La via percorsa finora ci sembra facile, in apparenza: si tratta di una bellissima autostrada, sulla quale possiamo procedere ad elevata velocità ma che conduce ad un disastro. L'altra strada - che raramente ci decidiamo ad imboccare - offre l'ultima ed unica probabilità di raggiungere una meta che ci consenta di conservare l'integrità della terra. Spetta dunque a noi decidere. Se, dopo aver tanto sopportato, abbiamo finalmente rivendicato il nostro "diritto di sapere" e ci siamo accorti allora che ci viene richiesto di affrontare rischi insensati e spaventevoli, perché mai dovremmo dare ancora ascolto a chi ci esorta a cospargere il nostro mondo di veleni chimici? Guardiamoci piuttosto attorno e cerchiamo di vedere se esiste un'altra soluzione. Abbiamo una varietà davvero straordinaria di alternative da scegliere, invece del controllo chimico degli insetti. Qualcuna è già in uso ed ha conseguito brillanti risultati; altre sono in via di sperimentazione nei laboratori di ricerca; altre ancora sono idee appena abbozzate nella mente di ingegnosi scienziati, in attesa di poter essere sperimentate. E tutte hanno questo in comune: sono soluzioni biologiche, basate sulla conoscenza degli organismi viventi, che esse cercano di controllare, e del complesso intreccio vitale cui appartengono. A quest'opera di ricerca partecipano gli specialisti dei vari settori della biologia - entomologi, patologi, genetisti, fisiologi, biochimici ed ecologi - e tutti prodigano il loro sapere e le loro capacità per la nascita di una nuova scienza di controlli biotici. "Ogni scienza", osserva l'illustre biologo della John Hopkins University, Carl P. Swanson, "può essere paragonata ad un fiume. Essa ha le sue remote e modeste sorgenti, le sue placide anse e le sue "rapide", i suoi periodi di magra e di piena; acquista una maggiore portata quando viene arricchita dalle opere di molti ricercatori ed è alimentata da altre correnti di pensiero; diventa, infine, più larga e profonda a mano a mano che i concetti e le generalizzazioni si evolvono". Altrettanto avviene nella scienza del controllo biologico nel suo significato moderno. In America essa ebbe un'origine oscura cent'anni fa con i primi tentativi di introdurre alcuni nemici naturali di quegli insetti che stavano angustiando i coltivatori; queste prove talvolta procedevano a rilento o rimanevano completamente ferme, fintantoché l'impulso di un successo positivo non le rimetteva in moto con maggior slancio ed impegno. Vi furono periodi di "magra", allorché gli esperti di entomologia applicata, abbagliati dai nuovi potenti insetticidi adottati nel 1940, volsero completamente le spalle ai metodi biologici e si avventurarono sulla pericolosa strada del controllo chimico. Ma l'obiettivo di un mondo libero dagli insetti, invece di avvicinarsi, continuò ad allontanarsi. Ed oggi, finalmente, mentre è diventato sempre più palese che l'uso noncurante e sfrenato dei composti chimici rappresenta una maggior minaccia per noi che non per il bersaglio che vorremmo colpire, la scienza del controllo biotico riprende a scorrere impetuosa come un fiume, alimentata da nuove correnti di pensiero. Tra i moderni metodi di controllo, i più affascinanti sono quelli che si prefiggono di indirizzare la forza di una specie contro se stessa - di usare l'impeto delle forze vitali di un insetto per distruggerlo. Tra di essi emerge la sorprendente tecnica della "castrazione maschile" messa a punto dal dott. Edward Knipling, direttore dell'Entomology Research Branch del Dipartimento dell'Agricoltura statunitense, e dai suoi collaboratori. Circa un quarto di secolo fa, il dott. Knipling stupì i suoi colleghi proponendo un metodo veramente unico di controllo degli insetti. Se fosse possibile - egli sosteneva - rendere sterili e rimettere in libertà un gran numero di insetti, i maschi trattati, in certe condizioni, competerebbero con gli altri normali, cosicché ripetendo l'operazione più volte, alla fine verrebbero prodotte soltanto uova infeconde e la popolazione morirebbe. Questa proposta trovò un ostacolo nell'inerzia degli ambienti burocratici e nello scetticismo di quelli scientifici, ma il dott. Knipling era deciso ad andare fino in fondo. Restava un grosso problema da risolvere, prima di dare inizio alle prove di laboratorio: bisognava, cioè, trovare un metodo pratico per la castrazione degli insetti. Negli ambienti accademici il fatto che gli insetti potessero essere resi sterili mediante l'esposizione ai raggi X era noto fin dal 1916 quando un entomologo, G.A' Runner, aveva riferito di aver compiuto con successo tale operazione sul tonco sigaraio, un curculionide. Successivamente, con le ricerche innovatrici di Hermann Muller sulla comparsa di mutazioni ad opera dei raggi X, nuovi orizzonti si erano dischiusi verso la fine del 1920 e, attorno al 1950, numerosi sperimentatori avevano riferito il caso di almeno dodici specie di insetti rese sterili con i raggi X o con i raggi gamma. Tuttavia queste erano prove di laboratorio ancora ben lontane dalla possibilità di un'applicazione pratica. Intorno al 1950 il dott. Knipling compì un grande sforzo per fare della castrazione degli insetti un'arma capace di sterminare uno dei più pericolosi parassiti del bestiame nelle regioni meridionali: la Chrysomya macellaria. Le femmine di questa specie depongono le uova sulle piaghe di qualsiasi animale a sangue caldo, e le larve, quando nascono, diventano parassite nutrendosi della carne della bestia che le ospita. Un manzo completamente sviluppato può soccombere in 10 giorni ad una massiccia infestazione; negli Stati Uniti i danni subìti per questo parassita ammontano a 40 milioni di dollari all'anno. La falcidia tra gli animali selvatici sfugge ad un'esatta valutazione ma deve essere pur sempre notevole: ad esempio, la scarsezza di cervi che si nota in certe regioni del Texas viene attribuita alla Chrysomya macellaria. Si tratta di un insetto tropicale o subtropicale, assai diffuso nell'America centrale e meridionale, nel Messico e in un limitato territorio comprendente gli Stati Uniti sudoccidentali. Tuttavia, verso il 1933, esso riuscì ad introdursi anche nella Florida, dove la mitezza del clima gli permise di sopravvivere durante l'inverno e di stanziarsi stabilmente; si spinse perfino nell'Alabama meridionale ed in Georgia, e ben presto il patrimonio zootecnico degli stati sud-orientali dovette fronteggiare una perdita annua fino a 20 milioni di dollari. Un ampio bagaglio di cognizioni sulle caratteristiche biologiche della Chrysomyia macellaria era già stato raccolto, da vari anni, dagli esperti del Dipartimento dell'Agricoltura dislocati nel Texas. Nel 1954, il dott. Knipling, dopo aver compiuto alcune prove preliminari in natura nelle isole della Florida, fu pronto per mettere alla prova la sua teoria su vasta scala. Egli si accordò quindi con il Governo olandese e raggiunse Curaçao nel mar dei Caraibi, un'isola separata dalla terraferma da più di 80 chilometri di mare aperto. A partire dall'agosto del 1954 le Chrysomyia, allevate e rese sterili in un laboratorio della Florida dipendente dal Dipartimento dell'Agricoltura vennero trasportate a Curaçao e rimesse in libertà dall'alto, per mezzo di aeroplani, in un quantitativo pari a 150 per chilometro quadrato ogni settimana. Quasi di colpo il numero dei grappoli di uova deposti su capre scelte per l'esperimento cominciò a decrescere, e così pure la loro possibilità di sviluppo; sette settimane più tardi si poté constatare che tutte le uova erano sterili, e, di lì a poco, fu impossibile trovare un solo grappolo di uova: la Chrysomyia macellaria era stata "sradicata" da Curaçao. La risonanza del successo conseguito in quella zona suscitò negli allevatori di bestiame della Florida il desiderio di ricorrere allo stesso metodo per liberarsi dalla piaga di quel terribile parassita. Sebbene le difficoltà fossero enormi (si trattava, infatti, d'una superficie 300 volte più vasta di quella della piccola isola dei Caraibi), il Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti e le autorità statali conclusero un accordo e, nel 1957, misero a disposizione i fondi per tentare uno sradicamento. Il progetto richiedeva una produzione settimanale di circa 50 milioni di insetti sterili (compiuta in una speciale "fabbrica di mosche", espressamente allestita), nonché l'impiego di una ventina di aeroplani leggeri attrezzati per sorvolare le zone prestabilite, cinque o sei ore al giorno; ogni velivolo conteneva dalle 200 alle 400 mosche irradiate. Il rigido inverno del 1957-58 fornì un'insperata occasione per iniziare il programma, dato che le temperature glaciali che si erano registrate nella Florida settentrionale avevano costretto la popolazione di Chrysomyia macellaria ad ammassarsi in una superficie relativamente ristretta. Al termine dell'operazione - 17 mesi più tardi - erano stati messi in libertà, sul territorio della Florida e su alcune zone della Georgia e dell'Alabama, tre miliardi e mezzo di insetti allevati artificialmente e resi sterili. L'ultima infestazione di bestiame attribuibile a quel micidiale parassita risale al febbraio del 1959; nelle successive settimane numerosi adulti vennero catturati e, da allora in poi, nessuna traccia di Chrysomyia fu più scoperta. L'estinzione di questo parassita negli Stati Uniti sud-orientali è ormai un fatto compiuto: una trionfale dimostrazione di quanto valga la creatività scientifica quando si accompagna ad un accurato lavoro di ricerca e a propositi tenaci e decisi. Oggi è stato disposto l'obbligo della quarantena nel Mississippi, onde cercar di impedire un eventuale ritorno di Chrysomyia provenienti dal South West, dove si sono asserragliate. Qui un completo sradicamento costituirebbe un'inestimabile impresa, se si considerano la vastità della superficie interessata e le probabilità di ulteriori invasioni dal Messico. Cionondimeno la posta in gioco è alta, e il Dipartimento dell'Agricoltura ritiene di dover varare al più presto qualche programma atto almeno a mantenere il numero di quei parassiti ad un basso livello sia nel Texas che nelle altre aree infestate. Il brillante successo della campagna contro la Chrysomyia macellaria ha stimolato un vivissimo interesse per l'applicazione di quegli stessi metodi ad altri insetti. Non tutte le specie, naturalmente, possiedono le caratteristiche richieste per l'adozione di tale tecnica; molto dipende dal loro ciclo vitale, dalla densità della loro popolazione, dalle reazioni che offrono alle radiazioni. I ricercatori inglesi si sono messi all'opera nella speranza di riuscire ad applicare il metodo contro la mosca tsè-tsè in Rhodesia. Tale insetto, che infesta circa un terzo dell'Africa costituisce una grave minaccia per la salute dell'uomo, ed impedisce l'allevamento del bestiame su una superficie di prati e boschi pari a quasi dodici milioni di chilometri quadrati. Le abitudini della mosca tsè-tsè differiscono notevolmente da quelle della Chrysomyia; sebbene le radiazioni abbiano un effetto sterilizzante anche su di essa, permangono ancor oggi alcune difficoltà tecniche da superare per poter mettere in pratica questo metodo. In Gran Bretagna si è già sperimentata la suscettibilità alle radiazioni di una grande quantità di altre specie. Dal canto loro, i ricercatori statunitensi alle Hawai hanno ottenuto alcuni incoraggianti risultati preliminari, tanto in laboratorio quanto in natura, sulla remota isola di Rota, in prove effettuate con un moscerino che infesta le coltivazioni di meloni e con il comune moscerino della frutta orientale e mediterraneo. Altri esperimenti sono stati compiuti sulla piralide del granoturco e sulla Diatrea saccharalis. E sembra possibile controllare per mezzo della castrazione anche le specie di interesse medico. Uno scienziato cileno ha recentemente richiamato l'attenzione sul fatto che, nel suo paese, le zanzare che trasmettono la malaria persistono nonostante il trattamento insetticida; forse se in quel paese venisse messo in libertà un certo numero di maschi sterili si infliggerebbe la mazzata finale atta a eliminare questa popolazione. Le ovvie difficoltà che presenta il metodo della castrazione per irradiazione hanno spinto alla ricerca di un metodo più semplice per ottenere gli stessi risultati vi è oggi una grande ondata di interesse per alcune sostanze chimiche capaci di rendere sterili. In Florida, gli esperti che lavorano alle dipendenze del Dipartimento dell'Agricoltura nei laboratori di ricerca di Orlando stanno cercando di rendere sterile la mosca domestica, introducendo speciali sostanze chimiche negli alimenti, ed hanno avuto buon successo anche in alcuni esperimenti in natura. In una prova compiuta in un'isola nelle Florida Keys, nel 1961, una popolazione di mosche fu quasi completamente sterminata nello spazio di sole cinque settimane; s'intende che, dopo poco tempo, le mosche provenienti dalle isole vicine avevano ripopolato la zona, ma ciò non toglie nulla al successo di quell'esperimento pilota. Si può ben comprendere dunque l'euforia del Dipartimento dell'Agricoltura per i promettenti risultati offerti da questo metodo. Anzitutto, come abbiamo visto, le mosche sfuggono oggi a qualsiasi specie di controllo insetticida, e perciò dobbiamo necessariamente ricorrere ad altri mezzi. Uno dei problemi che insorgono nella castrazione per irradiazione è che tale metodo non richiede soltanto un allevamento artificiale, ma anche la messa in libertà di un numero di maschi sterili superiore a quelli presenti nella popolazione selvatica. Ciò è possibile nel caso della Chrysomyia macellaria, che non è oggi un insetto abbondante; sorgono invece ostacoli quando si tratta delle mosche domestiche: il raddoppiamento o anche più della popolazione, che si ottiene con la messa in libertà dei maschi sterili, potrebbe arrecare fastidi, pur essendo una situazione transitoria. Ma esistono allora gli sterilizzanti chimici che possono venir nascosti in una sostanza che serva da esca ed immessi così nell'ambiente naturale dell'insetto; questi, nutrendosene, diventerà sterile per cui, a poco a poco, l'intera popolazione sarà costituita prevalentemente da mosche sterili e, alla fine, degenererà completamente. La prova dell'effetto sterilizzante di composti chimici presenta maggiori difficoltà di quella per la valutazione della tossicità di un composto. Essa richiede circa un mese per valutare un'unica sostanza - anche se, naturalmente, si possono compiere nel frattempo altre prove parallele. Tuttavia, dall'aprile del 1958 al dicembre 1961, nel laboratorio di Orlando parecchie centinaia di prodotti vennero vagliate per scoprirvi un probabile effetto sterilizzante; alla fine il Dipartimento dell'Agricoltura poté annunciare soddisfatto che, tra essi, qualcuno aveva dato un esito soddisfacente. Adesso, altri laboratori di ricerca dello stesso dipartimento si stanno occupando del problema ed esperimentano varie sostanze chimiche contro la Stomoxys calcitrans, le zanzare, il punteruolo del cotone e varie specie di Ditteri dannosi ai frutti. Si tratta finora di prove di laboratorio, ma si può dire che, in questi pochi anni di ricerche sugli sterilizzanti chimici, il piano di azione si è allargato notevolmente. Esso presenta infatti, in teoria, molti lati interessanti. Il dott. Knipling ha fatto notare di recente che una castrazione chimica degli insetti veramente efficace "può agevolmente soppiantare alcuni dei migliori insetticidi oggi in uso". Si prenda, in via di ipotesi, una popolazione costituita da un milione di insetti che si quintuplicano ad ogni generazione; un insetticida capace di sterminarne il 90% ne lascerà in vita 125.000 dopo la terza generazione, mentre invece una sostanza che rende sterile il 90% dei soggetti ne lascerà in vita soltanto 125. Dall'altro lato della medaglia sta il fatto che si tratta di alcune sostanze molto pericolose; ed è una fortuna che - almeno durante queste prime fasi della ricerca - la maggior parte degli studiosi si mostri consapevole della necessità di trovare composti innocui e di mettere a punto metodi di applicazione non pericolosi. Nondimeno si è già sentito parlare qua e là della possibilità di cospargere gli sterilizzanti chimici dall'alto, mediante l'uso di aeroplani (per irrorare, ad esempio, il fogliame mangiato dalle larve della Lymantria dispar). Sarebbe davvero il colmo dell'irresponsabilità se si decidesse di ricorrere ad un tale procedimento senza aver prima stabilito quali rischi esso veramente comporti. Se perdiamo di vista, anche per un'istante, la minaccia potenziale insita negli sterilizzanti chimici, potremo trovarci domani in una situazione peggiore di quella creata oggi dagli insetticidi. Gli sterilizzanti sottoposti correntemente alle prove sperimentali appartengono a due gruppi che agiscono in maniera diversa ma che sono di pari interesse per quanto concerne il loro modo di azione. Il primo è intimamente connesso con i processi vitali della cellula, cioè con il suo metabolismo; i composti di questo gruppo sono tanto simili ad una sostanza di cui le cellule o i tessuti hanno bisogno che l'organismo li "scambia" per il vero metabolita e cerca perciò di incorporarli nei suoi normali processi di sintesi. Tuttavia l'assimilazione non può compiersi perché v'è qualcosa che non funziona, ed il metabolismo s'arresta. Questi prodotti chimici vengono chiamati antimetaboliti. Il secondo gruppo comprende preparati che agiscono su cromosomi e, probabilmente, interferendo sulla natura chimica dei geni, ne provocano la frattura. Questi sterilizzanti chimici sono agenti alchilanti, composti chimici notevolmente reattivi, capaci di causare un'intensa distruzione delle cellule, di danneggiare i cromosomi e produrre mutazioni. Secondo il dott. Alexander del Chester Beatty Research Institute di Londra "ogni agente alchilante, capace di rendere sterili gli insetti, sarebbe certamente anche un notevole mutageno e cancerogeno". Il dott. Alexander pensa che "fortissime obiezioni" debbano essere sollevate contro qualsiasi impiego di questi prodotti nel controllo degli insetti. Ci auguriamo, pertanto, che l'attuale fase di ricerca sperimentale non spiani la strada all'impiego di sostanze così dannose, ma permetta di scoprirne altre non pericolose e, al tempo stesso, altamente specifiche nella loro azione contro gli insetti che si vogliono eliminare. Una parte tra le più interessanti delle ricerche che si compiono oggi è volta alla elaborazione di nuovi metodi di attacco contro gli insetti, basata sempre su alcuni aspetti dei loro processi vitali. Gli insetti secernono una grande varietà di veleni e di secreti che determinano un tropismo sia negativo che positivo. Qual è la natura chimica di queste secrezioni? Possiamo, forse, trarne vantaggio usandole come insetticidi altamente selettivi? Esperti della Cornell University e di altri istituti, per dare una risposta a tali interrogativi, stanno studiando il meccanismo di autodifesa con cui molti insetti si proteggono dall'attacco dei predatori, e cercano di analizzare la composizione chimica delle varie secrezioni. Altri studiosi stanno lavorando sul cosiddetto "ormone giovanile" degli insetti, una potente sostanza che impedisce la metamorfosi della larva finché essa non abbia raggiunto il giusto stadio di sviluppo. Forse, in queste ricerche sulle secrezioni degli insetti, il risultato più direttamente utilizzabile è quello che riguarda la produzione di afrodisiaci. Anche qui la natura ci ha mostrato la via da seguire, additandoci un insetto quanto mai singolare: la Lymantria dispar. La femmina di questa specie ha il corpo troppo pesante per poter volare; essa vive quindi al suolo o vicino ad esso svolazzando sulla vegetazione più bassa, oppure arrampicandosi sui tronchi degli alberi. Il maschio invece ha una grande capacità di volo, e viene attratto, anche ad una distanza considerevole, dall'odore di un secreto che la femmina emette da certe ghiandole speciali. Per molti anni, gli entomologi si sono valsi di questa singolare proprietà, estraendo dapprima quell'afrodisiaco con accurati procedimenti dal corpo stesso delle femmine. Venne usato quindi in operazioni di censimento ai confini dell'area di diffusione dell'insetto, e servì per catturare i maschi; ma si trattava di un sistema troppo costoso. Malgrado le massicce infestazioni che si andavano registrando negli stati nord-orientali, le femmine non erano sufficienti per fornire il materiale necessario, tanto che si dovette importare dall'Europa una certa quantità di pupe (ogni esemplare, prelevato a mano, veniva a costare mezzo dollaro). Destò, pertanto, una vasta eco il risultato raggiunto dopo molti anni di fatiche dai chimici del Dipartimento dell'Agricoltura: essi sono riusciti recentemente ad isolare la sostanza afrodisiaca ed hanno permesso, con la loro scoperta, la preparazione di un materiale sintetico strettamente affine, tratto dall'olio di ricino; questo surrogato non solo inganna il maschio, ma ha apparentemente la stessa efficacia della sostanza naturale (anche un solo microgrammo ?#,ajâf g* di sostanza attira i maschi). Tutto ciò ha molto più che un semplice interesse teorico, perché il recente ed economico gyplure potrebbe essere impiegato non solo per una semplice operazione di censimento, ma per un programma di controllo vero e proprio. Oggi si stanno sperimentando parecchie possibilità tra le più interessanti: in quella che potremmo definire la "guerra psicologica" contro gli insetti l'afrodisiaco viene incorporato in un materiale granuloso e cosparso per mezzo di aeroplani; lo scopo è quello di fuorviare l'insetto maschio e di alterarne il comportamento normale, in modo che confondendo i vari odori, non possa riconoscere quello vero che lo conduce alla femmina. Questo metodo viene oggi perfezionato attraverso una serie di esperimenti che si propongono di rendere più efficace l'inganno, facendo accoppiare addirittura il maschio con una femmina spuria. In qualche prova di laboratorio, maschi di Lymantria hanno cercato di accoppiarsi con trucioli di legno, vermiculite e altri piccoli oggetti inanimati, preventivamente impregnati di gyplure. Resta da vedere se, all'atto pratico, queste artificiose deviazioni dell'istinto sessuale verso manifestazioni improduttive serviranno a ridurre la popolazione degli insetti. Ma, in ogni caso, si tratta di una interessante possibilità. La secrezione delle ghiandole odorifere della Lymantria dispar è stata il primo afrodisiaco degli insetti ottenuto per sintesi ma, probabilmente, ve ne saranno presto altri. Un certo numero di insetti dannosi all'agricoltura vengono oggi sottoposti a meticolose ricerche, volte a scoprire la presenza di eventuali afrodisiaci, che l'uomo potrebbe poi sintetizzare artificialmente. Risultati particolarmente incoraggianti sono stati ottenuti con la Mayetiola destructor (1) e la Protoparce quinquemaculata (2) delle piantagioni di tabacco. Miscele di sostanze velenose e afrodisiaci vengono inoltre sperimentate contro varie specie di insetti. Gli specialisti governativi hanno prodotto un afrodisiaco - il metil-eugenolo - che esercita un potere irresistibile sui maschi di Ditteri dannosi ai frutti (Tripetidi). Esso, mescolato ad un tossico, è stato (1) Insetto Dittero produttore di galle. ?N'd'T'* (2) Farfalla della famiglia delle Sfingidi, avente corpo robusto e lunga proboscide, le cui larve si nutrono delle foglie di varie piante, tra cui il tabacco. ?N'd'T'* messo alla prova nelle isole Bonin, situate 700 chilometri a sud del Giappone. Frammenti di compensato furono impregnati con le due sostanze e lasciati cadere dall'alto sull'intera catena di isole per attirare, e nello stesso tempo uccidere, i maschi. Nel 1961, un anno dopo l'inizio di questa "strage maschile", il Dipartimento dell'Agricoltura ritenne che il 99% della popolazione fosse ormai sterminato. Questo metodo, a quanto pare, presenta notevoli vantaggi nei confronti delle solite irrorazioni insetticide: infatti il veleno, un fosfato organico, resta depositato nei pezzetti di compensato ed appare quindi improbabile che gli animali se lo mangino; inoltre i residui si dissolvono rapidamente, cosicché non esistono pericoli di contaminazione né per il suolo, né per le acque. Ma gli insetti non comunicano tra loro solo mediante emanazioni odorose che attraggono o respingono; anche il suono può servire di monito o di richiamo. L'ininterrotto flusso di ultrasuoni emesso da un pipistrello in volo (e di cui esso si serve come di un radar per orientarsi nell'oscurità) viene captato da certi lepidotteri notturni e permette loro di sfuggire alla cattura. Il rumore prodotto dalle ali di alcune specie di mosche parassite mette in guardia le larve di alcuni tentredinidi e le spinge a raggrupparsi per far fronte al pericolo. Per converso, i suoni prodotti da vari tipi di insetti che perforano il legno consente ai loro nemici di scovarli; e, per il maschio della zanzara, il battito d'ali della femmina è come il canto di una sirena. Quale uso può essere eventualmente fatto di questa capacità degli insetti di captare il suono e reagire in vario modo? Anche se ci troviamo ancora ad uno stadio puramente sperimentale, è tuttavia interessante il successo conseguito, per esempio, con certe zanzare i cui maschi, grazie a dischi riproducenti il fruscio prodotto dalle ali delle zanzare femmine, venivano così adescati ed attratti verso una rete elettrica che li sterminava. Anche l'effetto repulsivo provocato da un'improvvisa ondata di ultrasuoni viene oggi messo alla prova nel Canada contro le larve della piralide del granoturco e di Agrotis. (3) Due esperti in fatto di suoni prodotti dagli animali - i professori Hubert e Mable Frings, entrambi docenti presso la Università delle Hawai - ritengono che un metodo pratico per influenzare il comportamento degli insetti nei riguardi del suono sia ormai accessibile: manca soltanto la scoperta appropriata che permetta di aprire ed applicare il bagaglio di conoscenze già acquisite intorno alla produzione e ricezione sonora degli insetti. I suoni repulsivi offrono forse maggiori possibilità che non quelli attrattivi. Tali scienziati sono noti per aver scoperto che gli stornelli si disperdono in tutte le (3) Farfalla notturna dell'ordine Lepidotteri, la cui larva è dannosa all'agricoltura. ?N'd'T'* direzioni, allarmati dal grido lanciato da un loro compagno in pericolo e registrato su un disco; probabilmente in questo comportamento su qualche preziosa realtà che potrebbe venir sfruttata per gli insetti. Del resto, per gente che va subito all'atto pratico come gli industriali, tali possibilità sono abbastanza concrete fin da adesso; infatti, una delle maggiori compagnie di apparecchiature elettroniche sta già allestendo un laboratorio sperimentale a questo scopo. Il suono, infine, viene provocato anche come agente di distruzione diretta. Gli ultrasuoni uccidono tutte le larve di zanzare poste in una vasca, ma purtroppo anche gli altri insetti acquatici vengono ugualmente danneggiati. In altri esperimenti le Calliphora, (4) le larve di Tenebrio molito (5) e le zanzare della febbre gialla, Aedes aegypti, muoiono in pochi secondi quando vengono sottoposte ad ultrasuoni trasmessi dall'aria. Tutti questi esperimenti costituiscono un primo approccio verso una concezione del controllo degli insetti interamente nuova, che i miracoli dell'elettronica potranno un giorno o l'altro tradurre in realtà. Il moderno controllo biotico degli insetti non è solo una questione di elettronica o di radiazioni gamma, o di altri frutti dell'inventiva umana. Alcuni tra i metodi che lo compongono hanno invece radici profonde, basate sulla consapevolezza che gli insetti (4) Insetti Ditteri le cui larve vivono sulla carne. ?N'd'T'* (5) Coleottero la cui larva vive nella farina. ?N'd'T'* - al pari di noi - sono soggetti a malattie. Le infezioni batteriche sterminano le loro popolazioni come le pestilenze sterminavano nel passato gli abitanti di intere regioni; sotto l'assalto di un virus, le loro numerose legioni si ammalano e muoiono. L'esistenza di malattie tra gli insetti era nota ancor prima che Aristotele nascesse; nei poemi medioevali si parla di certi morbi diffusi tra i bachi da seta. Ed è stato proprio attraverso lo studio delle malattie dei bachi da seta che Pasteur ha potuto trovare i primi fondamenti della sua teoria sulle malattie infettive. Gli insetti non vengono assaliti soltanto dai virus e dai batteri, ma anche da funghi, da protozoi, da vermi microscopici ed altri esseri appartenenti all'invisibile mondo della vita infinitamente piccola che asseconda in tutti i modi l'esistenza del genere umano: ed infatti i microbi comprendono, oltre agli organismi che provocano le malattie infettive, anche quelli che distruggono la materia putrescente, rendono fertile il suolo ed entrano in un numero infinito di processi biologici quali, per esempio, la fermentazione e la nitrificazione. Perché non dovrebbero quindi anche aiutarci nel controllo degli insetti? Uno dei primi ad intravvedere la possibilità di impiegare in questo senso i microrganismi fu, nell'Ottocento, lo zoologo E' Metchnikov. Negli ultimi decenni di quel secolo e nella prima metà del Novecento, l'idea del controllo microbico prese lentamente forma. La prima prova conclusiva che un insetto poteva venire posto sotto controllo introducendo una malattia infettiva nel suo ambiente fu raggiunta alla fine del 1930 con la scoperta e la utilizzazione del "milky disease", una malattia causata dalle spore d'un batterio appartenente al genere Bacillus, durante la campagna per reprimere la Popillia japonica. Questo classico esempio di controllo batterico è stato ampiamente sfruttato nelle regioni orientali degli Stati Uniti, come ho già fatto notare nel cap. Vii. Molte speranze sono oggi negli esperimenti che si stanno svolgendo con un altro batterio dello stesso genere - il Bacillus thuringiensis - scoperto originariamente nel 1911 in Germania, nella Turingia, dove aveva provocato una micidiale setticemia tra le larve della Pyralis farinalis. (6) Esso, per la verità, uccide più per intossicazione che per malattia: dentro questo minuscolo bastoncello vegetativo si formano, assieme alle spore, caratteristici cristalli di sostanza proteica altamente tossica per certi insetti, e soprattutto per le larve dei lepidotteri. Subito dopo aver mangiato una foglia ricoperta da questa tossina, la larva comincia a soffrire di paralisi, cessa di nutrirsi e muore in breve tempo. Da un punto di vista pratico, il fatto che l'insetto cessi istantaneamente di nutrirsi costituisce un vantaggio enorme perché i danni al raccolto si arrestano non appena si applica il bacillo patogeno. Composti contenenti (6) Lepidottero le cui larve vivono a spese di molte sostanze organiche conservate, tra cui la farina, diffuso anche in Italia. ?N'd'T'* spore di Bacillus thuringiensis vengono oggi prodotti da varie ditte statunitensi e si trovano in commercio con diversi nomi. Molti altri Paesi stanno effettuando prove in natura: in Francia ed in Germania contro le larve della cavolaia; in Jugoslavia contro la Hyphantria cunea; (7) nell'Unione Sovietica contro la Clisiocampa. (8) Nel Panama, dove gli esperimenti hanno avuto inizio nel 1961, questo insetticida batterico potrebbe risolvere uno o più problemi che assillano i coltivatori di banane: essi non sanno come sbarazzarsi delle larve di un cerambicide, Prionus laticollis, che infestano le radici e (7) Piccole farfalle che si nutrono delle foglie degli alberi da frutta. ?N'd'T'* (8) Vedi nota 7. le indeboliscono ad un punto tale che una raffica di vento può abbattere l'intera pianta. La dieldrina, unica tra tutti gli insetticidi, si è dimostrata efficace contro questo parassita ma, ultimamente, ha provocato tutta una serie di disastri: anzitutto l'insetto infestante sta diventando refrattario; in secondo luogo le irrorazioni hanno distrutto alcuni importanti predatori e di conseguenza determinato un grande aumento di tortricidi - piccoli e tozzi lepidotteri che, allo stadio larvale, intaccano la superficie delle banane. Esistono oggi fondate speranze che il nuovo insetticida microbico riesca ad eliminare i punteruoli ed i tortricidi senza recare danno alcuno al controllo naturale. Nelle foreste orientali del Canada e degli Stati Uniti i disinfestanti batterici potranno forse risolvere il problema di quegli insetti come la Choristoneura fumiferana e la Lymantria dispar. Nel 1960, in ambedue questi paesi venne sperimentato in natura un prodotto commerciale contenente il Bacillus thuringiensis, e alcuni risultati preliminari sono apparsi incoraggianti: nel Vermont, per esempio, l'efficacia del controllo batterico è apparsa non inferiore a quella mostrata dal Ddt. Occorre trovare ora un liquido adatto che contenga le spore in soluzione e, mediante aspersioni, le faccia depositare sugli aghi dei sempreverdi. Per i raccolti, invece, non esiste questa difficoltà poiché la sostanza può essere anche cosparsa sotto forma di polvere. Del resto è stato tentato con successo l'impiego di batteri per la difesa di coltivazioni di molti ortaggi, specialmente in California. Frattanto, forse un po' più in sordina, vengono compiute prove con i virus. Infatti, in California i campi di erba medica sono stati diffusamente cosparsi d'una sostanza altrettanto mortale dei più potenti insetticidi per i bruchi che li infestano: si tratta di una soluzione contenente un virus eccezionalmente virulento, tratto dal corpo dei bruchi morti in seguito alla sua infezione; bastano appena dieci esemplari colpiti da tale morbo per ottenere una quantità di virus sufficiente per il controllo di un ettaro di medicaio. In varie foreste canadesi un virus usato contro i tentredinidi ha mostrato una efficacia tale da sostituire ormai completamente gli insetticidi. In Cecoslovacchia alcuni scienziati stanno cercando di servirsi dei protozoi per la lotta contro vari bruchi ed altri insetti infestanti, mentre negli Stati Uniti si è già accertato che un protozoo parassita riesce a ridurre notevolmente il potenziale di uova deposte dalla piralide del granoturco. Qualcuno ritiene che gli insetticidi microbici possano palesare un'aggressività tale da costituire una minaccia per le altre forme viventi. Ciò non corrisponde al vero: i microrganismi patogeni per gli insetti, al contrario dei composti chimici, sono innocui per qualsiasi organismo, ad eccezione di quelli che costituiscono il bersaglio contro cui vengono rivolti. Il dott. Steinhaus, specialista emerito in fatto di patologia degli insetti, afferma perentoriamente che "non esiste alcun esempio concreto di un microrganismo patogeno per gli insetti responsabile di aver determinato una malattia infettiva in un vertebrato qualsiasi, né in laboratorio, né in natura". I microrganismi patogeni degli insetti sono così specifici che ne infettano soltanto un numero limitato, talvolta soltanto una singola specie; essi non appartengono, dal punto di vista biologico al tipo di organismi che intaccano gli animali superiori o le piante. Inoltre - come il dott. Steinhaus sottolinea - l'esplosione delle malattie infettive degli insetti in natura resta sempre confinata ad essi e non si trasmette né alle piante che li ospitano, né agli animali che se ne nutrono. Ma gli insetti hanno molti nemici in natura - non solo infinite specie di microbi, ma altri individui del loro stesso mondo. Il primo barlume sulla possibilità di controllare un insetto mediante il rafforzamento dei suoi avversari apparve, a quanto sembra, a Erasmus Darwin verso il 1800. Questo metodo di porre un insetto contro un altro è stato il primo sistema di controllo biologico applicato in maniera generale, e forse per questo molte persone ritengono erroneamente che non esistano altre alternative naturali al sistema del trattamento chimico. Negli Stati Uniti gli inizi del controllo biologico sperimentale risalgono al 1888, quando Albert Koebele - primo d'una crescente schiera di esploratori entomologi - si recò in Australia per trovare un efficace nemico dell'Icerya purchasi, un parassita che allora stava devastando gli agrumeti della California. Come abbiamo visto nel capitolo Xv, la missione fu coronata dal più brillante successo e, nel secolo successivo, il mondo fu letteralmente rastrellato per cercare nemici naturali capaci di controllare gli insetti indesiderati, giunti nel nostro ambiente. Complessivamente sono state importate circa 100 specie di predatori e parassiti. Anche altre importazioni, oltre a quella della Rodolia compiuta da Koebele, hanno permesso di ottenere importanti risultati. Un Imenottero importato dal Giappone è riuscito a reprimere efficacemente un insetto molto pericoloso per i pometi delle regioni orientali. Numerosi nemici naturali dell'Afide che trasmette la malattia a chiazze dell'erba medica, trasmigrato incidentalmente in California dal Medio Oriente, si ritiene che abbiano salvato la produzione foraggera. Certi predatori e parassiti della Lymantria dispar hanno dato eccellenti risultati, e così pure lo Imenottero Tiphis impiegato contro la Popillia japonica. Al controllo biologico dei Coccidi, e in particolare del genere Pseudococcus, va il merito di assicurare alla California un beneficio di molti milioni di dollari ogni anno - infatti, uno dei più eminenti entomologi di quello stato, il dott. De Bach, ha valutato che la spesa di 4 milioni di dollari, destinata alle operazioni di controllo biologico, abbia permesso agli agricoltori di evitare un danno pari a 100 milioni di dollari. Da una quarantina di paesi sparsi in ogni parte del mondo viene segnalata una lunga serie di successi conseguiti dal controllo biologico compiuto contro alcuni pericolosi insetti infestanti, grazie all'intervento di nemici naturali colà importati. I vantaggi di tale trattamento nei confronti di quello chimico sono ovvi: il costo relativamente modesto, il perdurare dei suoi effetti ed il fatto che non lascia residui tossici. Tuttavia esso non ha trovato molti sostenitori: si può dire che la California sia l'unico stato che possiede un programma ufficiale di controllo biologico, mentre altrove capita persino che non esista neppure un solo entomologo che vi dedichi tutta la propria attività. Forse si deve a questa scarsa popolarità se l'applicazione di tale metodo ha mostrato spesso la mancanza della accurata preparazione scientifica che esso invece richiede: rare volte si è studiato l'esatto comportamento dei predatori nei confronti degli insetti-preda, ed anche la tecnica adottata per rimettere in libertà le specie selezionate per il controllo ha mancato talora di quel po' di precisione che sarebbe bastato per mutare un fallimento in un successo. I predatori e le vittime non formano un complesso a sé stante, ma fanno parte di un vasto intreccio di vita, e noi ne dobbiamo tener conto. Forse le foreste sono i luoghi più adatti per mettere in opera questi tipi sperimentali di controllo biologico. I territori agricoli a coltura intensiva costituiscono un suolo quanto mai artificiale, e dissimile in tutto e per tutto da quello che la natura ha creato. Le foreste, invece, appartengono ad un mondo diverso, molto più affine all'ambiente naturale: ivi, con un minimo aiuto e senza che l'uomo vi intervenga affatto, la Natura trova la sua strada mettendo in atto tutto quel meraviglioso ed intricato sistema di equilibri e di reciproche limitazioni che protegge gli alberi da un indebito attacco da parte degli insetti. I silvicoltori statunitensi - a quel che pare - hanno pensato che il controllo biologico consista principalmente nell'introduzione di insetti predatori e parassiti. Quelli canadesi hanno una prospettiva più ampia e qualche studioso europeo è andato più lontano di tutti, fino al punto di sviluppare la scienza "dell'igiene forestale" che abbraccia un campo di sorprendente vastità. Secondo i silvicoltori del Vecchio Continente, gli uccelli, le formiche, i ragni di bosco ed i batteri del suolo fanno parte della foresta quanto gli alberi che la compongono: perciò essi si preoccupano di "inoculare" qualsiasi nuova foresta con questi fattori protettivi. La introduzione degli uccelli è il primo passo da compiere. Nella nostra era di silvicoltura intensiva, gli alberi vecchi e pieni di cavità tendono a sparire, e con essi l'asilo per i picchi e per gli altri uccelli che nidificano nei loro tronchi. Si sopperisce a questa mancanza collocando sugli alberi scatole a foggia di nido che inducono gli uccelli a tornare nella foresta; altre cassette vengono riservate alle civette e ai pipistrelli, in modo da permettere a queste creature notturne, di restare sul posto e continuare a sostituire, dal tramonto all'alba, i piccoli uccelli diurni nella caccia agli insetti. Ma questo è soltanto l'inizio. In qualcuna delle più esemplari operazioni di controllo compiute nelle foreste europee, la formica rossa viene impiegata come vorace predatore di insetti: si tratta di una specie che, sfortunatamente, non esiste nel Nord America. Circa 25 anni fa il prof. Gösswald dell'Università di Würzburg trovò il modo di allevare questo insetto e di crearne vaste colonie: sotto la sua direzione ne vennero installate più di 10 mila in una novantina di aree sperimentali della Repubblica Federale Tedesca. Questo metodo è stato poi adottato in Italia ed in altri Paesi, dove si hanno veri e propri allevamenti di formiche rosse che forniscono le colonie da distribuire nelle zone boschive. Negli Appennini, ad esempio, parecchie centinaia di nidi sono stati impiantati per proteggere zone di rimboschimento. Dalla Germania, il dott. Heinz Ruppertshofen, un esperto forestale di Mölln, dice: "Se si può avere in una foresta una combinazione protettiva di uccelli e di formiche, con qualche civetta ed alcuni pipistrelli, si ha già un buon equilibrio biologico». Egli ritiene, infatti, che l'introduzione di tutta la serie di "conviventi naturali degli alberi" sia da preferirsi a quella di un solo predatore. Nella regione boscosa di Mölln, le nuove colonie di formiche vengono protette da reti metalliche perché i picchi non le distruggano; in tal modo questi uccelli voraci - che in qualcuna delle aree sperimentali si sono quadruplicati in 10 anni - risparmiano i formicai, ma si rifanno abbondantemente picchiettando con il loro robusto becco la corteccia degli alberi ed estraendone i dannosi bruchi che vi si sono infiltrati. Buona parte del lavoro necessario per accudire alle colonie delle formiche (ed anche per preparare i nidi artificiali destinati agli uccelli) viene svolta dagli alunni delle scuole locali, tutti i ragazzi dai 10 ai 14 anni. Il costo viene ad essere, pertanto, eccezionalmente modesto ed i benefici consistono nella non trascurabile permanente protezione delle foreste. Un altro aspetto molto interessante dell'opera del dott. Ruppertshofen è l'innovazione che egli ha introdotto nel controllo biologico: l'impiego dei ragni. Sebbene esista una copiosa letteratura sulla classificazione e la storia naturale di questi animali, le cognizioni finora acquisite appaiono piuttosto disorganiche e frammentarie, né ci forniscono alcun lume sulle possibilità di impiegare queste specie nel controllo biologico. Dei 22.000 generi di ragni che si conoscono, 760 vivono sul suolo della Germania (e circa 2000 su quello degli Stati Uniti); e 29 famiglie popolano le foreste tedesche. Per un silvicoltore l'elemento più interessante che offre un ragno è costituito dalla tela che esso costruisce. I ragni con ragnatele circolari hanno grande importanza poiché le maglie possono essere così fitte che qualsiasi insetto vi resta impigliato. L'ampia ragnatela di Araneus diadematus, che raggiunge i 40 centimetri di diametro, porta circa 120.000 noduli adesivi allineati lungo i fili. Un singolo ragno riesce a distruggere, durante i 18 mesi della sua vita, una media di 2000 insetti. Una foresta biologicamente sana ha una popolazione di ragni che oscilla dai 50 ai 150 per metro quadrato. Dove ve ne sono di meno, si può rimediare alla deficienza con la raccolta e ridistribuzione dei bozzoli sacciformi contenenti le uova, e prelevati altrove. "Da tre bozzoli di ragno-vespa", osserva il dott. Ruppertshofen, "nasce un migliaio di ragni, capaci di catturare 200.000 insetti. Particolarmente importanti sono i piccoli e delicati ragnetti che nascono in primavera: tessono infatti, lavorando collettivamente, una tela a forma d'ombrello sui germogli dei rami difendendoli in tal modo dai danni provocati dagli insetti". Poi, a mano a mano che i ragni mutano e si accrescono, la rete viene allargata. I biologi canadesi hanno fatto ricerche analoghe, ma con qualche variante determinata dal fatto che le foreste del Nord America sono per lo più naturali e non piantate dall'uomo, e le specie disponibili per mantenerle "sane" differiscono da quelle impiegate in Germania. Nel Canada, ci si serve soprattutto di piccoli mammiferi, che sono davvero uno strumento impareggiabile per il controllo di certi insetti (soprattutto quelli abituati a vivere nel terreno impregnato d'umidità del sottobosco). Tra tali insetti troviamo i tentredinidi, la cui femmina possiede un organo ovopositore in forma di sega con il quale taglia a metà gli aghi delle conifere per deporvi le uova; le larve ad un certo momento cadono al suolo e si imbozzolano nella poltiglia che si trova sotto i larici delle torbiere o nell'humus ai piedi degli abeti o dei pini. Ma, sotto il pavimento delle foreste, il suolo è un vero alveare di trafori e minuscole gallerie che certi piccoli mammiferi scavano incessantemente: peromischi dai piedi bianchi, arvicole e toporagni di varie specie. Tra tutti questi animali sotterranei sono i voraci toporagni che trovano e distruggono il maggior numero di bozzoli di tentredinidi. Essi si nutrono tenendo fermi i bozzoli con una delle zampette anteriori e recidendoli con i denti per estrarne il contenuto; mostrano una straordinaria abilità nello scartare quelli vuoti e scegliere gli altri. L'insaziabile appetito dei toporagni non ha confronto: mentre l'arvicola può consumare circa 200 bozzoli al giorno, qualche specie di toporagno è capace di divorarne più di 800! Da certe prove di laboratorio risulta che esso, da solo, riesce a distruggere dal 75 al 98% dei bozzoli presenti in un terreno. Non vi è perciò da sorprendersi che gli abitanti di Terranova - un'isola che non possiede tra la sua fauna il toporagno, ma abbonda invece di tentredinidi - abbiano tanto desiderato questo piccolo ed instancabile mammifero da importarne nel 1958 una delle specie tra le più efficienti contro quegli insetti. A quanto riferiscono gli esperti canadesi, nel 1962 il tentativo ha avuto buon successo. I toporagni si stanno moltiplicando e diffondendo in tutta l'isola (qualcuno è stato trovato a circa 16 chilometri di distanza dal punto in cui era stato messo in libertà). Esistono dunque numerosi strumenti di controllo a disposizione dei silvicoltori, che cercano una soluzione permanente al problema di conservare e rafforzare i rapporti naturali tra le varie forme di vita forestale. Il trattamento chimico delle aree boschive, nel migliore dei casi, non fa che mettere una toppa al danno e non apporta alcuna reale soluzione al problema; nel peggiore dei casi, poi, uccide i pesci nei corsi d'acqua che scorrono nella zona forestale, stimola lo sviluppo di altri insetti fino a farli diventare infestanti, e distrugge qualsiasi controllo naturale o quelli che vogliamo cercare di introdurre sperimentalmente. "Con queste energiche misure", afferma il dott. Ruppertshofen, "l'interdipendenza della vita forestale viene sbilanciata completamente e le catastrofi causate dai parassiti si susseguono a ritmo incalzante... Dobbiamo perciò desistere da queste alterazioni contro natura, inflitte al più importante e pressoché ultimo ambiente di vita naturale che ci sia rimasto". Tutti questi nuovi, ingegnosi e creativi propositi di risolvere il problema della coesistenza del genere umano con le altre creature della terra sono guidati da un filo conduttore: la consapevolezza di dover venire a patti con la vita stessa - con tutte le popolazioni che incalzano o sfuggono, risorgono e decrescono. Soltanto se teniamo conto di queste forze vitali e cerchiamo di guidarle con cautela in una direzione a noi favorevole possiamo sperare di raggiungere un ragionevole compromesso con le legioni di insetti che ci circondano. L'attuale smania per le sostanze tossiche non ha tenuto in alcun conto queste considerazioni. Brutale quanto la clava dell'uomo delle caverne, l'ariete del controllo chimico è stato diretto contro gli esseri viventi, questi organismi talvolta delicati e distruttibili, talaltra resistenti, elastici e capaci di reagire con inattesa violenza. Le straordinarie capacità della natura sono state costantemente ignorate dagli esecutori del controllo chimico, i quali hanno eseguito il loro compito senza un poco di preveggenza e senza provare alcun senso di modestia di fronte alle possenti forze naturali che essi volevano disciplinare. Il "controllo della natura" è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l'"Età di Neanderthal", quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l'esclusivo vantaggio dell'uomo. Le cognizioni teoriche e i metodi pratici dell'entomologia applicata risalgono in gran parte a quella che va considerata come l'"Età della pietra" del progresso scientifico. Ed è davvero estremamente triste che una scienza ancora così immatura abbia avuto a propria disposizione le armi più moderne e terribili che, nella lotta contro gli insetti, finisce per rivolgere contro la stessa Terra su cui viviamo. L'Editore ringrazia il Prof. Antonio Servadei, direttore dell'Istituto di Entomologia Agraria dell'Università di Padova, per l'attenta visione scientifica del testo e le opportune note e la bibliografia italiana di cui lo ha corredato. Fine